Eugenio Scalfari utilizza una sua intervista fatta a Luciano Lama nel 1978 per chiedere a Susanna Camusso, alla Cgil e al Sindacato di “anteporre l’interesse generale del Paese al particulare delle singole categorie” e, nella sostanza, a non ostacolare il cammino del governo Monti che – per il fondatore di “la Repubblica” – starebbe perseguendo “una linea riformista e innovatrice”.
Questa lungimirante assunzione di responsabilità del sindacato, che gli farebbe anche riassumere un ruolo da protagonista, si dovrebbe sostanziare nel: “favorire la flessibilità del lavoro in entrata e in uscita” e nell’accettare la riforma-riduzione della cassa integrazione proposta dal ministro del Lavoro. Questo perché, secondo Scalfari, la crescita dipende dalla produttività e questa, a sua volta, da tre elementi: dal costo di produzione, dalla flessibilità del mercato del lavoro e dalla capacità imprenditoriale. La Segretaria Generale della Cgil il di seguente ha risposto all’editoriale di Scalfari con una lettera al direttore di “la Repubblica” nella quale contestualizza le dichiarazioni di Lama, evidenzia le differenze con l’oggi nel peggioramento dei salari, nell’aumento delle diseguaglianze e sostiene che, mentre la Cgil mette sempre al centro della sua strategia il lavoro e l’occupazione, è la precarietà il problema più urgente da affrontare se si vuole favorire lo sviluppo.
Ma che le simpatie del giornale diretto da Ezio Mauro non contemplino le posizioni e le preoccupazioni della Camusso e della Cgil viene evidenziato dal titolo su cinque colonne con il quale, nello stesso giorno, si dà per acquisito che il governo eliminerà l’articolo 18 per i nuovi assunti.
Nel frattempo Istat informa che a dicembre 2011 il tasso di disoccupazione è salito all’8,9%: si tratta del dato più alto dal gennaio 2004, anno d’inizio delle serie storiche mensili. Se si prendono in considerazione le serie storiche trimestrali, invece, per ritrovare un tasso di disoccupazione così alto bisogna tornare al terzo trimestre del 2001. L’’Istat ha anche diffuso i dati provvisori della disoccupazione riferiti a dicembre 2011. Il numero di disoccupati ha raggiunto quota 2 milioni e 243mila (+20mila rispetto a novembre), tornando ai livelli di dieci anni fa. Un peggioramento consistente dovuto soprattutto all’incremento della disoccupazione maschile. La disoccupazione maschile cresce, dunque, del 5,1% rispetto a novembre e del 15,1% su base annua. In Italia quasi un giovane su tre, di coloro che partecipano attivamente al mercato del lavoro, è disoccupato. A dicembre il tasso di disoccupazione giovanile si è attestato al 31%.
Per quanto riguarda il reddito dei lavoratori, prendendo sempre a riferimento il mese di dicembre, le retribuzioni salgono, rispetto allo stesso mese del 2010, in media solo dell’1,4%, mentre l’aumento dei prezzi risulta più che doppio (+ 3,3%) e il divario tra prezzi e salari registra la maggiore distanza dall’agosto del 1995. Non stupisce quindi che nella classifica della disuguaglianza l’Italia occupi le ultime posizioni tra i paesi dell’Ocse, risultando il reddito medio del 10 per cento della popolazione più ricca di oltre dieci volte superiore a quello del 10 per cento più povero: 49300 euro contro 4887.
Se prendiamo a riferimento la situazione della Germania questa si presenta in controtendenza, non solo nei confronti di quella italiana, ma delle principali nazioni europee e degli stessi Stati Uniti: le retribuzioni dei lavoratori tedeschi dal 1985 ad oggi sono cresciute del 30 per cento in termini reali e la disoccupazione è scesa ai minimi storici. Secondo le statistiche diffuse dall’agenzia per l’impiego, il rapporto tra persone in cerca di lavoro e la forza lavoro é infatti sceso a gennaio al 6,7% mentre il numero di disoccupati é calato di 34mila unità a 2,85 milioni.
Per evidenziare l’efficacia della politica industriale tedesca in difesa dell’occupazione che è sin qui riuscita, pur in presenza della crisi, ad evitare licenziamenti di massa, Federico Rampini prende a riferimento un commento dell’autorevole “Washington Post” che plaude alla politica di protezione dei posti di lavoro adottata dalla Germania. In particolare l’articolo del quotidiano della capitale USA, nel plaudire alla politica di protezione dei posti di lavoro tedesca applicata all’ultima crisi, sottolinea il ruolo avuto dalla legge del 2009 sul Kurzarbeit che: “incentiva le aziende in crisi a mantenere in servizio i propri dipendenti, sia pure a salario e orario ridotto, con lo Stato che interviene a versare la differenza nelle buste paga”. “Così – prosegue – hanno salvato mezzo milione di posti di lavoro e ciò ha consentito alle assunzioni di ripartire più velocemente con l’arrivo della ripresa, perché, a differenza di chi viene licenziato e rimane inattivo, i lavoratori coinvolti nel Kurzarbeit non hanno perduto il proprio addestramento e il proprio Know how”.
Valutazioni che dimostra di non condividere Eugenio Scalfari il quale, nella controreplica stizzita e più del consueto arrogante alla risposta della Segretaria della Cgil Susanna Camusso, torna a interpretare a proprio uso l’intervista di Luciano Lama per pretendere dal sindacato la licenziabilità, la moderazione sindacale e la riduzione della cassa integrazione, con la finalità di: “far diminuire la disoccupazione e aprire l’occupazione alle nuove leve giovanili”. Vista questa palese e non nuova insofferenza sua e del giornale che ha diretto nei confronti del ruolo e dell’autonomia del Sindacato e, in particolare, della Cgil e della Fiom, analogamente Scalfari non concorderà con l’opinione del “New York Times” che, con riferimento ai risultati economici e di occupazione della Germania, ha osservato come: “a prescindere dal colore politico dei cancellieri che hanno governato a Berlino – socialdemocratici o cristiano/democratici – tutti hanno impedito la decimazione dei sindacati che è avvenuta invece in America”. E ancora: “la forza dei sindacati è una delle spiegazioni per cui le classi lavoratrici e il ceto medio in Germania hanno goduto di un maggiore benessere rispetto a noi americani”.
Ma se Scalfari sembra ritenere che basterà eliminare l’articolo 18, lanciare finalmente in Italia la flexicurity e liberalizzare il mercato del lavoro perché il paese si tiri fuori dalle secche in cui è finito tornando a creare sviluppo e lavoro, un altro editorialista di “la Repubblica”, il professore Luciano Gallino, la pensa in maniera differente se non opposta. Quando boccia come semplificazione ideologica questa impostazione e ricorda che: “già trent’anni fa cominciarono gli attacchi alla presunta rigidità del mercato del lavoro e all’articolo 18. Ma personalmente non ho mai letto uno studio, una ricerca che provasse una relazione verificabile tra questa presunta rigidità e la crescita dell’occupazione”. In quanto: “la riforma del mercato del lavoro, da sola, non crea occupazione e non è la crescita a generare occupazione, ma esattamente il contrario: è la creazione di posti di lavoro a produrre crescita”. Occorre di conseguenza lavorare: “con serie politiche industriali, di stampo keynesiano, per la creazione diretta di posti di lavoro”.
In questo campo il paese più virtuoso risulta anche per Gallino la Germania. E uno dei motivi sta nel fatto che: “i sindacati sono molto forti, soprattutto nelle grandi aziende dove hanno il 50 per cento dei rappresentanti nei Consigli di sorveglianza. Non è un caso che in questo paese negli ultimi anni non si sia praticamente più licenziato. Basti ricordare gli accordi che flessibilizzano, in momenti di crisi, gli orari di lavoro, con la riduzione da 39 a 27 ore settimanali e con una perdita di salario di appena il 4 per cento grazie agli interventi dell’azienda e dello Stato”. L’accordo alla Siemens del 2010 che blocca i licenziamenti in tutto il mondo (210.000 addetti) fino al 2013 rappresenta un indirizzo che Gallino auspica possa essere seguito anche in Italia, ad esempio, in grandi aziende come Fiat e Finmeccanica dove determinerebbe una ricaduta importante in tutta la catena dell’indotto legata ad appalti e subappalti.
Analisi e giudizi che lo Scalfari di oggi, che con paternalistica fermezza richiama ad una maggiore responsabilità la Camusso e la Cgil, di certo non può condividere. Resta a questo punto da sapere se potremo ancora leggere gli interventi, sempre puntuali e documentati, del sociologo di Torino sul quotidiano diretto da Ezio Mauro.
Renzo Penna