Se la leggenda di Gagliaudo e della sua mucca Rosina che salvano Alessandria dalle mire di Federico Barbarossa è conosciutissima[1], meno nota è quella che ha come protagonista la regina Pedoca[2].
Si narra che la feroce regina tedesca Pedoca, a capo di un poderoso esercito, cinga d’assedio Alessandria, approssimativamente una decina di anni dopo la fondazione della città[3], ossia intorno al 1178. Appena arrivata, fa piantare delle viti attorno alle mura, giurando a se stessa che non se ne sarebbe andata prima di aver bevuto il vino prodotto con quell’uva[4]. Dopo sette anni si raccolgono i primi acini, ma Alessandria resiste ancora e Pedoca è costretta a tornarsene in Germania con le pive nel sacco. La regina, che già pregustava il sangue degli assediati, al suo posto, fa spargere a terra il vino contenuto nelle botti[5].
Il racconto, frutto della fervida fantasia popolare, evoca però un fatto reale: le notevoli devastazioni subite dai poggi coltivati a vite intorno al borgo di Bergoglio da parte dell’esercito imperiale. Una norma dell’epoca prevede, infatti, che ogni cittadino debba piantare vigne nella sua proprietà allo scopo di fornire alla città un prodotto e un reddito.
Tale esempio di ottusa stupidità è stato celebrato da un detto: “Tej fùrb c’mè Pedoca – Sei furbo come Pedoca” (detto per antitesi)[6]
In merito alla genesi dell’appellativo di Pedoca, che fa pensare a una malformazione congenita delle estremità, si possono formulare diverse ipotesi.[7] Secondo alcuni, deriverebbe dai canti popolari del medioevo che celebravano Bertrada di Laon, conosciuta come “Berta dal gran piè”, moglie di Pipino il Breve – re dei Franchi dal 751 al 768 – e madre di Carlo Magno, così soprannominata per via di un piede più lungo dell’altro.[8]
Altri autori ritengono si tratti di Genoveffa di Brabante[9], protagonista dell’epica storia d’amore con il duca Sigfrido, oppure di Berta di Borgogna[10], con i piedi d’oca, che dopo essere stata moglie del conte di Chartres, va in sposa al cugino re di Francia Roberto II il Pio.
Sicuramente l’intento della leggenda è di esaltare la tenacia degli alessandrini nel difendere la loro libertà appena conquistata. Tale blasone può essere ben sintetizzato attraverso la celebre frase attribuita a Gagliaudo che scoraggiò il Barbarossa dalla conquista della città: “In cederran mai i lisandren, in cederran”, utilizzato dall’Alessandria Calcio come slogan della campagna abbonamenti per la corrente stagione.
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[1] Alessandria, fondata ufficialmente nel 1168, viene sottoposta a un lungo assedio da parte delle forze imperiali (dal 29 ottobre 1174 sino al venerdì santo del 12 aprile 1175). La tradizione assegna un ruolo decisivo a Gagliaudo Aulari, un astuto popolano, che suggerisce al Consiglio degli Anziani, riunito al Castello di Rovereto, un brillante stratagemma: nutrire con tutte le granaglie e i viveri rimasti in città una mucca, per poi farla uscire dalle mura a pascolare. I soldati di Barbarossa catturano Gagliaudo e uccidono la bestia, rimanendo meravigliati dal contenuto del suo stomaco. L’Imperatore, informato dell’accaduto, chiede spiegazioni all’Aulari, il quale conferma che gli alessandrini sono ben lontani dall’intenzione di arrendersi avendo ancora così tanti viveri a disposizione da permettersi di rimpinzare le proprie vacche. Barbarossa, esterrefatto, toglie l’assedio.
[2] Tra gli autori che richiamano la leggenda di Pedoca ricordiamo: Luigi Schiavina “Annales Alexandrini” Torino, 1857; Giovanni Jachino “Il libro della croce. Studi ed analisi con appendice intorno ad alcune leggende alessandrine”, Alessandria 1888; Arturo Graf “Estratto dal Giornale storico della letteratura italiana, vol. XII”.
[3] Nicola Basile, articolo di giornale intitolato “Pedoca”, 1960
[4] A parere di Arturo Graf il nome Pedoca potrebbe derivare da una certa qualità d’uva chiamata “regina” che ha la foglia a forma di piede d’oca. Un’altra nota curiosa riguarda il moscato d’Amburgo, originario dell’Inghilterra, che viene chiamato “black of Alessandria”.
[5] Lorenza Lorenzini e Marco Necchi, “Alessandria storia e immagini”, Il Quadrante, 1982
[6] Il comportamento che Franco Castelli chiama “pedochismo”, ossia il vizio autolesionistico e gusto per antifrasi.
[7] Nell’ambito del corso Ritratti dall’Alba, organizzato nella primavera del 2014 da Efal Alessandria, Piercarlo Fabbio ha delineato molto bene la figura della regina Pedoca.
[8] Il troviero Adenet le Roi scrive nel 1270 un poema in metrica intitolato “Li Roumans de Berte aus grans piés” in cui s’immagina che al re Pipino, il giorno delle nozze, venga sostituita la promessa sposa con la figlia di una dama di compagnia molto somigliante. Nel frattempo, Berta trova rifugio presso la casa di un taglialegna, guadagnandosi da vivere come filatrice. L’incresciosa situazione verrà risolta grazie alla particolarità dei piedi della principessa che la faranno riconoscere! Al nome di Berta è legato anche un altro famoso detto: “non sono più i tempi che Berta filava”, che sta a indicare un periodo molto antico e ormai terminato.
[9] Il personaggio di Genoveffa di Brabante è stato reso popolare dalla “Legenda aurea” di Iacopo da Varazze (sec. XIII). Genoveffa, andata in sposa al conte palatino Sigfrido, è ingiustamente accusata d’adulterio dal malvagio Golo, vedendo riconosciuta la propria innocenza soltanto poco prima di morire.
[10] Considerata la stretta parentela, il matrimonio tra Berta e Roberto poteva ravvisare l’incesto. Infatti, Papa Gregorio V prima infligge ai due coniugi sette anni di penitenza, poi intima al sovrano di ripudiare Berta. Nel momento in cui anche il successore al soglio pontificio, Silvestro II, conferma la condanna, Roberto il Pio decide obtorto collo di sottostare all’annullamento matrimoniale.