di Enrico Sozzetti
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Il fallimento del sistema del trasporto pubblico in Italia può essere declinato con l’accento romano oppure con quello alessandrino. Piemonte peggio di Roma, allora? No. Sul piano dei numeri il buco miliardario dell’Atac di Roma è ovviamente irraggiungibile. Ma sul ‘sistema’, Alessandria se la cava egregiamente. Perché quello che sta accadendo in questa parte del Nord Ovest d’Italia, lontano dalle cronache quotidiane almeno per queste vicende, è esemplare proprio del ‘sistema’ che oggi colloca il Paese agli ultimi posti rispetto alla qualità di alcuni servizi pubblici, come sta accadendo per il trasporto pubblico. Certo, si dirà, l’Italia in fondo è, e resta, una nazione schiava delle lobby della gomma.
Ma qui siamo di fronte anche ad altro. La storia si può tranquillamente raccontare partendo da alcuni passaggi di un pezzo scritto da Sergio Rizzo e Gian Antonio Stella del Corriere della Sera. “Con l’Atac è fallito un modello assurdo di relazioni industriali incentrato sul rapporto perverso fra i sindacati e la politica. Ed è anche il fallimento di un sistema clientelare – si legge – per il quale l’interesse dei partiti, delle correnti e dei comitati d’affari (che spesso coincidono con i partiti) prevale sempre sull’interesse pubblico”. E ancora: “Così all’Atac, dove i contratti venivano negoziati direttamente fra i sindacati e i politici, scavalcando i vertici aziendali, il risultato era che un autista di tram guidava 700 ore l’anno contro le 850 di un suo collega napoletano e addirittura le 1.200 di un milanese”.
Non i numeri della romana Atac, ma la condizione successiva ricorda molto da vicino quanto avviene all’Atm di Alessandria: “Lo stato dei mezzi – scrivono sempre Rizzo e Stella – è pietoso, su 2.300 autobus disponibili ce ne sono 600 letteralmente inservibili. Per il trasporto, ovviamente: servono come pezzi di ricambio”.
Ed eccoci ad Alessandria, con la locale azienda di trasporto ormai tecnicamente fallita. Passano le amministrazioni, centrodestra o centrosinistra che sia, ma una costante c’è: il buco nel bilancio. L’ultimo chiuso in utile è del 2011 con diecimila euro. Come abbia fatto l’Atm non si sa. O meglio, i contributi esterni degli enti pubblici pagatori andavano a coprire tutto quanto. Poi si comincia: cinque milioni di rosso nel 2012, sei milioni nel 2013, un milione nel 2014. Tre annate equivalgono a un fallimento di fatto. Non basta. La proprietà (Comune di Alessandria col 94,4 per cento, Torino con lo 4,52 e Valenza con lo 0,94) decide di cambiare i vertici. Il precedente presidente, Gian Franco Cermelli, è dell’area dei Moderati e non piace più. Via tutti, allora. E il sindaco di Alessandria, Rita Rossa, evidentemente in piena intesa con il primo cittadino di Torino, Piero Fassino, sceglie di fare arrivare proprio dalla capitale regionale i dirigenti che devono avere un solo obiettivo: completare l’operazione con la Gtt dove l’alessandrina Atm avrebbe dovuto planare. Giancarlo Quagliotti, presidente del cda, Gabriele Bonfanti, consigliere (è dirigente della Gtt) e il consigliere Monia Barrasso (valenzana, è l’unica rappresentante locale) ci lavorano, cominciano a spulciare le carte, passano al setaccio i bilanci e i conti. Però dopo tre mesi dalla nomina capiscono di essere seduti sul classico barile di dinamite. Con quasi nove milioni di deficit, dei debiti enormi che vanno dai dieci milioni con l’Inps ai sei milioni con i fornitori solo per citarne alcuni (cifre fornite anche dai sindacati), l’Atm non ha solo le gomme sgonfie e gli pneumatici forati, ma è ampiamente fuori strada.
La situazione non è più governabile. La tensione aumenta, i sindacati del settore annunciano la proclamazione dello stato di agitazione con i lavoratori “stanchi di pagare le scelte di altri e di guidare dei bus obsoleti”, come afferma Giancarlo Topino della Filt Cgil di Alessandria. Che ormai sia stato raggiunto il punto di non ritorno lo ammette lo stesso consiglio di amministrazione quando parla della impossibilità di “sostenere la continuità aziendale alla luce del nuovo assetto normativo dettato dal testo unico sui soggetti partecipati degli enti locali” e quindi della necessità di “procedere a un radicale percorso di riforma strutturale sia dell’azienda, sia degli atti di programmazione dei servizi di trasporto pubblico alessandrino, anche alla luce della impossibilità della Regione di rivedere, al rialzo e a breve, le risorse finanziarie di bilancio destinate al settore”.
Quagliotti per primo sa bene, alla luce della navigata esperienza politica, quando si avvicina il punto di non ritorno. Ecco così arrivare la convocazione dell’assemblea straordinaria dei soci per il 17 marzo, alle 18, nello studio del notaio Ettore Morone di Torino. Già. A Torino e nello studio di un notaio. Perché? Il consiglio di amministrazione sarebbe pronto a rimettere il mandato e ad aprire le porte alla liquidazione.
Il futuro dell’Atm? Potrebbe essere lo scorporo dell’attività di trasporto pubblico, con il passaggio del servizio e di almeno 130 dipendenti (su oltre duecento) all’interno della galassia societaria del Gruppo Amag che ad Alessandria gestisce il servizio acqua, gas e rifiuti. Forse all’Amag potrebbe essere ceduto anche il parcheggio di via Parma, una delle opere non certo meglio riuscite nel capoluogo e che oggi ha un costo di un milione all’anno non certo compensato da entrare equivalenti. Gli altri lavoratori? Destino segnato. E si vedrà a chi la politica attribuirà la responsabilità. Non certo comunque a se stessa, visto che le aziende partecipate sono di altri quando ci sono i problemi, del Comune capoluogo quando c’è (molto raramente, in verità) qualche merito da prendere. Sì, perché di colpevoli nel pubblico non ve ne sono mai.
Il servizio rifiuti si paga, il trasporto pubblico no. Questo il motivo per cui che si chiami Atac oppure Atm, un’azienda di questa natura deve per forza fallire? Una possibile risposta arriva però da Cremona, città di 71.000 abitanti. Qui la multinazionale Arriva (55.900 dipendenti e oltre 2,2 miliardi di viaggi passeggeri effettuati in 14 Paesi europei, è controllata dalle Ferrovie tedesche) ha rilevato all’inizio dell’anno il cento per cento del capitale della Km Spa, la società di trasporto locale. Così anche i bus di Cremona sono finiti nel portafoglio della Deutsche Bahn. Il valore dell’operazione di Cremona? Poco più di tre milioni e mezzo di euro.