Genova [Il Superstite 208]

Arona Danilo nuovadi Danilo Arona

 

Più di una volta mi sono sorpreso a considerare che è Genova la città in cui mi sarebbe piaciuto vivere se già non vivessi ad Alessandria. E lo è ancora, ancora di più, in questi giorni.

Si possono elencare mille motivi: il mio amore incondizionato per la Liguria, le prime pulsioni dirette a una ragazzina genovese che non ne seppe mai nulla, il pesto e la cima, i New Trolls e il mio amico Marco Pepè.

Ma più di tutto poté l’Università che frequentai in via Balbi, dal ’70 al ’74. L’Università con le sue tante propaggini: il Bar (appunto) dell’Università, la mensa di via del Campo, via Pré che bastava scendere una scalinata, pomeriggi al cinema a vedere cose che voi umani (a fine proiezione di Cyclops il vampiro in una sala d’essai conobbi Nuccio Lodato e Giuliana Callegari), il Betatron nonché insegnanti degni di consacrazione filmica o letteraria quali il Faina, il Della Casa o la Antonelli.
Sì, mi rendo conto che sta diventando un pezzo per iniziati. E torno subito a temi di carattere più generale. Che poi si riduce a uno solo e non so come chiamarlo, se amore o morbo dello scimmione. Ma ricordate un po’ voi dove stavate dai 20 ai 24 anni e tiratene le conseguenze. Genova, via Balbi, facoltà di lettere e filosofia, laddove le pupe sopravanzavano numericamente i maschietti 10 a 1, e me le ricordo – quelle che ricordo – quasi tutte straordinariamente belle, sempre sorridenti e ancora imbevute dell’amore rivoluzionario degli anni ’60.

Il treno da Alessandria partiva alle 7,38. Sotto la pensilina una giovane umanità fremente eSuperstite 208 già disponibile a misurarsi a tenzoni di destra e sinistra, di film del piffero e di esami di gruppo con 30 politico. Prima fermata a Novi Ligure e da lì salivano vere e proprie truppe di femmine dando l’impressione che Novi fosse la città delle donne e gli alessandrini già prendevano a disperdersi per i vari scompartimenti. Così ad Arquata, Serravalle e infine Principe (le pupe del Magistero scendevano invece a Brignole), la prima stazione che si apre diretta su Balbi. L’umanità fremente scendeva con allegria e si disperdeva nei vari punti, strategici e non. Per quel che mi riguardava, era obbligatorio il secondo caffè al Bar dell’Università dove, nonostante non fossero ancora le 9, il Ruscin, Antonio e un tal Gaber già ci davano dentro con le boccette sul panno verde.

Sono stati quattro anni (e oltre) meravigliosi. Non perché i fatti miei lo fossero, ma perché meravigliosa era, e lo è tuttora, e lo sarà sempre, Genova. Con il suo sole, il vento caldo, i profumi già allora speziati, la puzza dei caruggi, le bagascie, le piccole botteghe dove potevi fare l’affare o ritrovarti con il bidone del secolo. E, citando Dalla, le ragazze, quelle che poi non ti chiedono il matrimonio.
Oh, ma vi garantisco che studiavo, anche. Certi pipponi di seminari di filosofia morale e antropologia culturale che si dovevano giuridicamente seguire. Ma ci si poteva divertire anche studiando, ad esempio con il meraviglioso corso di Storia Critica del Film tenuto da Gianfranco Bettetini con monografia sull’Espressionismo Tedesco. Una faccenda che ti faceva sostenere un esame su Nosferatu e Caligari. Non so se mi spiego.

Ma il massimo, ci ritorno obbligato, era camminare per Genova. Su di lei, sopra e sotto. Perché Genova è un corpo asimmetrico, ondivago, pieno di oscuri e affascinanti anfratti e di ripide fughe in salita. Camminarci da solo o mano nella mano con qualche tipa del decennio. Ci ho camminato giorni, settimane, mesi. Si trovava sempre un buon pretesto per camminare. Qualche volta per correre se mancavano pochi minuti alla partenza del treno del ritorno. E una volta nell’ottobre del ’70 in via Venti sorpreso da un’acquazzone che in prospettiva pareva una bomba d’acqua di un millennio ancora lontano, mentre filavo verso Brignole a cercare un riparo da quella che sarebbe stata una delle troppe e devastanti alluvioni.

La vita poi mi ha fatto tornare a Genova più volte. Con qualche casa editrice, il già citato Marco, la mia grande amica Nadia Morbelli, persino con un concerto in posto a strapiombo sul mare che penso non esista più, un bel convegno su Mario Bava e la presentazione della copia restaurata de L’uccello dalle piume di cristallo.
Ma il sapore è cambiato. Come recitava il titolo originale di un vecchio film di Nicolas Roeg, Bad Time Running.
E sarà pure cambiata Genova, passata attraverso alluvioni e tragedie come il G8 e il crollo della torre del porto.

Si cambia, ma si resiste e, come ho letto su una maglietta, non c’è fango che tenga.
Genova torna, più bella e più arrogante di prima. Sotto quei caratteri un po’ burberi e all’apparenza poco loquaci, palpitano tempre dure come l’acciaio e cuori generosi. Questo l’ho imparato allora, dal ’70 al ’74, irripetibile periodo per il quale potrei sul serio salire sulla macchina del tempo.

Ah, per stemperare la melassa: ho scoperto qualche anno fa che quel tal Gaber che spesso giocava a biliardo al Bar dell’Università sin da ore antelucane forse altro non era che un certo Donato Bilancia.
Genova ti sorprende sempre.