Gastronomo, cuoco, filosofo della cucina, insegnante, giornalista. Luigino Bruni è certamente tutto ciò, e insieme qualcosa di più: ma se gli chiedi quale di queste definizioni trova più consona riflette un po’ in silenzio, osservandoti, e poi commenta: “certamente un gastronomo serio non può non essere anche un cuoco, e non avere consapevolezza della storia della cucina del territorio”. Incontrarlo significa confrontarsi con gli ultimi quarant’anni di cucina alessandrina, ma anche esplorare ad ampio raggio un universo, quello della cultura del ‘buon cibo’ (e del buon bere) che Bruni frequenta ben oltre i confini locali: durante la nostra chiacchierata ha già la valigia pronta, per un tour ‘professionale’ che lo terrà itinerante per venti giorni, con importanti appuntamenti prima in Francia, e poi di nuovo in giro per l’Italia. Ma Alessandria è e rimane il suo baricentro, di vita e professionale.
Dottor Bruni, partiamo dall’inizio: che nel suo caso, come per tanti altri ragazzi della sua generazione, è politico, e non gastronomico. Ci fu il ’68, poi Lotta continua, il sindacato….il tutto tra Alessandria e Milano, giusto?
Sì, è così. Fino alla prima metà degli anni Settanta certamente l’impegno politico e sociale pesò in maniera significativa. Per me quelli furono gli anni degli studi in Economia e Commercio in Cattolica, e al contempo certamente anche della militanza in Lotta Continua, tra Milano e Alessandria. In parallelo però, grazie all’incontro con Tiziano Treu, mio docente di Diritto del Lavoro in Cattolica, ci fu l’avvio della collaborazione professionale con la Fim Cisl, che all’epoca aveva sede a Milano. Per cui, parallelamente agli studi, partecipai a trattative sindacali anche importanti per l’epoca, naturalmente nel ruolo di giovane tecnico che ascoltava, prendeva appunti, elaborava dati. Lo stesso ruolo lo svolgeva, per Fiom Cgil, Piergiorgio Bellocchio, fratello del regista e poi importante critico letterario. E diventammo amici. Poi, sempre in ambito sindacale, vinsi un paio di borse di studio: la prima per la Spagna, la successiva per Lisbona, in Portogallo. E all’epoca significava confrontarsi con Paesi non democratici, in cui la stessa circolazione delle informazioni (giornali e libri) era estremamente difficoltosa. Una bella esperienza.
E la cucina? Come e quando Luigino Bruni passa dalle lotte di piazza alla cultura del cibo?
Fu un processo graduale. In realtà già durante i primi anni di università, condividendo l’alloggio a Milano con altri studenti, cominciai a dilettarmi ai fornelli. Ma soprattutto, per pagarmi la settimana bianca o le vacanze estive, cominciai in quegli anni, ancor prima dell’impegno sindacale, a lavorare al bar e in cucina al President Hotel di Cervinia, ma anche in altri locali di Gressoney e di Chiavari. Furono passaggi fondamentali, in cui cominciai a rendermi conto cosa significava occuparsi di cibo e ristorazione, sul campo.
Ma quando arrivò la svolta, ossia la scelta consapevole verso l’impegno gastronomico?
Ad un certo punto mi resi conto che sia Lotta Continua che il sindacato non facevano più per me: per motivi diversi, ma c’erano elementi di dissonanza verso entrambe le strutture. Per cui cominciai ad insegnare elettrotecnica (grazie al mio diploma e non alla laurea), in istituti tecnici milanesi fino al 1986, e poi in provincia: al Volta, al Fermi, e in ultimo al Ciampini di Novi: fino alla pensione, qualche anno fa. In parallelo, però, ad un certo punto si avviò l’impegno come insegnante in scuole del settore gastronomico, dall’Alberghiero di Acqui Terme, all’Artusi di Casale. Ma la vera scintilla per la cucina, e ciò che le gira attorno in termini culturali, scattò alla fine degli anni Settanta, grazie all’incontro fondamentale con Giancarlo Bertolino.
Ce lo racconta?
Con Giancarlo (con cui avevamo in comune il mestiere di insegnante, ma soprattutto appunto la passione per l’enogastronomia) la conoscenza avvenne sul fronte spagnolo: nel senso che nel periodo in cui lavoravo là come borsista del sindacato, mi adoperai per far entrare in Spagna libri e giornali che là erano vietati, e in quel contesto entrai in contatto con Bertolino, e diventammo amici. Qualche anno dopo, a lui venne l’idea, straordinariamente innovativa per l’epoca, di fondare l’associazione Tanto per gradire (espressione tipica con cui i contadini un tempo rispondevano a chi offriva loro qualcosa da bere e da mangiare), autentica ‘antesignana’ di ciò che da lì a poco sarebbe stata Arci-Gola, nata per iniziativa di Carlin Petrini da una costola dell’Arci. Bertolino ed io partecipammo al convegno fondativo di Arci-Gola, a Siena: e in parallelo presero il via le prime iniziative alessandrine, che si tenevano al circolo Matteotti di via Faà di Bruno.
Chi furono i vostri primi compagni di viaggio?
All’inizio facevamo essenzialmente degustazioni, e incontri con esperti del settore: il macellaio, il pescivendolo, i fornitori di materie prime in genere. Si discuteva dei prodotti, e si proponevano alcuni piatti. Con me e Bertolino c’erano Carmi, esperto di cucina ebraica, e Giancarlo Gatto, della gastronomia Il gatto nero. Poi via via si aggiunsero altre figure.
Nel frattempo Arci-Gola diventa Slow Food: lei fu il primo fiduciario della Condotta alessandrina, e nel frattempo cominciò a scrivere e pubblicare libri di cucina….
Esattamente: i primi libri li scrissi a quattro mani con Giancarlo Bertolino (Alla ricerca della cucina alessandrina, Ricette alessandrine, Sua Maestà l’agnolotto), che nel frattempo però decise di dedicarsi ad altro, e fu protagonista importante della vita politica alessandrina, e di progetti culturali come la Biennale di poesia e musica. Io continuai da solo (Appunti di cucina alessandrina, La cucina alessandrina nelle sue diverse edizioni, e altri ancora), e nel frattempo divenni, nel 1988, fiduciario di Slow Food: e lo sono stato fino a 2 anni, quando sono diventato presidente onorario, passando il testimone al giovane Francesco Penno, di Solero. Per dedicarmi nel frattempo in parte anche a progetti extra territorio, che mi portano a viaggiare e spostarmi parecchio. E, da ormai più di vent’anni, curo su La Stampa la rubrica domenicale di gastronomia.
Quanto è vitale oggi Slow Food sul nostro territorio? Cosa fate insomma?
Molte cose, cercando di coniugare sempre la cultura enogastronomica del territorio con il suo passato, ma anche guardando al futuro. Non è vero che i ragazzi e le ragazze di oggi non siano interessati ad un approccio ‘pensato’ e critico rispetto al cibo. Il fast food, insomma, non è vissuto come ottimale da nessuno. Il punto naturalmente è saper sviluppare iniziative al passo coi tempi, coinvolgenti e divertenti. L’8 giugno prossimo ad esempio, in Galleria Guerci, proporremo il Pranzo della Fratellanza del tempo napoleonico, in collaborazione con Comune, Camera di Commercio, Ascom, e anche alcuni esercizi della Galleria. Riprodurremo il menu tipico dell’epoca, con alcuni piatti davvero straordinari, accompagnati dai vini del Marengo Doc. E l’entusiasmo che c’è attorno all’iniziativa dimostra che è la strada giusta da percorrere.
E all’orizzonte c’è Expo 2015: per il settore enogastronomico di casa nostra, una potenzialità davvero da sfruttare…
Infatti stiamo lavorando su due proposte che non sono ancora ufficiali, ma che stanno trovando forte interesse, e credo potranno diventare due appuntamenti di forte richiamo per tutto il periodo di Expo 2015 (maggio-settembre), in grado di valorizzare fortemente alcuni luoghi e monumenti del nostro territorio, a partire da Marengo ma non solo. Il progetto prevede un pranzo o una cena del tempo napoleonico da realizzare in luoghi di particolare fascino e richiamo, ad Alessandria e città come nel resto della provincia. Con la possibilità naturalmente di affiancare al menu ‘storico’ anche proposte legate all’eccellenza gastronomica ed enologica di casa nostra. Ne stiamo parlando in queste settimane con le istituzioni e le associazioni di categoria, e i presupposti per un’iniziativa di successo ci sono davvero tutti.
Ettore Grassano
Grazie per le splendide fotografie in bianco e nero all’amico Mario Coscarella, e al suo formidabile archivio