Ci sono poche cose che possono rivaleggiare con la magia di una partita in notturna fra due squadre di calcio: non deve essere un caso che alcuni dei miei ricordi più belli a livello di atmosfera riguardino incontri giocati sotto le luci dei riflettori, e poco importa se si parla di un Brescia-Villareal di Intertoto con oltre seimila tifosi ad illuminare con gli accendini una delle più belle curve d’Italia o di un Alta Val Borbera-Silvanese di Seconda Categoria da unico spettatore fuori dal campo: una notturna è come una cena a lume di candela fra due innamorati.
Per fortuna anche il presidente dell’Alessandria Di Masi la pensa come me – almeno a sentirlo in conferenza stampa dopo il 2-1 al Mantova – e che si augura di essere in C unica l’anno prossimo anche perchè si giocheranno molti anticipi e posticipi per esigenze televisive e quindi le gare in serata diventerebbero da una eccezione una piacevole alternativa. In effetti, il calcio illuminato dalle luci dei riflettori è quello delle partite delle coppe europee della mia infanzia e della mia giovinezza: quando tutte le squadre giocavano il mercoledì, i diritti delle partite erano saldamente in mano a mamma RAI e nelle fortunate stagioni a cavallo fra la fine degli anni ’80 e l’inizio dei ’90 quando avevamo anche otto formazioni impegnate a rappresentarci nelle varie competizioni si iniziava alle due del pomeriggio con la coppa UEFA su Raitre per finire, dopo avere zigzagato per tutti e tre i canali nazionali, con mio padre e mio nonno che guardavano finire a notte fonda le partite con meno appeal e mi facevano trovare sul comodino la mattina un biglietto con il risultato, vecchia abitudine cominciata quando ero più piccolo e non riuscivo ad arrivare nemmeno alla fine del primo tempo della partita delle 20.30.
Ho visto giocate in notturna anche buona parte delle partite degli Europei e dei Mondiali, prima solo quelle dell’Italia e a partire dal 1990 anche quelle delle altre squadre; fino alla semifinale con l’Olanda del 2000 agli Europei, però, non ho mai avuto il cuore di reggere alle serie di rigori, risparmiandomi così almeno la delusione di vedere l’Italia perdere tre edizioni dei Mondiali di fila.
Ho usato la parola «vedere» non a caso, perchè compresi come era andata a finire la serie di rigori fra Italia e Francia nel 1998 nel modo peggiore: mi ero affacciato alla finestra di camera mia lontano dalla tv in un assolato pomeriggio di inizio estate sperando di isolarmi dalla folla, ma lo «stock» della traversa di Di Biagio seguito dall’ululato di delusione di tutti i tifosi lo conservo ancora nella memoria uditiva e mi perseguita negli incubi delle notti di temporale.
La serata della semifinale fra Italia e Germania nel mondiale 2006 è stata forse l’ultima da «ragazzi» passata con gli amici storici: nemmeno la vittoria quattro giorni dopo entrò con la stessa forza nei racconti epici che tengono insieme le tavolate alle rare rimpatriate. Ricordo abbastanza chiaramente di avere passato tutto il primo tempo supplementare spillando birra da un barilotto di Heineken, e al gol di Grosso lanciai i pantaloni corti in aria – la maglia era scomparsa già da parecchio, credo al palo interno di Gilardino – e planai in mutande sull’erba del prato di casa dei miei amici finendo per prendere a pugni il terreno in lacrime. Mi rivestii alla bell’e meglio e mi lanciai in macchina fino ad Arquata per i festeggiamenti, inseguito da un amico caritatevole che dopo avermi raggiunto una buona oretta dopo mi porse le scarpe che avevo dimenticato alla cena. Seppi solo il giorno dopo del raddoppio di Del Piero.