di Bernardo Beisso e Danilo Arona
Continua l’appassionante (e un po’ horror) racconto scritto da Bernardo, ambientato praticamente a pochi metri da casa mia…
La partenza del conte per Rimini avrebbe potuto diventare l’esca per l’uomo scuro. Feci in modo che la notizia della sua assenza si spargesse. Mi bastò accennarlo alla vedova Zambruni perché le cose si muovessero di conseguenza.
Qualche giorno dopo la bella contessa, sicura dell’inviolabilità dei suoi possedimenti, era distesa al sole del mezzogiorno, sul lettino a bordo piscina con un grande cappello di paglia in testa e intenta alla lettura. Io dalla finestra della mansarda scorgevo la sua postazione e lo spazio aperto che divideva la piscina dal giardino dalla casa dell’uomo scuro.
Distratto per un attimo da quel corpo di donna non più giovane ma attraente, percepii con un secondo di ritardo un movimento sospetto tra le frasche. Allora scesi con rapidità le scale e afferrai una mazza col cuore d’acciaio. Quindi in un battibaleno mi portai sul lato opposto allo spazio tra le due case.
Conoscevo un punto debole nella cinta della casa così come avevo preventivato che l’allarme spento e quella cinta non avrebbero fermato un uomo eccitato, atletico e deciso. Forzai il vecchio cancelletto in modo da poterci passare strisciando pancia a terra, circumnavigai la casa e mi accorsi che “lui” era stato più veloce di me. Arrampicatosi sul ciliegio fuori cinta di almeno tre metri, da un robusto ramo era balzato come un animale sul prato del giardino che confinava con la piscina. La contessa era assopita e non si era accorta di nulla.
Senza pensarci troppo, corsi a sbarrare la corsa bestiale dell’uomo che dimostrava una forza sovrumana, al punto tale che le mie conoscenze in pugilato e arti marziali diventavano impraticabili di fronte a tanto forsennata e inaspettata irruenza. Nel tentativo di intercettare l’energumeno avevo lasciato la mazza sul bordo della piscina e questo mi rendeva più indifeso.
Cominciò una lotta senza esclusione di colpi. I miei pugni, per quanto ben assestati, non producevano nessun effetto visibile, anzi moltiplicavano il vigore dello stalker: come una bestia ferita ed eccitata, l’uomo si scaraventò contro di me e una possente spallata mi fece traballare e cadere. In un attimo mi volò sopra con tutto il suo peso, con le tozze mani che mi stringevano la gola.
Mentre tentavo con ogni forza di contrastare la presa, pensai che fosse finita. In pochi attimi mi vidi passare la vita davanti agli occhi e di sicuro l’avrei contemplata tutta quando un colpo sordo mi trapassò le orecchie e nello stesso istante le mani attorno al collo si aprirono mentre la mole dell’uomo scuro mi si afflosciava addosso.
Spostai quel corpo a fatica e vidi in piedi, controluce, una sagoma, un grande cappello sul corpo nudo, la mia mazza tenuta a due mani nell’atto di colpire ancora. Liberatomi e sgusciato via dal grosso bestione mi tolsi la camicia e la misi sulle spalle della contessa che, lasciata cadere la mazza, ora tremava con sussulti che mettevano in evidenza lo stato di shock.
Assicuratomi che il Pavolini fosse svenuto e inerte, accompagnai la contessa in casa, cercando di rassicurarla che il peggio era passato. La pregai di starsene dentro e la convinsi a non chiamare nessuno, perché avrei pensato io a tutto. Disponevo di tre giorni per sistemare la faccenda e per convincerla a tenere segreto l’accaduto. La rassicurai sul fatto che non aveva ucciso nessuno e che l’uomo disteso fuori era soltanto svenuto. Ma il tempo era poco: prima che l’energumeno rinvenisse avrei dovuto recuperare il pulmino, caricarci il Pavolini e portarlo a casa mia.
Avrei dovuto tenere in vita l’uomo almeno fino a notte fonda. Trovare il giusto equilibrio nel fargli inalare l’ossido di carbonio che il motore del pulmino produceva in modo da narcotizzarlo ma non farlo morire. Avrei applicato al bernoccolo del ghiaccio in modo che il colpo ricevuto fosse meno evidente. La vecchia maschera antigas, residuato dell’ultima guerra, che tenevo in cantina sarebbe servita all’uopo. Togliere il filtro e collegare il tubo della maschera al tubo di scarico del pulmino, controllare periodicamente, interrompere l’inalazione per riprenderla dopo mezz’ora.
Sdraiato sulla mia amaca, il libro sulle gambe, adesso sorseggio la mia bevanda rinfrescante, bicarbonato e limone. Il sole è quello non più caldo di fine settembre. Sono passati 45 giorni. Questa mattina hanno trovato il corpo, in stato di avanzata decomposizione, del Pavolini. Il cadavere era seduto all’interno della vecchia 128 Fiat color pisello appartenuta alla madre. Lo scappamento collegato con un tubo e bloccato dal finestrino posteriore leggermente aperto ma del tutto sigillato con nastro da pacchi. La vettura, senza più un goccio di benzina, si è appurato che sia rimasta accesa almeno due giorni; l’interno della stessa saturo e annerito dall’ossido di carbonio penetrato nell’abitacolo. Così il commissario Salino termina il rapporto aggiungendo a voce all’appuntato: “questa volta c’è riuscito!”.
La cosa più pesante era stato il tenerlo tra la vita e la morte per tre giorni curandolo della botta alla testa. Appena questa si era ridotta avevo trasportato a spalle il bell’addormentato nella sua casa. Nel garage, ancora immacolata, faceva bella mostra di sé la 128 Fiat colore pisello. Il resto l’avete capito.
La contessa sapeva mantenere un segreto. Mi conosceva poco ma era scattata subito empatia tra noi. Dopo i primi giorni di sbandamento aveva ritrovato una discreta tranquillità; si rendeva conto che l’avevo salvata e che lei aveva salvato me, ma non si sarebbe mai accorta che l’avevo usata come esca. Neppure il conte avrebbe mai concluso che a liberarlo da una paura quotidiana fossi stato io. Con l’inconsapevole complicità della sua signora. E’ proprio vero, mai fidarsi del tutto di una bella donna…
Grano rosso sangue 3