Vacanze.
Caldo, mare, sole. Spiaggia, bambini, asciugamani. Cocco bello, pedalò e vucumprà.
Osservo questi ultimi, nerissimi e senza un briciolo di sudore, avvicinarsi con i loro fardelli carichi di qualunque mercanzia. Ogni zona, mi dicono, ha le sue specialità. Qui, dove mi trovo io, vanno di moda i teli grandi, gli occhiali da sole, le anfore di paglia e i braccialetti.
Sto divagando. Li guardo in faccia, questi ragazzi, voglio capire chi sono. Non è facile sostenere il loro sguardo, a dire il vero. È lo sguardo del bisogno, della povertà e spesso della disperazione. Sono tutti giovani, ma c’è n’è uno che una cinquantina di anni c’è l’ha di sicuro. Ed è lì.
Mi immedesimo, senza volerlo. Sono esseri umani come me, tali e quali a me. Penso che potrei esserci io al loro posto, e immagino quasi fisicamente la durezza delle loro giornate. Stranamente, non provo a scacciare questo pensiero “fastidioso”, come ho sicuramente fatto altre volte. La presenza di quei volti affaticati e buoni (per me sarebbe impossibile essere buono, in quella condizione) mi interroga sul senso delle mie vacanze, del mio “relax”.
In prima battuta, capisco di essere un privilegiato e apprezzo ancora di più quello che ho. Penso, tra le altre cose, che anche dopo le vacanze sarebbe bello riuscire a mantenere questa consapevolezza, e a svilupparla. Avrò bisogno di un altro volto buono da guardare, anche a casa. Proverò a cercarlo. E’ il mio compito delle vacanze, dopo le vacanze.