di Danilo Arona
Credetemi sulla parola. Non date retta agli spocchiosi di mestiere che ne hanno parlato male. Yesterday di Danny Boyle è una deliziosa figata. Se poi siete stati – e lo siete ancora – beatlesmaniaci o pensate di far parte della planetaria Sgt Pepper Lonley Hearts Club Band, questo film vi colpirà al cuore, facendo versare persino qualche lacrimuccia alle pellacce più dure. Senza addentrarmi più di tanto nella trama (ma nell’epoca di Internet so bene che premesse del genere non hanno senso…), il film prospetta un mondo dal quale, per un incidente di tipo “quantistico”, viene cancellata la memoria collettiva dei Beatles. Succede quasi a tutti tranne che a un cantautore inglese piuttosto sfigato – nel senso che nessuno se lo caga di striscio – e che decide, una volta verificata con assoluta certezza che i Beatles non sono mai esistiti (o qualcosa del genere), di giocarsi l’ultima strada per il successo, ovvero di presentarsi alla gente con un repertorio rinnovato a base di Let it Be, Yesterday, Hey Jude e il meglio dei Fab Four. Ovvio che non vado avanti a raccontarevela, ma, se vi accontentate, sappiate che per il nostro il successo finalmente arriva, tra una serie di concatenazioni grottesche, equivoci a manetta e paradossi temporali. Però il messaggio assoluto che se ne evince è che il mondo, in qualunque punto del quantun leap lo vogliamo posizionare, non può stare senza Beatles, mentre invece può benissimo andare avanti anche senza Oasis, Coca Cola e Harry Potter – qui, e non capite, è doveroso che vediate il film.
E confermo, nel mio infimo, l’assunto di Boyle. I Beatles sono stati, e sono, imprescindibili. E per forza devo scendere un po’ nel personale.
Come ho già scritto tempo fa in questa stessa rubrica, la prima volta che li vidi stavano in una vetrina in via San Giacomo della Vittoria in un negozio che si chiamava Campo. In giro già se ne parlava e se ne leggeva, ma in Alessandria neppure così tanto, e spesso si intercettava per la città qualche strambo tentativo nostrano di “capellone”. Correva l’anno 1964 e avevo 14 anni e quel disco, Twist and Shout con retro Misery, divenne mio a scatola chiusa. Alquanto distratto dall’ormone avanzante, ero convinto che quello fosse il primo prodotto degli Scarafaggi – mitologia italianizzante dell’epoca. Mi sbagliavo perché ne erano già usciti tre, nell’ordine Please Please Me, She Loves You e PS I Love You, e mi scoprii in clamoroso ritardo. Ma recuperai quasi al volo e fu l’inizio di una grande storia d’amore. Insomma, Twist and Shout, che manco era stato scritta dai Beatles, per me rappresentò l’iniziazione: la vita che cambiava ed entrava nella dimensione che andavo cercando, la musica con tutti gli annessi e connessi. Da ascoltare e da praticare.
Inutile dire che i miei primi, scoraggianti tentativi, di musica sul palco si tennero all’insegna dei Beatles. Ricordo con una certa, nostalgica vergogna un’esibizione strumentale con due chitarre, strimpellate da Sergio B Vettori e da me in stile “Santo & Johnny di noialtri” sul palco del Don Bosco a fare And I Love Her dinanzi a una platea scatenata di ragazzine – beh, ragazzine, frequentavano le scuole medie e noi eravamo a malapena quindicenni… -, che nell’esternare il loro gradimento nei nostri confronti e nella canzone, imitavano alla grande le coetanee inglesi. Ovvero, urlavano come ossesse. Ma non per noi, per la canzone.
Così, con il tempo che trascorreva implacabile, fregole e canzoni dei Beatles erano destinate a procedere di pari passo. Nella mente e sul palco, anche se John, Paul, George e Ringo si sarebbero lasciati nel 1970 per durare nell’infosfera massmediale sino a oggi, grazie anche all’attività mai interrotta da parte di Paul Mc Cartney e Ringo Starr. Poco tempo prima dell’annunciata fine dei Fab Four, nel mio primo gruppo “serio”, i Privilege, giunse Rudi Bargioni, il più beatlesiano degli amici di palco, dotato di timbrica vocale affine a Paul e quanto mai appassionato della musica dei nostri. Da allora con Rudi and friends, con e senza Beatles e a seguire la fine dei Privilege, non si contano nella mia memoria le cover, sempre deliziosamente “arrangiate”, di tante intramontabili canzoni e qualche chicca meno conosciuta: Cant’buy Me Love, Fool on the Hill, Let it Be (va da sé, obbligatoria…), Why Don’t We Do It in the Road, Sexy Sadie, ma si tratta di una lista lunghissima.
Poi, quando sulla scena ha fatto irruzione Dado “Dadoski” Bargioni, nipote di Rudi e grande amico, le occasioni per ritrovarci a suonare o semplicemente ascoltare la musica dei Beatles sono raddoppiate. Dal loro geniale spettacolo itinerante, musica e parole, Let it Beatles, a succulente rivisitazioni quasi stravolgenti di celeberrime hit quali Day Tripper, Help e Come Togheter, di volta in volta abbiamo toccato con mano la riprova che poi è la tesi di fondo del film di Danny Boyle, ovvero: senza quella musica la nostra vita, per come la conosciamo, neppure avrebbe avuto inizio. Al punto tale che le canzoni arrivano da un punto nascosto nello spazio-tempo, facendo persino a meno della memoria planetaria dei Demiurghi di Liverpool. E che ci fanno dire, con gli autori del film: “un mondo senza i Beatles è decisamente peggiore”.