di Dario B. Caruso
La domenica mattina talvolta mi accade di avere ritmi più blandi.
Mi alzo con calma, affronto una Signorina Colazione, accendo la tivù e guardo i documentari di Discovery; raccontano di terre lontane e di animali diversi dai cinghiali che abitualmente affollano le nostre città.
Questa mattina parlano di Tibet.
Stanno descrivendo popolazioni che vivono in simbiosi con la natura e, nonostante l’assenza di tecnologia, appaiono felici.
Narrano di bambini che corrono sereni e giocano col nulla, stoffe, bastoni, aquiloni, cadono, si rialzano, corrono ancora, si abbracciano e ridono.
Ci sono giovani monaci buddisti che suonano il tradizionale corno, richiamo per invitare al tempio; quindi si affidano a preghiere corali accompagnate da campane e altre percussioni metalliche.
Nell’altopiano pascolano Yak alti fino a due metri al garrese che, addomesticati, affiancano l’uomo nel lavoro quotidiano.
Lontano dalle comunità abitate, orsi e volpi cercano di procacciarsi del cibo durante il rigido inverno mentre avvoltoi volano in tondo sperando in qualche carcassa avanzata.
Ma ingurgito l’ultimo sorso di caffelatte; è giunta l’ora di spegnere la tivù, di sbarbarsi e scendere in centro città per alcune veloci spese.
In città non ci sono avvoltoi ma solo piccioni, tanti piccioni. Ciò mi rassicura.
Gli yak sono sostituiti da cani al guinzaglio, alcuni in carrozzella. Affiancano l’uomo nel passeggio quotidiano.
Dalle chiese, concluse le funzioni festive, escono frotte di fedeli imbacuccati nei cappotti.
Nel centro dell’isola pedonale ci sono ragazzi che sorridono allo smartphone, ipnotizzati e felici con loro stessi.
Ancora un piccolo giro e poi rientrerò a casa.
Dovrò preparare alcune verifiche per domani, al computer senza il quale non saprei più come fare.
Mi chiedo che vita sarebbe se fossimo in Tibet.
Lo so, è un falso problema.
Noi siamo fortunati: ci troviamo dall’altra parte del mondo, quella ricca.
Ma ricca di cosa, devo capirlo ancora.