Lo chiamavano Tyson di Mauro Valentini [ALlibri]

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a cura di Angelo Marenzana

 

Il nome Tyson è un omaggio alla passione del padre dell’autore, Vittorio, per il pugile americano e da un’idea del figlio Matteo che veste pure i panni del consulente musicale del romanzo. A raccontarcelo è Mauro Valentini, scrittore, giornalista e autore del romanzo edito da Armando Editore Lo chiamavano Tyson. Un libro che lo stesso Valentini ha voluto dedicare “A quelli della mia generazione, recisa dai quartieri di origine e confinata nelle case popolari di Roma dal 1970 al 1980. A chi ce l’ha fatta e a chi si è perduto”.
Tyson è il soprannome di Fausto Colasanti, un cinquantenne che vive tra lavori saltuari e un’atavica incapacità a governare la propria rabbia. Trovato un lavoro presso un manager dell’edilizia, Tyson dovrà cercare un aiutante (sarà l’amico Alcide Pennello) per condividere il nuovo impiego di custode della villa del costruttore, un edificio immerso nel verde dell’Eur e dotato di un’originale gabbia antiintrusione che permette di imprigionare eventuali ladri dando il tempo ai custodi di far intervenire le forze dell’ordine. Sarà questa nuova esperienza lavorativa il perno attorno cui si scateneranno una serie di eventi accompagnati da azioni tanto avvincenti quanto grottesche e imprevedibili allo stesso tempo. Dando vita a una trama che si svilupperà, come spesso accade nella miglior tradizione romana, in termini di vicenda in sospeso tra narrazione noir e commedia.

PROLOGO
18 agosto

Ormai aveva perso la cognizione del tempo, non riusciva più a capire quanti giorni avesse passato lì, dentro quel garage semibuio e caldo come una fornace. Aveva provato anche a gridare, ma aveva ragione quello con la pistola: nel palazzo non c’era nessuno. Era continuamente percorso da ondate di tremori incontrollati che lo facevano urlare di dolore per le fitte al coccige che, dopo tutto quel tempo seduto, si era sicuramente incrinato. Le labbra gli sanguinavano spaccate dalla mancanza d’acqua e l’ultima volta che si era addormentato, nel risvegliarsi non era riuscito più ad aprire gli occhi perché una patina secca gli aveva incollato le palpebre. Si era concentrato, aveva fatto uno sforzo con la mente e calcolato che dovevano esser passati all’incirca due o tre giorni da quando quei due pazzi lo avevano legato e chiuso lì dentro. La tachicardia lo opprimeva, gli toglieva il fiato ed era svenuto più volte a causa dei dolori alla testa e dei crampi che sempre più spesso lo investivano sulle gambe e sulle braccia. Si sforzava di concentrarsi su altri pensieri, lontani, cercando di distrarsi da quella situazione che ormai era diventata insopportabile. Tornando indietro con la memoria e facendola scorrere come un album di foto scompaginate, cercava di ricordare i momenti più importanti della sua esistenza, ma non veniva in mente altro che piccoli episodi chissà come tornati in superficie. Gli era venuta in mente quella canzone che canticchiava sempre suo padre. E quel disco… Com’è che faceva? Cercava di ricordare le parole esatte: … è il volto tuo che ho disegnato… e poi? Non riusciva a ricordare altro…

***


«Ciao, Fausto, come stai?» Lo aveva chiamato Fausto. Tyson si era quasi dimenticato cosa c’era scritto sul suo documento d’identità. Fausto Colasanti aveva smesso di esser Fausto da decenni ormai, da quando un cretino che abitava nel palazzone B, quello di fronte al suo, gli aveva affibbiato quel nome da pugile, durante una partita di calcio giocata sul campetto dell’Istituto Autonomo Case Popolari.
All’epoca, la sfida tra i palazzoni era il clou dell’estate e lui, Fausto, organizzava la squadra del suo di palazzo, anche perché, prepotente com’era, aveva il carisma per dare ordini a tutti, anche se forte con il pallone non lo era mai stato. Probabilmente avrebbe rischiato l’umiliazione di non entrare nell’undici titolare se la squadra l’avesse fatta er Sor Oreste, che da giovane aveva giocato in serie C e che giocava ancora da stopper in terza categoria, a quasi cinquant’anni. No, Fausto non poteva sopportare questo affronto.
E allora, la squadra la faceva lui, lui teneva i contatti con gli altri palazzoni, lui stilava i calendari e minacciava di pestare i componenti della squadra se non si fossero presentati puntuali alle partite.
Persuasivo, come sempre.
Giocava ala di raccordo, lo diceva ogni volta che si discuteva sulla tattica da adottare. Pennello, che era altissimo, lo mettevano di punta, lui era l’ala di raccordo, per tutti. Non che sapesse bene cosa significasse, però l’aveva sentito dire da Sandro Ciotti durante Tutto il calcio minuto per minuto e quella definizione gli era piaciuta, sembrava una cosa importante. Non era un grande esperto, anzi, a dirla tutta, a lui il calcio non piaceva molto. A lui piaceva la musica e, anche senza confessarlo troppo per evitare che qualcuno dubitasse della sua virilità acerba, piaceva leggere. Sì, proprio leggere libri, perlopiù grandi classici rubati alla sorella che faceva Lettere alla Sapienza, ma anche i maestri del brivido che lo avevano sempre intrigavano. Stephen King era il suo idolo.
«Allora io che sono ala di raccordo gioco qua?» chiedeva a Oreste poco prima di iniziare. Oreste rideva e distribuiva quelle maglie a righe sottili rossonere, dall’uno all’undici, rubate sicuramente da una fornitura qualche decennio prima chissà dove. Quelli in panchina non avevano né maglia né numero. E non sarebbero mai entrati se non per una rottura di una tibia: nessuno dei titolari avrebbe mollato. Erano orgogliosi di quei colori, organizzatissimi, pantaloncini bianchi, maglie da calcio vere, mica come quei morti di fame del palazzone B che giocavano con le Fruit of the loom bianche.
E quel giorno Fausto, che era particolarmente pimpante, che correva tanto e gridava continuamente palla! a chiunque dei suoi avesse il pallone tra i piedi, anche a 70 metri di distanza, cominciò a ricevere le attenzioni dei difensori avversari. Fino a che il portiere, quel cretino del loro portiere, lo vide libero da marcature e gridò ai suoi, «Attenti a Tyson che è libero!»
Ora, un fisico massiccio Fausto lo aveva sempre avuto; a scuola, fin da piccolo, gli altri lo prendevano in giro perché sgraziato nei modi e con quel collo, di due taglie più grandi della media, che sembrava non esser proprio spigato dalle spalle. Ma poi la sua aggressività compiaciuta aveva dissuaso tutti quelli che lo conoscevano dal rimarcare quel difetto. Quello che stava in porta quel giorno non lo conosceva, non sapeva il nome e lo aveva apostrofato così, non per offenderlo ma per far capire ai suoi chi dovevano seguire. In effetti, a pensarci bene Fausto al pugile americano somigliava eccome, anche se fino a quel momento nessuno, neanche lui, ci aveva mai pensato.
Fausto, sentendosi chiamare così, giurò a se stesso che gliela doveva far pagare, anzi, voleva far terminare immediatamente quella partita causa rissa in campo. Ma poi, tutti i suoi compagni avevano iniziato a ridere, prima sotto i baffi, poi piano piano sempre di più fino a sganasciarsi dimenticando di seguire la palla e anche a Fausto era venuto da ridere. E da quel giorno…

***
Sotto il sole accecante del giugno più caldo del secolo, la villa si era mostrata a Pennello e Tyson in tutta la sua bellezza; il verde del prato all’inglese avvolgeva ogni cosa, piccole colline si perdevano all’orizzonte, erano dentro la città eppure non se ne scorgeva nessun segno da qui. C’erano addirittura i girasoli, dritti e perfetti che rivolti verso l’ingresso sembravano dare il benvenuto. I due erano rimasti estasiati, inebetiti, non avevano proprio immaginato un luogo come questo dietro quel cancello super tecnologico, ma dall’aspetto così anonimo, a quattrocento metri dalla metropolitana e dal laghetto dell’Eur. Sulla destra, una sequenza di mattoncini verdi indicava che quella era la linea da seguire mentre il cancello alle loro spalle si era richiuso quasi senza far rumore. «Non ci sono cani da guardia, che strano» aveva detto Pennello tra sé e sé. «Siamo noi i cani da guardia» aveva detto Tyson allungando il passo per esser il primo a presentarsi a chi li stava aspettando.

Tyson si era avvicinato alla prima foto appesa proprio sotto la scrivania dello studio. Per guardare meglio ed esser sicuro di quello che aveva visto si era allungato con le mani dietro la schiena per non rischiare di far cadere qualche cosa dalla scrivania piena zeppa di oggetti. «Ma porca puttana, questo in foto con il commendatore è John Lennon!» Aveva guardato per un tempo lunghissimo e gli era pure uscita una lacrima di commozione. Peroni era giovanissimo, con una tuta sportiva e con lo scudetto tricolore, con il sorriso mal trattenuto di soddisfazione, mentre Lennon sembrava guardare di lato, attratto da qualcosa che lo aveva distratto nel momento dello scatto. Ma era lui. Accidenti se non era lui, vestito di bianco come nella copertina di Abbey Road. Sotto quell’immagine, c’era scritta una data e un luogo, vergata a mano con una calligrafia perfetta, da decoratore di bomboniere: New York, 29 giugno 1976.
«Sì, è proprio lui, John Lennon. Eravamo a New York, con la squadra italiana in partenza per le Olimpiadi di Montreal.» Tyson e Pennello si erano girati di scatto, Pennello aveva fatto ruzzolare a terra per la sorpresa una coppa poggiata su un mobile basso vicino la finestra. «State comodi, piacere, sono Vitaliano Peroni.»

***

«Ora vi mostro una cosa. Un segreto della villa. La chiamiamo la gabbia, il nostro antifurto speciale.» Tyson e Pennello si erano guardati e in una frazione di secondo avevano pensato la stessa cosa. Ma avevano evitato di dirla. Aurelio li aveva preceduti aprendo una porta che sembrava un’uscita di emergenza e aveva fatto cenno di seguirli, scendendo una rampa di scale e continuando la sua descrizione: «Se qualcuno scavalca la recinzione e cerca di entrare trova questo portone blindato da dove siete entrati voi indicato come Reception che è sempre chiuso e un cartello con due frecce che indicano dalla parte opposta: una con la scritta Garage e l’altra con Porta di servizio – vietato l’ingresso. È tutta una trappola in realtà, perché il garage è dalla parte opposta e ha al suo interno la collezione di auto d’epoca del commendatore, mentre chiaramente non esiste questo ingresso di servizio. L’eventuale ladro cercherà di seguire quelle indicazioni e attraverserà quella rampa in discesa che avete visto prima dalla vetrata della reception. Appena avrà aperto la porta che lui crede essere del garage, quella si richiuderà con una molla facendo scattare la serratura di blocco. A quel punto si accenderà una luce accecante e il monitor numero cinque si illuminerà. Voi, scendendo da qui vi troverete appena fatte le scale, davanti a questa grata.» Erano arrivati. Davanti a loro una porta a sbarre di ferro lasciava intravedere appena illuminata da una luce d’emergenza blu una cella con pareti di cemento grezzo. Aurelio si era goduto sorridendo la sorpresa dei due e aveva continuato la sua spiegazione: «Da qui, verificato che il ladro è un ladro e non uno stronzo qualsiasi cadutoci per sbaglio potete chiamare subito la Polizia da questo telefono e aspettare il loro arrivo. Li fate passare da questa grata che si apre solo con un codice di sicurezza da digitare da questa tastiera proprio dietro al telefono, la vedete?»

Tyson era andato a vedere, Pennello era arretrato. «La Polizia lo arresta, voi mi chiamate, vi comunico l’altro codice per sbloccare il segnale luminoso di allarme che c’è sulla consolle,salutate l’Ispettore e tornate a farvi i cazzi vostri. Loro, quelli del commissariato, hanno il mio numero diretto, poi ci penso io con loro. Voi, se mai succederà una cosa così e speriamo di no, non dovete fare altro oltre quello che vi ho detto. Penserò a tutto io.»
Tyson e Pennello erano rimasti a bocca aperta. Una gabbia “antiladro” nella villa, una specie di trappola per topi. Aurelio aveva ripetuto una seconda volta tutta la procedura del funzionamento; loro guardavano quelle sbarre d’acciaio separate tra loro da una decina di centimetri e dietro di queste quella specie di cantinone chiuso, tre metri per tre, senza finestre con in un angolo un bagno alla turca murato a terra e nulla più. Sembrava la cella di un condannato a morte. Era la cella di un condannato a morte. Aurelio Maggiora aveva anticipato la domanda che stavano per fargli all’unisono: «È perfettamente legale. L’articolo 383 del codice di procedura penale dice proprio che anche i cittadini possono trattenere in arresto chi si macchia di reati per cui è previsto appunto l’arresto in flagranza. Tutto regolare.» Aurelio gli aveva spiegato che il commendator Peroni aveva visto questo congegno che sembrava uscito da Alcatraz istallato nella villa di Hugh Hefner a Beverly Hills. Era stato invitato dal vecchio Hugh per il suo terzo matrimonio alla Playboy Mansion West. In quella villa piena zeppa di playmate mezze nude, Hefner gli aveva mostrato quella trappola che si era fatto costruire e gli aveva dato il numero del tecnico che realizzava quel giocattolo. Peroni se ne era innamorato e aveva fatto venire quella squadra speciale di operai direttamente da Los Angeles per evitare di farla realizzare da qualcuno in Italia che poi lo avrebbe sicuramente spifferato alla stampa. Tyson e Pennello non avevano altre domande e Aurelio, sollevato da ciò, aveva concluso il tour mostrandogli la cucina a loro disposizione che pareva uscita da una puntata speciale di Masterchef, e le loro camere da letto: «Confortevoli camere per gli ospiti» le aveva definite con sufficienza Aurelio, ma sembravano camere in puro stile Hollywood Party.

Poi Aurelio era ritornato sulla questione della gabbia. Aveva aperto il cassetto sotto la consolle e mostrato ai due una busta da lettera sigillata: «Qui dentro ci sono i codici di sblocco del cancello della gabbia e il telefono personale del Commissario capo. Chiaramente tutta la gabbia è schermata e quindi chi entra non può mandare messaggi ne chiamare nessuno. Vi consentirà di chiamare la Polizia senza che magari prima arrivino i rinforzi di quel figlio di puttana.» Tutto chiaro, o perlomeno, a Tyson era sembrato davvero folle tutta questa cosa ma era comunque chiara. «Due sole raccomandazioni: uscite dalla villa sempre uno per volta, qui dentro uno dei due ci deve esser sempre. Sempre,, capito? Seconda cosa: non date confidenza a nessuno. Se andate al bar, al supermercato, al ristorante o dove cazzo vi pare non parlate della villa né del commendatore. Loro sanno che siete quelli che lavorano qui e questo deve bastare. Niente chiacchiere. Niente ospiti qui dentro, niente donne, nessuno. Capito, ragazzi? Nessuno. Per nessun motivo.» Tyson aveva chiuso il blocchetto e annuito convinto. Aveva fatto un cenno di assenso a Pennello che aveva risposto con il pollice della mano destra alzato. «Ci sono domande?» Nessuno dei due aveva fiatato.