Gianluca Ghnò: “Non siamo solo quelli che fanno divertire”

di Debora Pessot

 

L’appuntamento lo abbiamo fissato al Teatro San Francesco. È il luogo ideale per il nostro incontro. Qui, da anni, la Compagnia Teatrale Stregatti, di cui è direttore artistico, diffonde cultura teatrale e poi ci garantisce il corretto distanziamento.  La porta è aperta. Un po’ titubante mi decido ad entrare, dal foyer accedo alla platea e tra le prime file fronte palco trovo lo ad aspettarmi. Regista, attore e direttore artistico della Compagnia Teatrale Stregatti Gianluca Ghnò si racconta in un’emozionante chiacchierata.

 

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Gianluca, cosa rappresenta per te il teatro?
La vita. Un amore nato fin da piccolo, grazie a mia madre che ogni anno faceva l’abbonamento al teatro comunale e mi portava con sé. Erano gli anni Ottanta, allora aveva una connotazione più classista. Tra le prime file c’erano ‘quelli eleganti’, noi che invece eravamo proletari trovavamo posto in fondo. Ciò che allora mi aveva affascinato erano gli applausi agli artisti, quando a fine esibizione tornavano sulla scena a farsi ringraziare dal pubblico. I profumi delle persone che si mescolavano in sala, il chiacchiericcio prima dello spettacolo, lo scambio di opinioni alla fine…

Quando hai deciso che sarebbe stato il tuo lavoro?
Già al liceo scrivevo e dirigevo spettacoli, ho sempre avuto la passione di stare dietro le quinte. Una volta terminato ho frequentato ‘I pochi’. Allora i miei insegnanti erano Parise, Pierallini e Todarello. Dopodiché provai a fare i provini per la Scuola D’Arte Drammatica Paolo Grassi di Milano e da lì in poi questa passione l’ho seguita fino in fondo.

L’Accademia ti ha aperto sbocchi professionali interessanti?
Quando mi sono diplomato alla Paolo Grassi era il 1998 e il teatro iniziava ad essere già un po’ in crisi. Ciò nonostante, dopo un primo momento in cui non mi veniva offerto nulla di particolarmente interessante, ricevetti la proposta per condurre laboratori teatrali in due scuole della provincia e così ritornai in Alessandria. Tornato in città, insieme a Paolo Scepi, Marco Longoni e Alberto Basaluzzo, fondai la Compagnia Teatrale Dispari. Erano i primi anni 2000 e, fino al 2006/2007, c’era ancora tanta richiesta. In quel periodo abbiamo girato i teatri di tutta Italia, i nostri spettacoli erano quasi tutti sold out nonostante non fossimo personaggi conosciuti. Poi, via via, le richieste sono andate scemando, il pubblico ha iniziato a diminuire. Nel 2007 lasciai i Dispari, perché io lo volevo fare di mestiere e per chi aveva un’altra professione diventava troppo impegnativo, per fondare Gli Stregatti, compagnia con la quale lavoro tutt’oggi insieme a mia moglie Giusy Barone.


Quando è iniziata l’esperienza al Teatro San Francesco?
Circa otto o nove anni fa. È stata ed è tuttora una bella sfida, grazie alla quale abbiamo iniziato a capire come organizzare le stagioni, a fare progetti con diverse fondazioni per mettere in piedi i cartelloni teatrali. Diciamo che la gestione di un teatro è una cosa completamente diversa rispetto alla costruzione di uno spettacolo, ma anche questa decisamente stimolante.

Da quanto tempo è chiuso il San Francesco?
Da circa un anno. In realtà, a luglio del 2020 abbiamo fatto uno spettacolo nel cortile qui fuori. Ti dirò, quando a marzo dell’anno scorso è arrivata la notizia che avrebbero chiuso i teatri, mi sono un po’ spaventato principalmente per la mia salute e per quella di tutti, ovviamente. Non avevo bene idea di cosa fosse questo Covid, essendo un lock down generale eravamo tutti un po’ intimiditi allo stesso modo. In quel momento ero preoccupato, ma non ho pensato al mio lavoro. Ho semplicemente pensato che fosse giusto così.

Una volta superato lo shock iniziale?
Devo confessarti che qualche mese dopo, mentre veniva annunciato un decreto rilancio, ho sentito un’affermazione che mi ha offeso molto: ‘i nostri artisti che ci fanno tanto divertire’. L’arte è molto di più. Accantonarla così, metterla da parte in questo modo, come è stato fatto anche per altre attività del resto, l’ho trovato decisamente fuori luogo. In Italia costruiamo macchine da un centinaio di anni, ma facciamo cultura da migliaia di anni. Perfino in tempo di guerra i teatri erano aperti, magari squillavano le sirene perché c’era il rischio bomba e si rifugiavano, pensa che allora questo teatro era aperto e serviva, aiutava le persone. L’arte, il teatro, i concerti sono elementi che fanno parte della vita, sono essenziali per la vita stessa che è fatta di emozioni, di condivisioni. Intendiamoci, in questa mia visione non c’è solo il lato egoistico rispetto al fatto di non poter lavorare. Poi non giudico le scelte fatte, perché se è in ballo la sicurezza pubblica, allora ci si adegua.

 

Qualche giorno fa sembrava che avreste potuto riaprire il sipario…
Non mi aspettavo un’altra chiusura dopo un’estate vissuta in modo un po’ anarchico da parte di molti. Mi aspettavo che, dopo aver bonificato e messo tutto a norma, con 50 posti anziché 100, avremmo potuto finalmente riaprire. Considera che per mettere il teatro in sicurezza e per la promozione della stagione (sanificazione, materiale pubblicitario, ecc.) abbiamo avuto i contributi da parte dell’extra FUS, ma sono stati praticamente buttati. Questo mi ha fatto sentire abbastanza frustrato. Andare a teatro, al cinema, ai concerti, al museo è importante non per la fruizione in sé, ma mi riferisco alla fruizione collettiva, all’importanza di ciò che ritengo sia il sale della vita. Pensa al rituale che c’è dietro ad una serata al cinema o a teatro: chiami un amico o un’amica per organizzarti, ti vesti e ti trucchi, affronti il viaggio insieme, andate a prendere un caffè prima, entri in sala e senti gli odori delle persone, i profumi che si mettono, state seduti vicino e riesci a sentire il respiro dell’altro. Il buio in sala, le emozioni condivise, la risata condivisa o il disgusto condiviso … insomma questa è la vita! Il mondo dell’intrattenimento non è tangibile, non si può pesare, ma è importante perché è la vita stessa. Noi viviamo per quelle cose, per uscire con gli amici, per appassionarci, per fare sport.

Questa esperienza influenzerà il modo di vedere, di costruire i tuoi lavori futuri?
Spero che non duri così tanto. Voglio tornare a fare le cose come prima. Fare uno spettacolo corale estivo come ‘Le baccanti’, usando il distanziamento e la mascherina in scena, può starci perché sono testi che si prestano, ma per una commedia è impensabile, piuttosto mi rifiuto di farla. Il nostro lavoro è fatto di contatto, di relazione con le persone, il lato emozionale è fondamentale e, finché non verranno fatti i vaccini, questa situazione non si sbloccherà. Tutti coloro che hanno attività con il pubblico dovrebbero farlo.

Come pensi si possa ricominciare?
Sarà dura, abbiamo bisogno di sapere date precise. Per organizzare una stagione ci vogliono almeno 4 mesi e altrettanti per preparare un nuovo spettacolo. C’è bisogno di programmazione per ripartire. Tutti ne hanno bisogno, anche chi ha esercizi pubblici come i bar e i ristoranti. Capisco la difficoltà del momento, questo non vuole essere un discorso politico e non vorrei essere nei panni di chi prende decisioni. Per quel che riguarda il nostro settore, il grosso lavoro sarà da fare dopo, sotto le macerie. Intanto le piccole realtà, ahimè, scompariranno. Gestire una sala cinematografica o teatrale con il 30/40% delle persone sarà durissima, perché le spese sono sempre le stesse ed è un danno economico significativo. Dopo questo periodo bisognerà ricominciare da capo, ricostruire il pubblico, soprattutto in città difficili come questa. Il problema grosso è che in una società dove la cultura conta sempre meno sarà difficile trovare un modo per veicolarla.

Riesci ad immaginare la tua vita lavorativa fuori da questo contesto?
No, in questo momento assolutamente no. Io ho studiato per questo, non voglio abituarmi a nuovi tipi di realtà, dobbiamo difendere a tutti i costi questi spazi. Forse potrei immaginare un progetto per un teatro di comunità, ma sicuramente sempre in questo ambito. Noi raccontiamo storie, e le storie aiutano a stare meglio. Te lo dico usando il motto di una manifestazione che abbiamo organizzato: senza cultura non c’è futuro.

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