Castelli Maledetti [ALlibri]

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La sinistra alessandrina strumentalizza Umberto Eco...e intanto dimentica Delmo Maestri CorriereAl 1A cura di Angelo Marenzana

 

 

 

C’è un castello eretto tra l’XI e il XII secolo nel paese di Belveglio, in quella che anticamente è stata battezzata come la Terra dei Malamorte. La costruzione sovrastava l’allora villaggio da una collina di tufo, ma, a vederla dal basso, chiazzata dalle ombre del fogliame a ridosso delle sponde del fiume Tanaro, ancora oggi sembra pronta a svettare verso il cielo con la prepotente postura di un cavallo imbizzarrito.

Il castello venne abitato dal nobile Carlo Maria Matteo Farnese, duca di Parma e Piacenza, conte di Ronciglione e nipote di papa Paolo III. Fuggito da Piacenza dopo la congiura ordita da Ferrante Gonzaga (con cui quest’ultimo aveva spodestato suo padre Pier Luigi Farnese trucidato dagli sgherri di Carlo V) e la conseguente consegna della città nelle mani delle truppe spagnole, Matteo Farnese si era arroccato nel castello di Belveglio, costruito ai confini con le sue terre, insieme alla moglie Zeusa Ellenica. A fargli da scorta, un discreto numero di uomini armati.

 

Verso la metà del XVI secolo il castello venne posto sotto assedio dagli spagnoli che però non trovarono vita facile nell’espugnare il maniero. Il palazzo nobiliare era chiuso all’interno della cinta di mura possenti, in più le feritoie a croce per i balestrieri, il muro di cortina con i bastioni e le saracinesche erano state capaci di rendere inespugnabile quel luogo tanto da costringere gli spagnoli ad un assedio che durò tre anni. La resistenza da parte degli assediati deve merito anche della ricca rete di pozzi in grado di garantire l’acqua oltre ai mille camminamenti segreti che consentivano continui rifornimenti di viveri freschi.

Ma alla fine il duca Matteo Farnese dovette cedere e il 15 marzo 1551 il castello capitolò. E a questo proposito le cronache del tempo narravano anche altro. Ovvero, del trasferimento di un tesoro di sette tonnellate d’oro in un luogo segreto ricavato nelle gallerie scavate sotto l’edificio. Ma con il passare del tempo e nonostante il gran numero di ricerche (continuate peraltro fino agli inizi dei nostri anni sessanta con l’ausilio anche di studiosi, medium e rabdomanti tanto da far invidia agli archeologi holliwoodiani da Nicholas Cage con i suoi tesori dei Templari fino alle spedizioni di Indiana Jones e similari di cui il cinema ci ha riportato testimonianze in ogni parte del mondo) nessuno riuscì ad impossessarsi dei preziosi, soprattutto a causa della mancanza di una mappa dettagliata capace di fare luce sulla ragnatela sotterranea del castello fatta di gallerie e locali. In più, all’epoca, i soldati che avevano provveduto all’intera operazione erano i soli a conoscenza del nascondiglio, ma per fedeltà nei confronti del duca Carlo Maria Matteo Farnese, si erano suicidati dopo aver fatto crollare le gallerie d’accesso, così come aveva ordinato il nobile prima di ingerire una dose di veleno insieme alla consorte.

Il soprannome Malamorte deriva probabilmente dai violenti scontri e dalle sanguinose battaglie del passato, magari rafforzato dal fatto che il castello per un certo periodo fu trasformato in carcere e luogo di esecuzione di condanne a morte. Al tempo correva voce che i popolani evitassero con cura di passare sotto il colle di Belveglio per timore di udire lamenti, vedere fiamme o di incontrare i fantasmi di tutti coloro che erano stati torturati nelle segrete, oppure impiccati con i loro corpi lasciati imputridire sugli spalti e sulle vie d’accesso alla fortificazione. Con il ritiro delle truppe spagnole si erano placate le lotte feroci per il controllo del territorio ma il ricordo del sangue versato e le tante leggende sulle sorti dello stesso castello turbavano gli animi dei più. In più restava in piedi il mistero dell’inestimabile tesoro nascosto nei sotterranei infestati dalle anime dannate di chi aveva subito il tormento della carne e una morte lenta e terribile.

Senza voler scomodare Il Castello di Otranto di Horace Walpole (pubblicato nel 1794 e capofila del genere gotico) o le tetre atmosfere del castello di Bran (sul confine tra la Transilvania e la Valacchia) reso alla cultura popolare da Bram Stoker con il suo Dracula nel 1897, trovo che quella di Belveglio sia una storia rappresentativa di mille altre, senza nulla da invidiare alle vicende dei Cavalieri della Tavola Rotonda, agli sconfinamenti predatori dei Vichinghi in terra inglese, o agli assalti di Giovanna d’Arco alle mura fortificate di Parigi dopo assedi snervanti. Si lega perfettamente al ricco patrimonio di castelli costruiti sul nostro territorio anche in zone impervie o inaccessibili. E traccia in sè i mille ingredienti che fanno di ogni maniero un perfetto collage di storia vera e leggenda, immagine emblematica di misteri più o meno occulti che avvolgono la maggior parte di loro. Che dire in proposito? Come esempio fra i tanti, posso citare quello del castello di Roccascalegna in Abruzzo e dell’indelebile impronta di sangue della mano del barone ucciso da un marito ribellatosi allo jus primae noctis, traccia che riappare ogni volta sui muri nonostante i vari interventi di restauro succedutisi negli anni. Una suggestione questa che lo rende luogo ideale per ambientazioni letterarie horror e soprannaturai.

Mentre storicamente i castelli sono simbolo del nostro travagliato passato (seppur oggi questo patrimonio straordinario sia quasi del tutto dimenticato se non addirittura relegato a cumuli di macerie quasi ingestibili, basti pensare a quello più vicino a casa nostra, il castello di Casalbagliano), queste architetture rappresentano anche le trasformazioni e le diverse composizioni delle nostre aree geografiche, sono contenitori di intrighi, alleanze militari e di guerre altrui combattute a casa nostra e che nei secoli hanno pesantemente influito sulla nostra cultura (niente a che vedere con le tanto temute correnti migratorie di oggi), la stessa parola castello potrebbe essere utilizzata come sinonimo di guerra, invasione, crudeltà, torture, catene, intrighi di palazzo, vendetta, gelosie, damigelle e cavalieri, arroganza di signorotti e nobili nei confronti dei più umili. E contenitore di vampiri, fantasmi, ritratti maledetti, visioni di creature come aliti di vento, che filtrano tra mura che hanno segnato i destini di tutta l’Europa.

Pertanto, complimenti agli autori degli undici racconti che compongono l’antologia Castelli Maledetti (recentemente pubblicata da Nero Press Editore) abili a toccare questi argomenti utilizzando punti di vista molto diversi tra loro e relativi sbalzi temporali. E senza andarci troppo cauti nel raccontare le loro storie sempre mantenendosi in punta di penna. Ingordigia, paura e scaramanzia in un’epoca ormai lontana hanno trasformano gli uomini in belve assetate di sangue e del sangue versato si sono nutrite anime dannate che si agitano inquiete tormentate dalla propria sete di vendetta. Spettri capaci di insediarsi per l’eternità nei loro luoghi di appartenenza, in equilibrio sul confine tra vero e fantastico, oltre quel muro che separa la vita apparentemente immobile e granitica di un castello dall’universo storico che gli ruota attorno senza sosta. Una pletora di spiriti che non chiedono altro se non di essere raccontati insieme ai fatti che sconvolsero la loro esistenza terrena, spiriti che animano queste pagine ma che, forti della loro discrezione, non osano disturbare chi oggi nei castelli assiste a concerti di musica classica o lì si sposa, magari con la recondita speranza che qualche evento sovrannaturale posso animare la cerimonia fino a rendere indimenticabile il giorno del matrimonio più che la promessa del reciproco amore eterno.

 

Gli autori di Castelli Maledetti

 

Danilo Arona

Fabrizio Borgio

Paolo Campana

Emanuele Delmiglio

David Ferrante

Flavia Imperi

Roberto Masini

Luigi Milani

Maico Morellini

Beppe Roncari

Laura Scaramozzino