Cure a casa? “Basta un poco di zucchero e la pillola va giù…”. Storie di ordinaria medicina in tempi di covid [Centosessantacaratteri]

di Enrico Sozzetti

 

In un Paese che potrebbe curare meglio e con più efficacia le persone a casa (perché gli strumenti esistono), si continuano a seguire copioni diversi. E così ogni Regione sostanzialmente adotta protocolli diversi, i pareri nazionali divergono da quelli locali, gli esperti (che magari non hanno mai messo piede in una corsia d’ospedale) discettano da un lato, e i medici in prima linea, dall’altro, ripetono che “in guerra bisogna usare tutte le armi a disposizione”.

Poi arriva Matteo Bassetti, recentemente nominato dall’Agenzia nazionale per i Servizi sanitari regionali, coordinatore scientifico di un gruppo di lavoro per la gestione del paziente Covid-19 per il Ministero della Salute. Bassetti è il direttore della Clinica Malattie Infettive dell’ospedale San Martino di Genova. Il medico in un post su Facebook il 27 ottobre scriveva così: «I protocolli per la gestione domiciliare dei casi di Covid sono molto semplici. Se non si prescrive nulla in molti casi è meglio. Bisogna che le persone stiano tranquille se i medici non gli prescrivono niente. Infatti per la maggioranza dei casi asintomatici e poco sintomatici occorre usare unicamente gli antipiretici o gli antinfiammatori se vi è la febbre o altri sintomi blandi. Esattamente come si dovrebbe fare con l’influenza. Il cortisone, gli antibiotici e l’eparina andrebbero riservati unicamente ai casi con polmonite più impegnativi. Quindi se il medico non vi prescrive nulla per la maggioranza dei casi sta facendo un ottimo lavoro. Ovviamente è importante monitorare l’evoluzione clinica nel tempo anche per via telematica».

Dalla teoria ai fatti. E venerdì 13 novembre, sempre sulla sua pagina Facebook scrive: «Dopo aver finito la mia attività clinica in ospedale, ieri notte ho incontrato virtualmente i medici di medicina generale di Genova e ho condiviso con loro, insieme al mio straordinario team, un protocollo di cure domiciliari per i pazienti Covid+. Inoltre i medici di medicina generale potranno usufruire di una consulenza infettivologica telematica e così potremo gestire insieme a casa i pazienti evitando , quando possibile, di essere ricoverati in ospedale».

E allora, come curiamo i malati di covid-19? Ecco le parole di Bassetti. «Casi asintomatici: nessuna terapia; casi con sintomi lievi, febbre non superiore a 38 gradi e/o lieve sintomatologia respiratoria e/o mialgie: terapia sintomatica (paracetamolo, ibuprofene o acido acetilsalicilico in assenza di controindicazioni); casi con sintomi moderati, febbre persistente oltre 38.5 gradi per 96 ore (sì, quattro giorni) con tosse e con dispnea da sforzo, ma saturazione dell’ossigeno a riposo in aria ambiente maggiore o uguale 93% oppure maggiore o uguale 90% in pazienti con patologie polmonari croniche: terapia sintomatica (paracetamolo, ibuprofene o acido acetilsalicilico in assenza di controindicazioni), Eparina se età oltre i 60 anni, ridotta mobilità o presenza di altri fattori di rischio, Antibioticoterapia da valutare caso per caso in base all’impegno polmonare (da non avviarsi all’esordio dei sintomi, ma in caso di sospetta sovrainfezione batterica), Cortisone indicato solamente dopo 5-7 giorni dall’esordio dei sintomi (da evitarsi in chi non presenta segni di compromissione respiratoria)». Quindi, anche se stai malissimo e da giorni, una aspirina e poco più. Una cura antibiotica “in base all’impegno polmonare” (come si verifica? In casa o in ospedale? Non è specificato) da valutare caso per caso e pure il cortisone solo “dopo 5-7 giorni dall’esordio dei sintomi” (ma quali sintomi? Lievi o quando sei senza respiro? Non si sa).

Applicando già solo il semplice buon senso, nel leggere le disposizioni di questo protocollo ci si dovrebbe preoccupare. Anche perché una terapia solo sintomatica in un quadro grave della malattia non può che avere una sola conseguenza: l’ospedalizzazione. Con la speranza che non sia troppo grave. Poi un medico piemontese, Alfredo Monaco, poche ore dopo, ha commentato, da addetto ai lavori. Ed ecco una sintesi delle sue osservazioni, interamente consultabili sulla sua pagina Facebook. Sul punto due, i sintomi “lievi”, «non ci dice nulla su come fare l’osservazione di queste persone». Punto tre, i sintomi “moderati”. Con una patologia «a rischio evolutivo letale e velocissimo viene definita “moderata” una febbre superiore ai 38,5 gradi non per uno, non per due o tre, ma almeno da quattro giorni e notti». Eparina: «Ha scritto Eparina, ma intendeva quella a basso peso molecolare, che si inietta nel sottocute. Eparina, come l’ha scritta nel suo protocollo, si pratica in infusione venosa, sotto costante controllo medico e di laboratorio, in regime di ospedalizzazione». Quindi il resto della terapia. «Chi la fa la diagnosi di dell’impegno polmonare e in quale grado di impegno? L’evidenza delle dimensioni dell’impegno polmonare la fornisce la radiologia con la radiografia se non addirittura con la Tac. Anche l’ecografia è di grande aiuto, ma come fa questo medico a capire quanto è impegnato l’interstizio del polmone? Il secondo punto focale è il sospetto della sovrainfezione batterica. Nell’epoca della medicina dell’evidenza, facciamo terapia sul sospetto. Fare una radiografia? Due esamini del sangue, una formula leucocitaria, gli indici di flogosi, valutare la coagulazione»? Infine, il cortisone. I sintomi devono, però, avere «almeno una stagionatura di 5-7 giorni e devono esserci i segni della compromissione respiratoria. La polmonite da covid-19, l’impegno polmonare, lo conferma il radiologo, non l’infettivologo. Questo servirebbe per un antivirale, che non c’è nello schema. Non esiste assolutamente nulla per combattere il virus direttamente. Non uno straccio di antivirale, un anticorpo da plasma o una qualsiasi molecola che possa avere una efficacia più o meno diretta di contrasto al virus. Nulla».

Morale? Le cure possibili esistono, non sono vietate, ma solo ‘sconsigliate’. Cosa vuole dire? Che un medico serio può curare in scienza e coscienza, assumendosi la responsabilità di farlo. Certo che se si preferisce scaricare tutto sul sistema sanitario e sugli ospedali, allora è un’altra cosa. Esiste un protocollo usato in primavera, con efficacia, dopo lo scoppio della pandemia. Molti medici lo conoscono. Altri fanno finta di niente. Ma una terapia, aspecifica, certo, ma con risultati comprovati da studi e pubblicazioni (quelle mai accettare da governo e Agenzia italiana del farmaco) esiste. Se non si utilizza, è il sospetto che viene, è perché non si vuole farlo?