Il dito ritrovato di Francesca Picone [ALlibri]

La sinistra alessandrina strumentalizza Umberto Eco...e intanto dimentica Delmo Maestri CorriereAl 1A cura di Angelo Marenzana

 

Ospite delle pagine di ALlibri, questa settimana è una scrittrice palermitana, Francesca Picone, con il suo romanzo Il dito ritrovato edito dalla casa editrice Tabula Fati. Come recita il titolo, Francesca Picone racconta la storia di un dito, perso e ritrovato in una tavoletta di cioccolato. E per quanto strana e improbabile possa sembrare l’idea in origine, la stessa autrice confessa di essere rimasta affascinata da questa notizia tutta vera comparsa in un trafiletto di cronaca su un quotidiano nazionale. E così raccoglie lo spunto, utile a lei per narrare di un lungo viaggio, ma anche per sovrapporre la storia di Teresa e John che vivono la loro quotidianità in luoghi diversi, entrambi con le proprie vicende personali calate in una società contemporanea massificante e ormai inadeguata a rendere i propri membri in sintonia con un’armonia universale. Eventi naturali ineluttabili si alternano a orribili avvenimenti dettati dalla follia umana, rendendo sconfortante il vivere nelle città per i personaggi alla ricerca di un equilibrio interiore e di una dimensione di vita più umana. Mentre Teresa, ormai certa di vivere una vita senza futuro, abbandona la sua Napoli per andare a vivere a Berlino. John, dal canto suo, musicista in crisi e alcolizzato, torna dall’America nel suo paese natale sotto il Gran Sasso in Abruzzo, cercando rifugio per il suo animo inquieto. Il destino compirà il suo corso catapultandoli in vicende inaspettate non dipendenti dal loro volere e i personaggi, eroi dei nostri tempi, andranno disperatamente alla ricerca di sentimenti ormai relegati in nicchie sempre più inaccessibili, nella speranza di ritrovare una quiete umana che possa restituire una serenità sempre più irraggiungibile.

Buona lettura con un brano tratto da Il dito ritrovato.

 

John

Avvolto nella nebbia, appeso al macigno sullo strapiombo, il corpo resta inerme, penzolante nel vuoto come risucchiato da una calamita. Il freddo trapassa ossa, viscere, cervello, cuore, raggelando anche i pensieri, percezione di una fine imminente. Potrei lasciarmi andare, mollare la presa, precipitare per schiantarmi a valle, farmi inghiottire dalla distesa di neve, ma rimango immobile, offuscato dal nulla dilagante dentro e fuori di me. Il Gran Sasso opprime l’essenza di ciò che resta e resiste. Dalle mani agganciate ostinatamente alla roccia e alla vita gocciolano rigagnoli di sangue, colorando i vestiti logori e penetrando questo muro oltre cui è impossibile guardare. Vorrei lottare contro il male oscuro, ma intanto sto mollando, precipitando, precipitando, precipitando…

 

Teresa

Ci ero capitata convinta da una vecchia compagna di scuola, nella speranza di risolvere le mie contrarietà. Berlino dai poteri magici al mio arrivo avrebbe risolto ogni dramma.

Mi ritrovavo a trentatré anni senza avere fatto niente d’importante e costretta ad andare via da Napoli, lasciando lì un pezzo di cuore. Più di un pezzo: tutto. L’abbandono della propria terra è argomento retorico, il preferito dai cantanti partenopei per suscitare fiumi di lacrime, strappi di capelli e infiniti panegirici su di noi, poveri napoletani, costretti a partire per trovare lavoro. La solita storia trita e ritrita, ma la sorte capitata a me era quella di tanti, costretti a mettere in valigia brandelli della propria vita per ricominciare daccapo in un qualunque posto fuori dall’Italia, senza dimenticare mai le proprie radici.

E così, col sottofondo di Lacreme Napulitane, avevo messo in valigia rimorsi, rimpianti, perdite, lutti mai elaborati, pezzi di carta costati anni di studio: laurea, dottorato, master e super specializzazioni. Avevo preparato anche un book, non fotografico, delle mie esperienze. Avrei potuto essere la protagonista di un film di Merola: la valigia in mano, la mamma in lacrime, io pure, un quadro buono per la pubblicità della Roncato.

John

Era stato mio padre, contrabbassista e uomo dalle grandi abilità persuasive, a orientarmi verso la scelta del sax.

Da generazioni, la nostra era una famiglia di musicisti. Mio nonno e mio padre avevano formato molti giovani e suonato in tutti i più famosi jazz-club, ma per quanto bravi, i loro nomi non erano mai saliti alla ribalta. Avevano vissuto un’intera vita con la valigia in mano e lo strumento appresso, suonando a distanza di ventiquattrore in luoghi diametralmente opposti, senza mai stancarsi e senza mai fermarsi a guardare fuori dal loro mondo visionario, quello della loro musica.

Durante l’anno scolastico mio padre si esibiva in luoghi compatibili con la sua professione d’insegnante, ma quando le lezioni terminavano, la sua meta erano gli Stati Uniti.

Da bambino, durante le vacanze estive lo accompagnavo nelle tournée, passando le notti dentro camerini in penombra, annebbiati di fumo e di bottiglie di whisky per metà piene, respirando quell’atmosfera indefinibile in cui i musicisti apparivano come persone ai limiti della vita reale, con la testa sempre piena di note a cui tentavano di dare armonia e ritmo.

Mi chiedevo spesso perché la mia non fosse una famiglia tradizionale come quelle dei miei compagni, che avevano padri che facevano lavori normali. A  me era toccato nascere in una famiglia di suonatori, dove l’unico vangelo era la musica. Per questo motivo io mi chiamavo John e mio fratello Frank, e quel nome straniero era stato la causa di continue, stupide battute da parte dei miei compagni e mi aveva fatto sentire sempre inadeguato, schiacciato da un nome che non avrei mai voluto portare.

 

Teresa

 

Tornata a casa accesi il computer per il solito rituale, quindi entrai nell’applicazione per cuori solitari e mi registrai. Teresina00, il massimo della sensualità. Procedetti a compilare tutti i campi richiesti, poi venne il momento di inserire una foto, il che mi gettò nel panico e mi fece tentennare su quella decisione azzardata. Per fortuna, l’alcol che avevo in corpo ammorbidì un po’ le mie rigidità e, dopo aver spulciato in lungo e in largo in tutti gli album che avevo conservato sul cellulare, decisi per uno scatto che mi ritraeva con un’espressione sbarazzina e i capelli arruffati, ma metteva in mostra il colore dei miei occhi. Il tubino e i tacchi a spillo completavano l’idea di una donna sana e di bell’aspetto. Con lo stesso umore aggiunsi altre foto, già presenti su facebook e che avevano pertanto superato la mia rigorosa selezione. Mi stavo lanciando nel mondo dei single alla ricerca dell’anima gemella. A quel punto potevo sbirciare alcuni dei profili consigliati dal sistema, qualcuno le cui caratteristiche si accordassero alle preferenze che avevo espresso.

Mi si aprì davanti un intero book di corpi palestrati in costume da bagno sullo sfondo di paesaggi fra i più diversi. La fascia di età andava dai trentacinque ai quarantacinque anni, le professioni c’erano praticamente tutte: impiegati, l’operai, insegnanti,  poliziotti e liberi professionisti. Mentre stavo sfogliando, vidi che avevo già ricevuto un messaggio sulla mia pagina. Accidenti!  Il tizio si presentò; si chiamava Arthur e mi chiese se volevo conversare. Era arrivata la mia occasione e di certo non rifiutai, ma dopo parecchie frasi che, partendo da lontano cercavano di cogliere sempre con maggiore esattezza gusti e principi di entrambi, mi resi conto che non mi stavo divertendo affatto. Cercai una scusa e lo salutai. Teresina 00 va a dormire. Ciao, Arthur.

 

John

Ogni volta che mi trovavo a passare accanto all’ingresso del paese non potevo evitare di allungare la testa verso casa mia. Mi ero avventurato qualche altra volta, con il rischio di farmi riaccompagnare fuori dal solito militare zelante, perché l’idea delle stanze vuote e degli oggetti che contenevano, tanto importanti per me e rimasti privi di cura così a lungo, mi faceva stare male. Non sopportavo più l’idea del pianoforte abbandonato a se stesso, all’incuria che inevitabilmente subiva anche sotto il telo con cui lo avevo riparato. Pensavo all’umidità, che entrando dal tetto squarciato lo investiva, malgrado tutti gli accorgimenti e i miei tentativi di preservarlo. Non avrei potuto accettare che si rovinasse, non quel piano, non quel ricordo.

Al termine della lezione di quella sera, quando ero già solo e stavo riordinando il materiale, entrò Massimo, il sindaco, con un’espressione seria e professionale. Ormai da qualche tempo il sorriso che l’aveva contraddistinto fin da bambino lo aveva abbandonato. Si sedette e disse senza tanti preamboli: “Ancora una settimana e le strade saranno in gran parte sgombre.”

“Quindi si fa?”

“Ti farò sapere come predisporre la richiesta per l’autorizzazione. La burocrazia ha i suoi tempi, non so dirti quanto ci vorrà.”

“E se mi facessi aiutare da una squadra di volontari? Niente ditta privata, piani di sicurezza…”

“Stai scherzando, spero!”

“No. Avrei già trovato i volontari. Entreremo in casa all’alba, quando ancora non c’è nessuno in giro.”

“John, non è da te fare una cosa simile. Tu vuoi mettere a rischio la mia posizione. Se dovesse accadere un incidente, io rischierei la galera. Ti sembra un discorso da amico?”

“Fai finta di non saperne niente. Noi non abbiamo mai parlato. Mi assumo la completa responsabilità.”

“E se qualcuno dovesse farsi male?”

“Perché vuoi scoraggiarmi? Nessuno si farà male. Il pianoforte è nel salone a piano terra, lo facciamo uscire con prudenza, lo spingiamo per la strada fino al belvedere, e da lì sarà facile arrivare alla tendopoli. Non ci sono né case né macerie. Solo alberi e fate.”

“Sei impazzito. Non voglio più sapere niente di questa storia. La cancello dalla mente,” gridò infuriato uscendo dalla tenda.

Mi dispiaceva avere in piedi questioni con Massimo, ma considerati i tempi della burocrazia, chissà quanti mesi avrei dovuto aspettare.

La sera, in tenda, ne parlai di nuovo con gli amici. Erano ancora  disponibili ad aiutarmi, in qualsiasi modo. Il segretario s’impegnò a trovare la squadra, senza far trapelare niente al sindaco o ad amici a lui vicini. Avremmo aspettato il momento giusto, quando le strade fossero state adeguatamente sgomberate.

E avremmo agito alle prime luci del giorno, eludendo la vigilanza.

Durante la settimana successiva, Massimo non mi rivolse la parola e non si sedette più a tavola con me. La sera si ritirava nella sua tenda senza dare possibilità ad altri di interloquire con lui. Niente riunioni serali: silenzio assoluto, almeno apparentemente, perché il notaio, il farmacista e il segretario giravano in segreto per la tendopoli alla ricerca di volontari. Praticamente, quasi tutti “i rimasti” vennero a conoscenza dell’impresa e ognuno si sperticò in consigli, proponendosi di aiutarci. Furono fatti sopralluoghi lungo il percorso e quando la strada fu finalmente accessibile, fu fissata la data dell’intervento.

La sera prima tenemmo una riunione nella nostra tenda. I coinvolti erano dieci e l’appuntamento fu fissato per le cinque del mattino davanti al deposito dei formaggi. Da lì, all’andata avremmo preso il vicolo adiacente e, scavalcando macerie, avremmo raggiunto la casa. Col pianoforte, invece, avremmo percorso la strada principale, l’unica sgombra dalle macerie, anche se la più controllata. Avevamo calcolato che alle sei c’era il cambio della sorveglianza e solitamente i vigilanti si ritrovavano tutti al bar per la colazione. Era nostra complice anche Guglielmina, la barista, alla quale avevamo chiesto di intrattenerli più possibile con qualche pretesto, così da darci il tempo di uscire dalla zona. La pioggia sarebbe stata l’unica circostanza a farci desistere dal portare a termine la missione.

 

Il dito

D’improvviso, crack, e fu la fine o forse no, giacché ancora mantengo un pensiero. Non so per quale arcano motivo continuo a esserci. Forse un pezzettino dell’anima della mia padrona è rimasto attanagliato alle falangi tranciate.

La giornata era iniziata proprio male e non lasciava intravedere nulla di buono, poi d’improvviso ero stato risucchiato in un vortice irreale, come quando ero venuto al mondo, ma al contrario. Non so come abbia fatto e come io stesso non sia riuscito a proteggermi. Sono sprofondato in una marea scura, calda e dolcissima; sballottato dentro una spirale indefinita, e poi sbattuto, scrollato, sbatacchiato, tirato. Certo, pensavo di stare vivendo la fine del mondo, almeno del mio, solo e senza le mie coinquiline a consolarmi, come accadeva nei momenti di disperazione. Raffreddato, trascinato, compresso dentro una massa dura, come fossi stato mummificato e messo dentro un sarcofago, al buio. Mi chiedevo come facevo ad avere coscienza di esistere, ma intanto c’ero, bloccato e vivo. È una cosa orribile essere morto e continuare a esistere nello stesso tempo. Prima di questo cataclisma non immaginavo la fine come un transito da una dimensione all’altra; eppure, se potessi comunicarlo, rassicurerei le mie coinquiline e anche la mia padrona con cui sono molto, ma molto arrabbiato per essersi distratta, abbandonandomi al mio destino.

Sarà capace di vivere senza di me? Si adatterà.

Mi adatterò anch’io.

Teresa

La presenza di mio padre mi rincuorò. Trascorremmo le serate che rimase da me a confidarci reciprocamente malumori e attese, interrogandoci sulle possibilità rappresentate dai sogni. Mio padre, ormai non più giovane, nutriva soltanto il desiderio di svolgere bene il suo lavoro e di invecchiare in salute. I suoi eventuali sogni si concentravano su di me e sulla mia realizzazione professionale e sentimentale.

Quelli dentro di me, invece, non erano ben chiari; il lavoro non era più l’obiettivo primario della mia vita. Certo, speravo di venire assunta dall’università di Berlino, ma avevo appreso che occorreva aspettare un altro semestre per l’assegnazione dell’incarico e quindi tormentarsi adesso era inutile. Intanto mi ero perfettamente integrata nella città, avevo amiche e amici e superato la fase della solitudine; non m’interessavano più le conoscenze via chat e con un po’ di fatalismo pensavo prima o poi di imbattermi nell’incontro della vita. Il principe vestito d’azzurro sarebbe arrivato e mi avrebbe condotta nel suo castello. Sarebbe bastato anche un bilocale arredato e che non fosse principe né biondo, ma bruno. L’unico vero desiderio era quello di innamorarmi, un’esperienza finora mai vissuta. Tuttavia, specialmente dopo la perdita del dito, volevo affrontare la vita con la giusta leggerezza.

Prendere le distanze dai sogni e non desiderare troppo era fondamentale, riflettevo, per non rischiare cocenti delusioni: dovevo rimanere con i piedi bene attaccati alla terra, sapendo di condurre una lotta per la sopravvivenza.