Dalla Peste nera al Coronavirus…quando la natura si scatena! [Lisòndria tra Tani e Burmia]

di Piero Archenti

 

Il mondo intero cerca di trovare una soluzione al problema in cui ci ha cacciato il cosiddetto Coronavirus. Ovviamente, anche Alessandria sta facendo la sua parte per cui a far data 27 ottobre 2020 i dimessi dall’ospedale in Piemonte sono stati 32.092 a cui, purtroppo, fanno riscontro i 4286 deceduti. E’ vero che siamo certamente di fronte a numeri importanti ma è anche vero che da quando, e sono ormai dieci mesi che ci troviamo invischiati in questa brutta situazione, siamo costretti, volenti o nolenti, a fare i conti con una natura ostile che mai avremmo immaginato di dover affrontare in prima persona. Ovviamente confidiamo nella capacità della medicina mondiale di trovare la soluzione al dramma che stiamo vivendo.

Nell’attesa di poter mettere la parola fine a tutto ciò è pur vero che, in epoca passata i nostri antenati, in Alessandria, hanno dovuto affrontare, nel 1630, e senza le conoscenze attuali, l’epidemia provocata dalla lebbra, o peste nera, come testimonia la ricerca condotta qualche tempo fa, da un professore del Politecnico di Milano, il chimico Pier Giorgio Righetti – come riportato su La Stampa da Alberto Mattioli – il quale, con le dovute cautele, ha consultato i registri dei decessi dei tre mesi più terribili riguardanti giugno, luglio e agosto 1630, ossia quando in città morivano circa mille persone al giorno (il bilancio finale fu di circa 60 mila morti a Milano e 160 mila nel Ducato: in pratica, la metà della popolazione).

Durante la peste di Milano chi veniva sospettato di diffondere il morbo applicando a persone e cose unguenti infetti veniva accusato di essere un untore, anche se, assai spesso, l’untore era semplicemente vittima di atti equivocati dal “giustiziere“ di turno. Ed è esattamente quel che capitò a Gian Giacomo Mora il quale, come racconta il Manzoni, al contrario fu semplicemente un borghese che si sforzava di ridurre il contagio.

Dunque non solo innocente ma pure eroe borghese che si sforzava di ridurre il contagio. Memorie liceali del Righetti, evocate all’Archivio di Stato, dov’è stata illustrata la ricerca che ha scoperto, sui fogli nemmeno troppo ingialliti dei registri di morte dell’estate 1630, le proteine del batterio «Yersinia pestis» il quale si chiama così perché fu identificato per la prima volta nel 1894 da Alexandre Yersin.

Non solo: c’erano anche le proteine del carbonchio o antrace, che qualche anno fa ebbe una certa notorietà quando iniziarono ad arrivare ai giornali delle lettere contaminate. Secondo i registri secenteschi, circa il 5% dei decessi fu dovuto non alla peste ma a una non meglio specificata «febbre violenta»: appunto l’infezione polmonare causata dall’antrace. Insomma, i poveri cerusici o barbieri dell’epoca azzeccarono la diagnosi, anche se non ne conoscevano la causa e men che meno, ovviamente, la cura.

Nel corso della ricerca del Mora, le proteine hanno svelato anche altre storie. C’erano, per esempio, una sessantina di cheratine umane – continua il Righetti – tutte con proteine vegetali, segno che gli scrivani erano sottoposti a una dieta strettamente vegetariana, tanto mais e mai carne. E sui fogli sono state anche trovate tracce di topi, che erano poi i veri untori, e di ovini, le famose capre che allattarono i bebé rimasti senza mamma. Per finire, sull’angolo in basso a destra dei fogli, delle strane macchie verdastre.

Ma erano soltanto l’olio e il petrolio con i quali il barbiere Mora realizzava i suoi unguenti, per il resto composti da erbe magari non troppo curative ma di certo non nocive. Voleva soltanto proteggere la gente. Cosa che non gli impedì di essere condannato come untore a una morte atroce: prima gli fu amputata la mano, poi rotte le ossa sulla ruota, infine fu scannato e il suo cadavere bruciato (leggi “Storia della Colonna Infame” di A. Manzoni)

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San Rocco con il suo fido cane.

Chiesa di S. Rocco sulla omonima piazza.

Antica immagine raffigurante i flagellanti.

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Quando, nel 1630, la peste sterminò un terzo degli alessandrini

Il culto popolare per S. Rocco, elevato a protettore della peste, si inizia nel Rinascimento e ovunque nella Città e nelle campagne, sorsero in suo onore, edicole e cappelle, dove S. Rocco è raffigurato in abito da pellegrino con il bordone e il fido cane.
Tanta devozione è dovuta alla straordinaria frequenza in allora del grave morbo, che certo non risparmiò Alessandria se nello spazio di cinque secoli, tra il 1200 e il 1700, conobbe ben trenta volte la terribile malattia con vittime numerosissime. Nel 1314, anno che scende in Italia S. Rocco, la mortalità alessandrina fu si grande che il prezzo del grano, per mancanza di compratori, discese a 10 soldi lo staio! Nel 1478 si vedono per la prima volta alcuni ex voto e di quell’anno è forse la edicola di via Guasco oggi nota come Chiesetta dell’Assunta.
L’epidemia del 1630 fu davvero spaventosa se il Comune, in seguito a voto popolare, decise la costruzione di una chiesa vera e propria dedicata a San Rocco, i cui membri detti “disciplinati o flgellanti” si incaricarono del trasporto degli appestati. Per la verità, già prima, nel 1485, erano sorte le Compagnie di San Rocco, i cui membri, detti “disciplinati o flagellanti”, si incaricarono del trasporto degli appestati. Una pietosa usanza durata a lungo e in Alessandria continuata per tutti i morti in genere, con i cosidetti “batù”, derivazione certa dei flagellanti di un tempo. I “batù” erano divisi per Parrocchia, portavano cappe diversamente colorate e cessarono si piò dire quando il trasporto venne municipalizzato. Nel 1630, la prima vittima della peste cade il giorno 23 giugno e grande e giustificato fu lo spavento: infatti, in meno di quattro mesi moriva un terzo della popolazione alessandrina: divennero lazzaretto anche i locali della Fiera!
Come auspicato dal Comune, la chiesa di San Rocco fu costruita sul Largo oggi Vicenza e in allora detto di San Rocco. Nessuna meraviglia quindi se, presa dal terrore del momento, la nostra gente si raccomandò a San Rocco!
Tuttavia la costruzione durò a lungo se la chiesa fu aperta al culto soltanto nel 1636. Era addossata all’Ospedale di sant’Antonio (di via Treviso) e recava in cima una statua del Santo tutta in rame. Dapprima aveva un pesce che faceva da banderuola al vento: ma nel movimento emetteva un sibilo tanto forte da impressionare gli abitanti della contrada, sicchè fu tolto. Si sa che nel 1642 la chiesa era tenuta dai Barnabiti e da allora il nome di San Rocco si accompagnò con quello di Santa Barnaba.
Chiusa temporaneamente nel 1705 venne militarmente occupata dai francesi nel 1796, finché nel 1807 Napoleone ne decise la distruzione!
Ben diversa invece la storia dell’attuale chiesa di San Rocco, infatti, come già è stato da taluno rilevato, ottimo segno di interesse per le cose alessandrine. Nel 1189 era la bellissima chiesa dei Frati Umiliati col titolo di S. Giovanni del Cappuccio.
Serviva per Frati e Suore del famoso Ordine Laniero ed aveva un “matroneo” (balcone o loggiato posto all’interno della chiesa e destinato alle donne) per dividere gli uomini dalle donne. Caduto in rovina ne sopravvisse soltanto il bel campanile che ancora oggi vediamo
Nel 1745 servì come Ospedale per le truppe gallo-ispane e qualche tempo dopo, nel 1776, fu occupata dai P. P. Minimi di San Francesco da Paola e poveramente rifatta.
Abbandonata nuovamente nel 1830 fu data provvisoriamente alla Confraternita di San Rocco allora aggregata alla Chiesa di Betlemme (S. Croce) di via Guasco.
Il provvisorio divenne definitivo e il titolo di San Rocco è rimasto alla Chiesa, ora Parrocchia della città e dal 1911 Monumento Nazionale.
Ultimo ricordo del tempo passato sono oggi i tre altari della chiesa dedicati a San Rocco, S. Barnaba e San Francesco da Paola.

Piero Angiolini 29-05-1954