Vite maledette. Autobiografie apocrife di Vito Molinari [ALlibri]

La sinistra alessandrina strumentalizza Umberto Eco...e intanto dimentica Delmo Maestri CorriereAl 1a cura di Angelo Marenzana

 

Prefazione di Andrea Tarabbia

 

 

 

Nelle sue cinque autobiografie apocrife di artisti maledetti, Vito Molinari in  Vite maledette (pubblicato dalle Edizioni Gammarò) ci racconta di personalità di gran genio ma prive del dono di saper vivere. Ecco il rapido profilo dei protagonisti proposto da Andrea Tarabbia, premio Campiello 2019, nella sua prefazione al volume:  Vissuti male, morti peggio; scrivono la propria vita oltre la vita. Non c’è quasi nulla di più straordinario, e di più letterario, di questo.

Vito Molinari (classe 1929 il 3 gennaio 1954 dirige la trasmissione inaugurale della TV e da allora è stato regista e spesso coautore di oltre 2000 trasmissioni tv di generi vari, attività elevisiva che Molinari ha alternato alla sua passione per il teatro con la regia di una sessantina di operette, spettacoli di prosa e di rivista) nel suo Vite Maledette ci offre uno spaccato dell’anima e delle esperienze di

Gesualdo da Venosa (1566-1613), musicista sommo, assassino della moglie e del suo amante

Caravaggio (1573-1610), genio e assassino

Alessandro Stradella, “il Caravaggio della musica” (1643-1682), donnaiolo impenitente, assassinato per vendetta;

Amedeo Modigliani (1884-1920), principe della bohème, morto povero e drogato

Antonio Ligabue (1899-1965), una vita tra manicomi e capolavori.

Ed è proprio per ognuno di loro che ALlibri propone un estratto in lettura.

 

 

 

CARLO GESUALDO DA VENOSA

 

ERA POCO OLTRE MEZZANOTTE. Ad un segnale, i miei sgherri hanno sfondato la porta della camera da letto di mia moglie. Nel letto, lei, la mia sposa, Maria d’Avalos, e il suo amante, Fabrizio Carafa, duca d’Andria e conte di Ruvo. Nudi. I miei armigeri inseguono Fabrizio che tenta la fuga nei corridoi del castello, e, come stabilito, lo trafiggono con due colpi di archibugio. Lei, mia moglie, fugge, coprendosi con un lenzuolo. Trafitta da varie lame, la finisco con un colpo di pugnale. Il lenzuolo si macchia di sangue, che si sparge dovunque nella stanza. Giustizia è fatta, l’onore è salvo.

Il piano era stato preparato in ogni minimo dettaglio; la ven-detta covata e meditata. Ieri, 16 ottobre 1590, avevo avvertito Maria che sarei andato a caccia nel bosco degli Astroni, e che sarei stato lontano per due giorni. Invece, nella notte tra mar-tedì 16 e mercoledì 17 ottobre, sono tornato al Castello e li ho colti in fragrante. La luce della luna, all’ultimo quarto, nel segno del Leone, illuminava sinistramente lo spettacolo.

Lui,il cavaliero, bello, un Adone per le fattezze, un Marte per la robustezza del corpo. Lei bellissima, con una chioma d’oro, inanellata. Da tempo si incontravano segretamente, anche in mia casa di Venosa.

….

Il corpo di Maria, nudo, sporco di sangue, alla luce di un raggio di luna, riverso sulle scale, risplendeva come una bellissima scultura: Maria, la più bella e solare donna di Napoli. Il suo amante Fabrizio, sfigurato dai colpi di schioppo dei sicari, era abbandonato nei bui meandri del maniero. Dopo alcun tempo i corpi degli amanti furono fatti gettare in una fossa comune. Ho scoperto in seguito uno scritto di Maria a Fabrizio, in cui con tono appassionato lo scongiura di raggiungerla al più presto, perché lei “era nel gelo della sua lontananza”.

La circostanza del duplice assassinio, dell’uxoricidio e del delitto, lo giustificavano dal punto di vista della legge e del costume del tempo.

 

 

MICHELANGELO MERISI – CARAVAGGIO

IL 18 LUGLIO 1610 MUORE, MALAMENTE COME APPUNTO MALE AVEVA VISSUTO, MICHELANGELO MERISI, DETTO IL CARAVAGGIO.

Questo è stato il mio epitaffio.

Avevo 37 anni. Da giorni mi aveva assalito una febbre maligna, che mi ero procurata camminando a lungo sulla spiaggia di Porto Hercole, sotto il sole cocente.

Ero infuriato, volevo ritrovare il vascello che i miei bagagli portava, scomparso con tutte le mie robe e i quadri, che qui mi aveva recato proveniente da Napoli. Ero stato ingiustamente denunciato dai marinai malandrini della feluca, per aver barato, durante un gioco delle carte, fatto con essi. Ripeto, ingiustamente, ma per sciagurato errore fermato, messo in cella, liberato dopo tre giorni, mi ero ritrovato derubato e abbando-nato sull’ arenile, sotto la vampa del sole; ho avuto un manca-mento e sono svenuto. Una vicenda assurda.

Stavo da tempo attendendo di poter rientrare a Roma, otte-nendo da Sua Santità la grazia, sollecitata dal Cardinal Gon-zaga, per l’uccisione di Ranuccio Tommasoni, durante una rissa avvenuta a Napoli, in cui ero stato assalito e ferito gravemente, sulla porta della locanda tedesca del Cerriglio. Ma la grazia è giunta tardi, tredici giorni dopo la mia morte. Una beffa del destino, una fatalità.

Non ho avuto una vita facile né felice, ma le disgrazie me le sono cercate. Ho vissuto pericolosamente, ma come volevo, una “vita maledetta”.

….

Ho 37 anni, sono nel pieno vigore fisico e della creatività. Il meglio della mia produzione è nel mio futuro. Più che una speranza, è una certezza.

Ritenni cosa giusta avvicinarmi a Roma. Tornando nella città, avrei ritrovato la luce delle sue albe, dei suoi tramonti, e nuove idee e ispirazioni. Decisi così di spostarmi su una felucca, fa-cendomi recare a Porto Hercole, presidio spagnolo ai confini dello Stato Pontificio.

Avevo con me poco bagaglio, e alcune tele, tra cui il Battista alla sorgente, la mia ultima pittura. Certo di andare verso un luminoso futuro.

Il destino crudele ha disposto diversamente. Inutile recriminare. In fondo ho vissuto una vita spericolata, al limite della legge; ho viaggiato, ho lavorato, ho dipinto più di trecento tele, ho amato. Una vita così come la volevo. Rimpiango solo i dipinti che non ho avuto tempo di immaginare, di dipingere; certo sarebbero stati i miei migliori in assoluto.

Lagnare solo mi devo per le tante copie fatte di miei quadri e vendute come autentiche, data la grande richiesta.

Non so se nel tempo rimarrà qualche mio dipinto a testimonianza della mia opera. Certo mi piacerebbe che, oltre che nelle chiese e nelle collezioni private, qualche mio quadro rimanesse esposto in un qualche museo italiano o, perché no, straniero.

Al visitatore in estatica contemplazione di quell’opera, potrei suggerire:

È stato dipinto da Angelo Merisi, detto il Caravaggio, pittore ottimo, uno dei più celebrati maestri dei tempi suoi.

 

 

ALESSANDRO STRADELLA

QUESTA NOTTE MI SONO VERAMENTE DIVERTITO. Passata la mezzanotte, l’amico mio Giovan Battista ha iniziato a suonare sul violino una mia composizione. Giovan Battista è morto in duello poco tempo fa. Aveva reagito ad una offesa arrecata alla sua donna da un giovinastro. Mi aveva chiesto di fargli da padrino. All’alba, sulle alture di Genova, alla base delle alte mura di un forte, si tenne il duello. Al primo assalto un colpo di spada colpì l’amico mio alla gola, procurandogli una ferita larga e mortale. La donna sua venne trovata impiccata pochi giorni dopo: aveva voluto raggiungere l’amato. Insomma: ora Giovan Batttista si incaricava della musica. La piazza, piazza Banchi, era deserta.

Faceva freddo. Il vento, un ventaccio invernale ghiacciato, ti-pico di Genova, faceva vortice a centro piazza, poi si precipitava fischiando nel carruggio verso il mare. Io mi sono appostato dietro uno stipite dell’edificio della chiesa di San Paolo, in alto sulla scalinata, in attesa di un qualche passante. Finalmente ecco un briaco, traballante, traversa la piazza. Quando è a pochi passi da me, improvvisamente mi mostro.

Lui si blocca, poi spaventatissimo fa per urlare, ma la voce gli si strozza in gola. È terrorizzato. D’altra parte, è normale: io sono un fantasma. L’individuo si raddrizza, poi fugge via quanto più veloce, inseguito da miei lamenti sinistri. Una mia risata lunga, forte, echeggia in piazza… Poi la musica cambia.

Ora è una melodia d’amore, una mia ballata. Spero passi una coppia, magari due giovani innamorati. Invece ecco due ragazze, verosimilmente due bagasce, due puttane. Sembrano stupite della musica, cercano di capire da dove proviene. Ma sono allegre, ridono.

Esco allo scoperto. Si bloccano, stupite. Nel volto una espres-sione di grande meraviglia. Non paiono spaventate. Inizio a recitar loro versi d’amore: Donne che avete intelletto d’amore.

Ora la loro meraviglia si muta in terrore. Effettivamente un fantasma con una qualche macchia di sangue al centro del lenzuolo non è particolarmente tranquillizzante. Urlano, fuggono terrorizzate.

Per questa notte può bastare. Rimando l’apparizione alla prossima notte.

Io sono Alessandro Stradella. Avevo quarantadue anni quando, qualche giorno fa, il 25 febbraio 1682, sono stato assassinato.

Proprio qui, in piazza Banchi, sulla scalinata della Chiesa di San Pietro, costruita sopraelevata rispetto alla piazza. Inutilmente mi sono trascinato sui gradini, sperando di salvarmi; inutilmente ho invocato pietà. I sicari si sono accaniti su me e sul mio amico Giovan Battista Guani. Lui l’hanno sfregiato, a me hanno dato morte.

Un biglietto anonimo, posto nel “Calice” nel marzo 1682, poi custodito nell’Archivio di Stato di Genova, dice:

Hanno assassinato un Orfeo, e gli scellerati si sono messi in salvo; al Guani, musico e parrucchiero hanno fatto il fregio, e allo Stradella hanno portato via l’anima.

Così verrò ricordato: l’Orfeo assassinato.

 

 

AMEDEO MODIGLIANI

SONO LE TRE DEL MATTINO DEL 25 GENNAIO 1920.

Jeanne Hébuterne, mia moglie, incinta di nove mesi, si getta dal balcone del quinto piano della nostra casa parigina. “Devota compagna, fino all’estremo sacrificio”. Non regge al dolore della mia morte, del suo Modì, morto il giorno prima, in una fredda giornata, dopo un lungo delirio. Mi chiamavano Dedo, più spesso Modì, che era una specie di gioco per legare l’abbreviazione del mio cognome alla parola francese “mau-dit”, maledetto. Sono morto all’Hospital de la Charité, a Saint Etienne, Parigi. Ero in coma per meningite tubercolare, cau-sata dalla febbre spagnola. Alcool e droga hanno certo inde-bolito la resistenza del mio organismo. Avevo trentacinque anni. Le mie ultime parole sono state: “Cara Italia….”. La mia prima figlia, di venti mesi, viene affidata alla nonna paterna, mia madre, a Livorno.

Pittore e scultore, artista romantico e maledetto, protagonista della Belle Epoque, principe della boheme, così mi hanno de-inito i miei contemporanei. Vita dissoluta e segnata dalla tisi, la mia; sono sempre stato in incessante polemica antibor-ghese, isolato nel panorama delle avanguardie della Parigi di inizio secolo. Non omologabile, impossibile da inquadrare in qualsivoglia corrente. Pittore non apprezzato in vita, lo sarò da morto. Afflitto dal “male di vivere”, ho vissuto all’insegna della trasgressione e dell’isolamento a causa di una innata av-versione nei confronti di una società perbenista e ipocrita.

Il 24 gennaio 1920 ho lasciato questa mia vita disperata, maledetta… Amici, artisti, modelle hanno fatto una colletta per saldare 1340 franchi per il mio trasporto funebre.

Ho avuto esequie magnifiche, presenti tutti i pittori, scultori, poeti, artisti e modelle di Parigi di Parigi. Il carro coperto di fiori; agenti della polizia sull’attenti mi hanno fatto il saluto militare. A me! Salutato da coloro che mi avevano tanto spesso ingiuriato…

Mi sono raccontato in modo forse un po’ confuso, disordi-nato; ma sono ancora sotto l’effetto della droga.

Dimenticavo: sono stato molto falsificato, e ne vado orgoglioso. Certo mi farebbe piacere che i miei dipinti, così poco considerati mentre ero in vita, fossero nel tempo rivalutati, magari esposti in mostre a me dedicate. Dovrebbero essere presentati in grandi sale luminose, in ambienti ben diversi dal mio piccolo studio parigino, caotico e fumoso, dove sono nati. I nudi, che nel 1917 mi costarono l’arresto per indecenza, ora magari in piena luce, esibiti, offerti agli sguardi di spettatori attoniti. Esposte magari anche le sculture, teste di donne, le mie vere accanto ad altre falsificate, in modo perfetto, tale da ingannare perfino me! I miei ritratti magari raggiungerebbero quotazioni altissime… Bene: qualcuno almeno ci guadagnerebbe!

In fondo, considerando il tutto con distacco e con l’esperienza che ci dona il tempo trascorso, penso che sia valsa la pena di vivere la mia vita: maledetta così come l’ho vissuta, come l’ho voluta vivere, bruciata in uno splendore ineluttabile e disperato. Di me diranno:

La morte lo colse quando giunse alla gloria.


 

ANTONIO LIGABUE

 

OGGI, 27 MAGGIO 1965, HO APPENA COMPIUTO 65 ANNI. Per festeggiare, mi sono concesso una gita, sulla mia moto Guzzi scarlatta, una delle dieci che possiedo. La giornata è bellissima: il tramonto sugli argini del Po, pare voler offrire a me, solo a me, colori magnifici…

Guido a forte velocità, come a me piace, scartando buche, fossi, dossi e tronchi d’albero; ho in braccio un coniglio, tenero, il mio coniglietto bianco; mi segue un gruppo di cani randagi, che ho raccolto; abbaiano festosi, cercando di superarsi e di superare la moto. Sulle spalle ho la mia attrezzatura da pittore, legata con due funi; a tracolla un dipinto, l’ultimo mio autoritratto.

Respiro, felice. Ne ho ben motivo… Tutte le riviste d’arte parlano di me; grandi articoli e pagine a colori. Io ho fatto anche la televisione, e poi farò il cinema, perché la mia pittura è conosciuta in tutta Italia. Io ho fatto grandi capolavori.

Aumento la velocità; il vento mi schiaffeggia il viso. Il naso mi sanguina, tutto scorticato. Penso che sarebbe bello morire così, ora, schiantandosi contro un albero. Una morte tragica. Tutti si sentirebbero un po’ colpevoli, mi rimpiangerebbero… Ma non è destino. Arrivo a Gualtieri, davanti al Ricovero Carri, con una gran frenata. Ordino “Cuccia!” ai miei cani, an-simanti. Poso la moto e vado. Ma torno: ho notato un piccolo, piccolissimo graffio sulla vernice della moto. Indosso guanti grossi, pesanti, da motociclista; dalla tasca estraggo una scatolina di colore rosso, ne distendo un poco sul graffio che scompare. Felice, entro nel ricovero-ospedale. Il coniglietto lo porto con me, assieme al quadro. Mi conoscono, mi fanno entrare. Vado in corsia, mi stendo su un letto. “Aspetto di morire”, dico. Il coniglietto mi lecca le mani, poi risale, mi lecca le labbra, poi mi lecca il naso, lo pulisce dal sangue. Chiudo gli occhi. Non li riaprirò più.