Formula UNO – La vita, l’amore e i motori di Laura Di Nicola [ALlibri]

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a cura di Angelo Marenzana

 

 

Come è facile intuire dal significativo titolo del romanzo presentato oggi su ALlibri, la sua autrice, Laura Di Nicola con la pubblicazione del volume edito da Tabula Fati, ci accompagna all’interno del mondo tanto affascinante quanto contradditorio della Formula Uno. Siamo nei primi anni 2000, nell’era della Ferrari di Michael Schumacher. “Ma il punto di vista è quello di un piccolo team, immaginario eppure molto verosimile, nella sua lotta per la sopravvivenza economica e per la gloria sportiva. Nel quadro di una stagione agonistica caratterizzata da alterne fortune e da sospetti di spionaggio industriale, si intrecciano le vicende umane di personalità complesse e distruttive, legate a doppio filo dalla necessità di raggiungere un comune obbiettivo.” Come sottolinea il giornalista di Raisport Ettore Giovannelli.

E nella dinamica coinvolgente di una trama ricca di suspense e di colpi di scena, prende forma anche una storia d’amore che addolcisce i contorni spigolosi di un ambiente votato alla competizione e alla prestazione.

Perché questo romanzo non è solo un racconto di corse e motori né semplicemente una storia sentimentale: è piuttosto una dichiarazione, passionale, d’amore per uno sport unico e incomparabile: la Formula Uno.

Laura Di Nicola, pescarese e classe 1979, prende spunto da eventi realmente accaduti per narrare le vicende interne della scuderia Spider Grand Prix, una di quelle troppo semplicisticamente definite “minori” che, tuttavia, hanno spesso mostrato la forza di un gigante, non solo perché si misuravano ad armi impari con i dominatori della categoria, ma soprattutto perché hanno avuto un ruolo determinante nel sostenere e lanciare dei perfetti sconosciuti che sono, poi, diventati campioni. Caratteri diversi e personalità fra loro distruttive dovranno allearsi per portare a termine la stagione, confrontandosi con difficoltà di varia natura – dal far quadrare il rendiconto finanziario aziendale al barcamenarsi con il regolamento sportivo – e irrisolte questioni personali, con l’unico obiettivo di arrivare sani e salvi a disputare il Gran Premio d’Italia a Monza. Guasti, incidenti e inconvenienti tecnici disturberanno il cammino, con lo spettro dello spionaggio industriale sempre presente.

 

Buona lettura con alcuni estratti di Formula UNO.

 

 

La colpa era stata senz’altro della canzone. Della canzone, sì, una ballata di una bellezza crudele che parlava di un Paese metà giardino e metà galera, vera quanto il caldo anomalo di quella mattina di febbraio: quindici gradi alle nove, quando a due ore di treno da lì quasi nevicava. Oh, il treno! Perfino il treno aveva contribuito a infondere in Arthur Ringelmann un’inusuale leggerezza: era partito e arrivato in perfetto orario, lindo e lustro, ogni oltre ragionevole previsione e luogo comune, oltre perfino la disastrata fama delle ferrovie italiane.

Forse la colpa era stata della canzone, Viva l’Italia, del sole, del caldo, del treno in orario. O forse era stata solo e soltanto sua se quella giornata, partita sotto i migliori auspici, era miseramente deragliata. Arthur Ringelmann era l’archetipo dell’idiota tedesco nutrito a Sturm und Drang e Sapore di mare, uno straniero innamorato dell’Italia, che dopo aver vissuto e lavorato lì per dieci anni e averne subito il caos, la burocrazia e il degrado, era ancora capace di spegnere il cervello di fronte a un bel paesaggio colorato da un sole fuori stagione.

(…)

Non sottovalutare mai l’apporto di una squadra.

Incontrerai tanti imbecilli nella vita: impara a trattarli e tieniti strette le persone valide.

Sciorinando queste due massime, Johannes Paul Schlesinger, un anno prima, si era presentato alla Spider Grand Prix come pilota collaudatore.

Nella vita, ognuno gareggia nella sua personale corsa, ma se nasci pilota il correre non è mai disgiunto dal vincere, e al giovane Schlesinger pareva interessasse poco altro: correva, apprendeva, vinceva in un’automatica successione che sembrava non avere soluzione di continuità fin da quando era un ragazzino su un go-kart. La grande facilità con cui riusciva laddove altri impiegavano anni anche solo per entrare in sintonia con le monoposto, però, molte volte lo aveva reso superficiale nei confronti di quelle mille situazioni che fanno parte di una competizione ai massimi livelli, ma che secondo lui erano compito di qualcun altro, segnatamente della squadra (…) Tuttavia, un paio d’anni prima qualcosa sembrò aver interrotto quel circolo vizioso (…). Aveva ammesso lui stesso di essere cambiato – o meglio, di stare impegnandosi a farlo con tutta la tenacia di cui era capace – dopo che un incontro fortuito gli aveva salvato la carriera e addirittura la vita, oltre ad avergli insegnato quelle massime. La storia di quell’incontro era nota a tutti quelli che, da quel giorno in poi, avevano lavorato con lui, perché non si stancava mai di raccontarla: parlava di una scarpata e di una donna di nome Isabella Castellani.

(…)

Isabella Castellani arrivò per tempo quel venerdì mattina. Lui era lì ad attenderla, immobile, sprofondato nei suoi pensieri più eterei e profondi, e lei si sedette composta su una panchina più in là, oltre la gran folla che gli si assiepava attorno. Ayrton Senna, in fondo, non se n’era mai andato da lì, dalla sua Imola che tanto amava, anche se quel primo maggio 1994 uno schianto se lo era portato via dalla Tamburello e dalla sua esistenza terrena. Ora, davanti a quel monumento che non a tutti i suoi tifosi piaceva, Isabella provò un senso di vuoto al pensiero che quella poteva essere l’ultima volta che il grande circo itinerante della Formula Uno si fermava sulle rive del fiume Santerno: erano previsti dei lavori di ristrutturazione e adeguamento, avrebbero fatto saltare l’intero edificio dei box, si diceva, quei box nei quali era passata la storia dell’automobilismo, poi forse chissà, magari ci sarebbe stata una seconda occasione. Intanto, autodromi che puzzavano di cellophane, sorti in posti improbabili e modaioli, lasciati mezzi vuoti da un pubblico annoiato di novità più che avido di emozioni, avrebbero preso il posto di arene impregnate di bellezza come Spa-Francorchamps e la stessa Imola.

(…)

Passarono i giri, le gomme si degradarono, i serbatoi si svuotarono e le posizioni, al solito, si congelarono,  caratteristica – o maledizione – della Formula Uno moderna, vedere cioè che dopo i primi, forsennati attimi della partenza, la lotta per avanzare di una o più posizioni si riduca a qualche scaramuccia a colpi di giri veloci, allo scopo di scavalcare un avversario al pit stop. Alla tattica del corpo a corpo in pista si sostituì la strategia delle fermate ai box, alla lotta fra fiere del volante un duello fra tattici, rendendo quell’insieme virtuoso di uomo e macchina sempre più sbilanciato dal lato della monoposto. Di quel passo, gli inseguitori sarebbero restati tali, perennemente separati dagli inseguiti da un gap tecnologico difficilmente colmabile e gli outsider sarebbero destinati a restare… out, fuori dai giochi, ad ammirare la cosiddetta lotta degli altri come se fossero dietro a un vetro. Cicli di dominio si sarebbero alternati, laddove chi sarebbe riuscito a concepire il mezzo più performante sarebbe restato a lungo in vetta, finché qualcun altro non avrebbe fatto meglio, anche approfittando di qualche codicillo nel regolamento. Agli altri, solo le briciole di un banchetto per pochissimi commensali, a mo’ di marbles lasciati a bordo pista dagli pneumatici che si consumavano.

(…)

Sistemandosi al grosso tavolo in legno del soggiorno di casa di Isabella, Marco Aurelio Barberino fu attento a occupare il maggior spazio possibile, in modo che la sua mole dominasse anche da seduto, quindi iniziò a raccontare partendo dalla scuola media (…). Prima di comprare la Spider Grand Prix, aveva bazzicato l’ambiente, girando per Gran Premi e gare endurance; poi, man mano che il portafogli s’allargava, aveva iniziato a sponsorizzare piccole scuderie di campionati minori e a interessarsi alla carriera di qualche giovane fenomeno. Così, quando aveva rilevato la proprietà della Spider Grand Prix, aveva imposto un indirizzo ben preciso: che la scuderia diventasse una serra per pianticelle, un’accademia grazie alla quale lanciare nell’olimpo del motorsport non solo i campioni del futuro, ma anche tecnici, progettisti, meccanici e ingegneri che avrebbero disegnato e forse diretto la Formula Uno di domani.

«Sa com’è, no? Hai da dar la biada a tanti brocchi prima che ti capiti fra le mani un purosangue! Dopodiché, quando tu hai speso denaro, tempo e fatica per allevarlo come si deve, arrivano i grandi Paperoni e te lo portano via dalla stalla. Così devi ricominciare tutta la storia daccapo.»

Il Grande Capo amava le metafore agresti e il senso di quella storia di purosangue e pianticelle era che la promozione dei giovani era soddisfacente ma costosa per cui, nonostante fosse partito con le migliori intenzioni e avesse sempre gestito la scuderia in maniera da non rimetterci le penne, i costi esorbitanti del campionato di Formula Uno erano diventati un problema impellente e invalidante anche per un Mecenate a trecento all’ora come lui. (…) Barberino si disse tutto sommato fiducioso, perché gli ingranaggi parevano oliati bene, ma preoccupato, perché sembravano girare ognuno per proprio conto: i reparti tendevano a lavorare per compartimenti stagni, i vecchi mal digerivano i nuovi e i nuovi erano intimoriti dall’ambiente. Mancava l’amalgama e non c’era nessun fornitore al mondo da cui potesse acquistarlo.

«E qui entra in campo lei, Castellani. O forse è meglio che io dica in pista! (…) Ascolti me: nella mia scuderia succedono troppi guasti. Alle comunicazioni, agli impianti frenanti, ai motori. Alle persone. Mi serve uno bravo a trovarli.» (…)

Isabella Castellani non aveva esperienza di scuderie di Formula Uno, ma era chiamata a dar risposte a chi ci lavorava. Avrebbe dovuto mettere ordine laddove non era nemmeno certa che ci fosse ancora qualcosa da sistemare. Era una misantropa dichiarata, una solitaria orgogliosa, alla quale si chiedeva di favorire la comunicazione in un gruppo chiuso, di unire in un amalgama dei compartimenti stagni. Quand’anche fosse riuscita a far tutto e, nel frattempo, anche a far tornare l’allegria nelle tasche del suo patron, per ironia della sorte questo famoso amalgama, che non si poteva comprare da nessuna parte, sarebbe stato la cosa più facile da trovare: ogni elemento della Spider Grand Prix sarebbe stato, infatti, amalgamato dal risentimento verso chi era spuntato dal nulla a imporre cambiamenti, cioè verso di lei. A Barberino serviva una persona che fosse seria, scrupolosa e affidabile, ma che, soprattutto, non avesse paura di farsi odiare: ecco perché voleva proprio lei. E, pur di averla, giocava con i suoi desideri più reconditi.

(…)

La Spider Grand Prix sbarcò a Monza fendendo la ressa e il clamore di un pubblico quasi del tutto rosseggiante. Buona parte dei ragazzi della scuderia era salita in Brianza in pullman, formando una lunga carovana verso il Gran Premio d’Italia. La monoposto, la Versione C,  ridisegnata da Arthur Ringelmann come summa di tutte le evoluzioni implementate e rivisitata con una veste da basso carico aerodinamico, era al sicuro nel confortante ventre del camion da trasporto che viaggiava davanti a loro. Avrebbero trovato la terra promessa o il deserto? Il verdetto del Tempio della Velocità avrebbe indicato loro, oltre che una posizione di classifica aggiornata, l’andamento prevedibile del loro immediato futuro. (…) La pista era indecifrabile, né asciutta né bagnata, le gomme fresche, alla giusta temperatura di esercizio o forse no, c’erano diversi piloti in pista, tutti alla disperata ricerca della prestazione, il rischio di commettere errori era altissimo. Era tutto perfetto. (…) Seconda di Lesmo, Serraglio, rettilineo della sopraelevata, Variante della Roggia. Poi c’era la Ascari. Una volta avevano chiesto a Jacky Ickx cosa suggerisse di fare sulla pista di Monza per tutte le monoposto che uscivano di pista in corrispondenza di quel tratto. «Montare una tribuna più grande,» aveva risposto, «così la gente vedrà chi sa curvare davvero!»

(…)

Affidò proprio a lei, Isabella Castellani, l’incarico di tenere l’ultimo brindisi (…) stranamente non si fece pregare e, schiarendosi la voce affinché tutti la sentissero, disse: «Alle auto, ai piloti, alla velocità. Alle stelle splendenti e alle meteore sfuggenti. Agli eroi, ai sopravvissuti e agli immortali. A chi ci ha fatto battere il cuore e a chi ce lo ha spezzato. Alle gare che ci hanno esaltati e a quelle che ci hanno lasciato l’amaro in bocca. Agli avversari e ai compagni d’avventura. E a quell’attimo che tutti affrontiamo nella vita, quando ci troviamo nella mischia e non sappiamo cosa fare, ma i semafori si spengono e, prima che ce ne accorgiamo, siamo già partiti e non abbiamo altra scelta se non correre fino alla bandiera a scacchi!»

I calici furono levati in aria e coloro che erano stati uniti come fratelli nel box di una piccola scuderia di provincia dalla livrea di un inguardabile colore chiusero per sempre un capitolo della loro avventura, pronti ad aprirne uno nuovo.