Gli zoccoli delle castagne di Barbara Ferraro [ALlibri]

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a cura di Angelo Marenzana

 

illustrazioni di Sonio Maria Luce Possentini

 

Uscito nel maggio scorso per Read Red Road, oggi ospitiamo su Alibri Gli zoccoli delle castagne, una storia molto particolare destinata a un pubblico di ragazzi sopra agli undici anni. Il testo è opera di Barbara Ferraro e corredato dalle illustrazioni realizzate da Sonia Maria Luce Possentini, immagini capaci di aggiungere alla narrazione tocchi di colore vivi e pulsanti: gli sguardi, i volti, i particolari, i luoghi – nella luce imperiosa della natura – si tingono di magia.

Si tratta di un impegno a quattro mani che permette di raccontare una storia di lavoro, sacrificio, contatto con la terra, diritti umani ambientata nella Calabria rurale degli anni ‘30. Lina ha 11 anni e proviene da una famiglia poverissima di mezzadri. È la maggiore tra i tanti figli e ha il compito di badare ai più piccoli, di aiutare la mamma in casa e di lavorare, quando richiesto. Vive in una casa di pietra e terra, in cui l’odore dell’umidità è compagna costante, così come il sapore di focolare e fiamme che si deposita sul cibo. La quotidianità della bambina è segnata dai doveri e dalle responsabilità, ma anche da momenti di gioco. Con l’arrivo di ottobre, come ogni anno, gli uomini, le donne e i bambini più grandi si mettono in cammino per raggiungere i boschi e dare il via alla raccolta delle castagne. Un lavoro duro, malpagato, portato avanti in condizioni precarie per oltre un mese. Lina è affaticata e la nostalgia di casa è forte. Il giorno del ritorno la sua gioia è palpabile. Finalmente potrà indossare le scarpe della festa e tornare a essere una ragazzina.

Gli zoccoli delle castagne è una storia vera, ispirata ai racconti della nonna dell’autrice, che Barbara Ferraro dedica alle bambine e ai bambini che ancora oggi sono costretti a lavorare in tante parti del mondo. Un racconto duro che mescola il profumo della terra alle lotte di classe, l’anelito alla libertà con il desiderio di crescere e scoprirsi grandi.

Buona lettura con un brano di Gli zoccoli delle castagne, una storia per ricordarci chi siamo e da quale paese veniamo.

 

 

Capitolo 4

 

Era il decimo giorno di Ottobre, ma quando Lina si svegliò quella mattina non lo sapeva. Aveva uno strano modo di trascorrere i giorni e le stagioni. Si

accorgeva solo del caldo e del freddo; il tempo era scandito dal grano, dalle patate, dall’uva, dalle olive, dalle castagne. E quello era il tempo delle castagne.

Quando aprirono la porta furono investiti daun fiotto di aria gelida, aria di brina. La luna tremolava in raggi spenti. Si rifletteva poco sulle goccioline che ricoprivano ogni filo, ogni stelo. Poi sorse il sole. L’alba era dolce e calda. Alcuni raggi penetravano fra i tetti ma non raggiungevano i vicoli e sfioravano il lastricato.

Nel silenzio risuonavano i passi svelti e ritmati di un folto gruppo di persone, camminavano a due a due tra i muri delle case. Quella notte doveva aver piovuto perché l’aria era impregnata dell’odore della pietra, e dai tetti scendeva la pioggia rimasta tra le tegole concave di creta, che cristallizzata dal freddo

era rimasta in attesa del sole.

Quasi senza accorgersene, concentrati solo sui propri passi, si ritrovarono davanti al portone della chiesetta del Beato e tutti, insieme, come per riappacificarsi con Dio, fecero il segno della croce e chiusero gli occhi. Una bella scalinata li separava dalla piazza, fu divertente per le due ragazze che

chiudevano la fila saltare i gradini due per volta senza lasciare mai l’una il braccio dell’altra. Lina era già lì. Ingannava l’attesa misurando con i passi le pietre. Quattro pietre in un passo, cinque o sei con un salto.

Salvatore, invece, era indaffarato col mulo. L’aveva caricato il più possibile, soprattutto di cibo. Pomodori salati, patate, olio e persino della pasta confezionata. La moglie l’aveva comprata nell’unico dispaccio del paese, era confezionata in due sacchi di tela a quadri, uno rosso per la pasta minuta e uno blu per quella un po’ più lunga. Poi ceci, fagioli e pane.

Mimmo e una sua giovane cugina arrivavano dalla campagna e si erano dovuti incamminare molto tempo prima.

Avvolta nell’aria umida dell’alba, la pelle scura della ragazza appariva ambrata e morbida. I capelli castani e lunghi erano raccolti in due grosse trecce e riportati in corona sul capo. Il corpo snello ma pieno era avvolto in uno scialle marrone. Appoggiata sui fianchi una gonna arricciata, lunga e nera.

Lina nutriva una passione e una simpatia uniche per Giovanna, e quando la vide le corse incontro sorridendo e gesticolando: «Un riccio, un riccio! Venendo abbiamo visto un riccio!». Le rispose con un bacio. Si misero subito in viaggio, parlando gli uomini, chiacchierando le ragazze.

Attraversarono quasi metà del paese fino a quando le case cominciarono a farsi più rade. Quelle fitte e marroni dai tetti rossi lasciavano il posto a piccoli orti e a certe case dai portoni grandi e forti.

Qualcuno aveva le borchie di ferro, per quella strana legge sociale per cui se non si sta in mezzo alla gente bisogna temerla e difendersi.

Erano in cammino da poco più di un’ora, quando si fermarono. All’interno di una nicchia scavata nella roccia c’era la piccola statua di una Madonna di gesso vestita d’azzurro. Si fermarono lì davanti e cominciarono a pregare, in silenzio gli uomini, sussurrando le donne. Poi, con i cappelli di nuovo in testa, ricominciarono a camminare.

Mano a mano che procedevano, la strada si faceva più stretta. La terra battuta andava via via mischiandosi ai sassi, fino a quando non ci furono più né terra

né sassi. Nessun sentiero segnato, solo un continuo alternarsi di dossi e piccole discese. Camminavano da più di quattro ore quando Lina si avvicinò al padre per dirgli che aveva fame. Senza interrompere il cammino, lui prese dalla tasca la sua merenda e gliela diede. Una bocca affamata addentò le due grosse fette di pane e frittata; pochi grandi morsi e la fame era passata, la merenda finita.

Annoiata dal lungo cammino, a piccoli balzi raggiunse di nuovo il padre e il mulo che l’avevano distanziata e cominciò a tirare le penne alle galline legate sull’asino, smettendo solo quando si accorgeva istintivamente che il padre stava per guardarla.

Continuò così fino a quando non sentì la voce di Mimmo che cercava di attrarre la loro attenzione sul rifugio. Una costruzione grigia si intravedeva tra gli alberi in lontananza. Quella misera visione da cui solo un’ora di cammino li separava, riempì tutti di una tale gioia che, quasi all’unisono, incominciarono

a cantare, e cantando arrivarono ai piedi della montagna. Tutte le donne ripercorrevano in fila indiana il percorso battuto dal mulo, i loro piedi poggiavano sulle sue orme profonde e i loro respiri si alternavano alle grida di incitamento che Salvatore e Mimmo rivolgevano alla bestia.

 

Capitolo 5

 

Un intonaco grigio, irregolare. Solo una porta. Nessuna finestra. La casa era tutta qui, almeno vista da fuori. Quattro pareti fredde e un tetto fragile.

Mentre le donne posavano le ceste che avevano portato sulla testa, all’interno gli uomini cominciavano a battere con una pala il pavimento di terra e foglie. Il ferro della pala che batteva restituiva un canto che risuonava per la stanza e

si rifrangeva sulle pareti. Solo allora arrivava alle orecchie di Lina che, distolta dai suoi pensieri, incominciò a porre domande su domande. Non riusciva a spiegarsi, ad esempio, dove avrebbero messo le castagne. Il pavimento serviva per dormire e loro erano in numero sufficiente da ricoprirlo tutto. Lo chiese a Mimmo. «Le castagne sul soffitto.» Rispose lo zio indicando in alto senza interrompere il suo lavoro.

Due occhi spalancati si aggirarono per la stanza smarriti e solo quando incontrarono il soffitto si fermarono a osservare. Distinsero prima delle piccole fessure dalle quali filtrava una luce tenue, poi, mano a mano che si abituavano al buio, ne videro di più grandi. Spazi regolari si alternavano alle listelle di legno. Lassù sarebbero andate le castagne.

Uscì e fece il giro della casa. La quarta parete, quella sul retro, era interrata fino a una piccola finestra che sembrava un uscio e che non si vedeva dall’interno.

All’apice della curiosità, Lina aprì la finestra e scorse all’interno una soffitta il cui pavimento era formato dalle assi che facevano da tetto alla stanza.

Piegò un po’ la testa ed entrò piano, con cautela. Si inginocchiò e spiò attraverso una delle fessure. Le schiene del padre, dello zio e degli altri si alzavano e abbassavano; le pale battevano al suolo in concerto.

Sollevando lo sguardo Lina vide alcuni vecchi pezzi di castagne probabilmente rimasti lì dall’anno prima. Allora li raccolse e incominciò a farli cadere sugli uomini di sotto. Il primo pezzo passò inosservato, il secondo andò a vuoto, il terzo colpì il padre all’orecchio. Allo scatto improvviso della testa di Salvatore, Lina scoppiò in una risata cristallina.

Il padre allora abbandonò il suo lavoro e la pala.

Entrambi infilarono le due uniche uscite, padre e figlia. Salvatore voleva spaventarla e incominciò a inseguirla, pochi suoi balzi e l’aveva raggiunta.

Lina si fermò un po’ intimorita, poi accennò a scappare allora, con uno scatto fulmineo del braccio, Salvatore l’afferrò alla vita. La sollevò e la riportò a casa così, fingendo di essere arrabbiato. E lei appoggiata lì, fra il braccio e il fianco del padre, quasi fosse senza peso, sorrideva e si sentiva stanca e felice.

Arrivati alla soglia Lina vide che le donne stavano tornando con le braccia cariche di rami di ginestra ormai del tutto sfioriti. Si liberò dalla presa e corse

loro incontro. Prese una delle fascine di Giovanna, se la mise sulla testa e, senza smettere un momento di parlare, le riaccompagnò fino alla casupola. Le

ginestre avrebbero ricoperto il soffitto per evitare che le castagne cadessero attraverso le fessure. Per qualche ora le lasciarono sul pavimento e il loro odore di estate sfiorita si diffuse dolce per la stanza.

Chi possedeva un sacco prese di nuovo la via del bosco per cercare foglie asciutte con cui riempirlo.

Sulla strada del ritorno incrociarono Salvatore che portava il mulo carico di legna. Era ormai l’imbrunire, i corvi gracchiavano placidamente come a cullarsi a vicenda. Lina procedeva svelta, leggera, incitando le altre e non smettendo mai di fare osservazioni su quello che la circondava.

A sera si sdraiò sul suo sacco pieno di foglie secche.

Appoggiò il capo su di esso; non incontrò né il cuscino né il braccio morbido di Francesca, sua sorella più piccola. Tuttavia era troppo eccitata da tutte quelle novità per rimpiangere il grande letto che divideva con le sorelle.

Le foglie si frantumavano ad ogni suo movimento e la loro esile musica si mischiava nell’aria alle voci degli altri rimasti ancora in piedi. Lina cercò di seguire un po’ i loro discorsi, fino a quando non diventarono che suoni confusi e morbidi.

Le braccia si fecero pesanti, le mani si chiusero.

Prima di potersene accorgere stava già dormendo.