L’insostenibile leggerezza del dialetto mandrogno [Il Superstite 485]

print

ATO6: "Crisi idrica, i cittadini siano più parsimoniosi con l'acqua" CorriereAl 1di Danilo Arona

 

In senso cinematografico questo che state per leggere è il sequel del Superstite n. 410 e oggi come allora confido nel senso di humour, molto alessandrino, del lettore. Adesso, se ricordate (se no ve lo ricordo…), il tema di quella puntata era la celeberrima interiezione mandrogna Quant muntè!, intesa da chi la emette come riflessione linguistica e filosofica sulle penurie e le infelicità della vita, soprattutto a una certa età. Vi raccontai dell’Armando, grande personaggio piazzettaro degli anni ’70, che salutava i suoi amici, coetanei e non, proprio con quella frase, tipo: Ciao, Danilo, eh quant munté!. Se Danilo aveva capito l’antifona – dopo un po’ la capiva di sicuro -, doveva rispondergli: a na pòss oppure tseisi (traduzione, “sapessi”, mentre la prima sta a significare «sono stufo di farlo»).

Okay, ognuno ha i ricordi che merita, ma un dato di fatto  è, che dopo quell’articolo e la sua lentissima metabolizzazione vagamente collettiva, mi arriva una proposta da un amico scrittore, sulla cui identità quale stendo un pietoso  velo censorio nel suo preciso interesse, che suona così:

«Ma se facessimo l’inno?»

«L’inno?»

«Sì, con quella frase.»

«Quant munté?»

«Sì!»

«Con qualche variante in tema?»

«Ma anche no. Basta solo lei. Hai presente la musica di Heidi

«La sigla del cartone animato? Le caprette ti fanno ciao?»

«Sì, lei!»

Ora, a prescindere che i due protagonisti di tale surreale dialogo fanno 140 anni in due e non si capisce bene – in tanto alto momento progettuale e artistico – su quale sponda pratica si andrà a parare, val la pena di riproporre il testo originale. Che è il seguente (privo dell’inciso):

 

Heidi, Heidi

Il tuo nido è sui monti
Heidi, Heidi
Eri triste laggiù in città
Accipicchia, qui c’è un mondo fantastico
Heidi, Heidi
Candido come te

 

Altro giro, ancora più graffiante:

Heidi, Heidi
Ti sorridono i monti
Heidi, Heidi
Le caprette ti fanno ciao
Neve bianca, sembra latte di nuvola
Heidi, Heidi
Tutto appartiene a te

 

 

Rinfrescate le memorie, la domanda è d’obbligo.

«Ma come viene fuori l’inno?», io.

«Sta a sentire», lui.
E parte canticchiando, stonatissimo.

 

Tseisi, tseisi, tseisi ma quant muntè

tseisi, tseisi, tseisi ma quant muntè

 

E via così per tutte le strofe del ritornello. A questo punto, necessario e piccolo inciso di domanda: il nostro folle dialogo dove sta avvenendo?  Ci troviamo nel retro “non ufficiale” di uno dei miei bar prediletti, dove non è inconsueto incontrare rappresentanti, gli ultimi ormai, di una vecchia Alessandria, un po’ goliardica un po’ artistica e molto canterina. Se non avete capito, non importa, però è facile. La location è strategica perché qui, se qualcuno capta quel che stai cantando, non è che ci faccia tanto caso.

Proseguiamo, e io che sono un pignolo chiedo ragioni di quel “ma” posto fra “tseisi” e “quant”. E la sua risposta in effetti non fa una grinza.

«Si tratta di un “ma” di appoggio per far cadere la frase nel modo giusto. Se non ci credi, prova a toglierla e a cantare. Senti che non ‘sdrucciola’.»

«Sdrucciola?»

«Sì, ma santi numi, non sai niente di rime poetiche dialettali!»

«Ne so poco ma mi sfugge lo scopo di questa penosa pagliacciata.»

«L’inno sarà la sigla dello spettacolo. Un articolato repertorio un po’ cochon. Canzoni  come El fuladur, La fijua du sindic ‘d ji ‘Ort, Crapula Blues, Fiacc ‘me na müdonda e Tòc ad scàja. Le hai già sentite?»

«Solo un paio. Ma la proposta mi sembra un po’ forte. Ammesso e non concesso che si formi l’organico, dove si potrebbe andare a cantare queste cose?»

«Un passo alla volta. Cominciamo ad articolare il repertorio.»

Passando dal presente storico all’imperfetto, lui la faceva facile. Poi è arrivato il COVID con tutte le sue brutte conseguenze. Ovvio che abbiamo lasciato perdere. L’aria si è un po’ ammorbata. Qualche amico – e anche qualche amica – è morto. Insomma, è scappata la voglia. E non se ne fa più niente.

Adesso lui arriva. E: «Piuma ün cafè?»

Io: «Duma!»

Per strada verso il bar: «E alura?» (io)

«Tseisi quant muntè.» (lui).

Ma non è vero niente. È solo un mantra per fottere (un pochino) un mondo che ci piace sempre meno.