Lo scapigliato di Fabio Ferrante [ALlibri]

a cura di Angelo Marenzana

 

 

Il mio stare in equilibrio con un piede in Piemonte e con l’altro in Abruzzo mi ha portato ad avvicinarmi al mondo magico di miti, superstizioni e leggende tipico delle terre abruzzesi. E un pezzo di questa magia è finita sulle pagine dell’antologia Fate, Pandafeche e Mazzamurelli  pubblicata dalle edizioni Tabula Fati con la curatela di David Ferrante, sociologo e saggista, appassionato studioso e divulgatore della cultura popolare di quella stessa regione. Già noto ai lettori di ALlibri per l’antologia L’Ammidia. Storie di streghe d’Abruzzo (Tabula fati), Ferrante ha pubblicato nel 2018 San Giovanni Battista nella cultura popolare abruzzese. Tradizioni, riti e sortilegi del 24 giugno (Tabula fati) finalista per la saggistica al Premio dell’Editoria Abruzzese 2018.

“Nelle lunghe sere d’inverno intorno al focolare si ascoltava.” Sottolinea lo stesso curatore (rimarcando peraltro un fatto tipico anche della nostra cultura allineata tra le campagne, i laghi e le montagne  piemontesi dove si fanno i conti con personaggi tipici del gotico rurale, delle creature fantasmatiche che popolano le nebbie, con la cosiddetta fisica, con l’anima dei settimini ecc…) “Erano storie che provenivano dal passato, impastate di pietre di montagna e acqua gelida di fiume, trasportate dal vento. Il mago ‘Viddie, lu lope menare, lu mazzamurille, la grotta dello Scapigliato, la dea Maja e suo figlio Ermes, il fantasma della Ritorna, le fate, lu bascialische, la fossa del Currìo di Giannandrea, lu scijjone, la scurnacchiera, la pandafeche, sono alcuni dei soggetti più noti dei racconti dei nostri avi.”

La narrazione è stata strumento per tramandare un semplice sapere alle generazioni a venire e in questo libro si cerca di proseguire la tradizione di quel racconto per ricordare i miti, le leggende e la cultura di una terra. Dodici scrittori si sono seduti davanti al camino degli antenati per ascoltare ciò che hanno conservato per secoli, per poi riproporre al lettore una storia vissuta attraverso le parole da loro sussurrate e oramai lontane.

Tra i vari autori presenti si è scelto di pubblicare il racconto di Fabio Ferrante (fratello del curatore e a sua volta impegnato nel settore carcerario e sanitario oltre che autore di saggistica sulle dinamiche comunicative e appassionato scrittore di narrativa poliziesca e noir)

Lo Scapigliato

Buona lettura.

 

 

«C’ero anche io il giorno che scavarono nella grotta per trovare quel tesoro che tutti cercavano. Ero rimasto fuori per evitare che qualcuno entrasse. Anche da fuori riuscii a vedere quella lunga ombra nera e quella che doveva essere la testa, fatta di sottili ombre che si prolungavano per metri e abbracciavano rocce e radici: i capelli del fantasma. Si sentì chiaramente un boato, un lamento dall’anima della montagna o direttamente dall’inferno; poi una pioggia di piccole pietre che cadevano come tempesta dalle pareti della grotta: una terrificante e fitta pioggia che li sommerse, soffocò e seppellì. Erano i miei amici, sono il mio incubo di ogni notte.

Da quel giorno in paese i bambini ripetono quella filastrocca che è la mia condanna:

 

La luce nen c’arrive pe’ l’ombre de lu monte

Lu fredde e lu vente che manche t’arecconte

A la grotte annascoscte ci sta lu tesore

Ma quante maledette ha state chell’ore

A pijarle o arrubbarle nisciune maje c’ha arrivate

Pecchè ci sta lu fantasme, lu demonje scerrate.

 

Il sole diventava sempre più debole in quelle giornate di novembre e, anche se brillava alto in un cielo azzurro a perdita d’occhio, ormai lasciava sempre più tempo alle tenebre che giungevano poche ore dopo mezzogiorno. In questo alternarsi con la notte, riusciva però a disegnare degli scorci di quel piccolo paese né troppo vicino al fiume, né alla montagna, né alla piana del Fucino. Quei raggi che partivano da un sole ormai adagiato sulla terra correvano lungo le viuzze di Castellafiume. Un torrente che infrangeva luce scontrandosi con le abitazioni.

Lui amava il momento in cui il giorno lasciava spazio alla notte, soprattutto in quel tardo autunno che regalava ancora splendide giornate. Era l’unico momento in cui riusciva a godersi l’aria fresca e la luce, quando lasciava la canonica della Chiesa di San Nicola. In quella parrocchia aveva passato tutto il tempo della sua infanzia e ora che don Roberto gli aveva affidato l’incarico di sacrestano, la sua vita era praticamente racchiusa in quelle sacre mura.

Tenere in ordine la chiesa e la sacrestia, preparare tutto il necessario per le messe, stare in mezzo alle cose benedette lo faceva sentire immortale. Ecco, questa era la sensazione che gli arrivava più forte quando si trovava tra le immagini dei santi: l’immortalità. Poi nelle pause poteva leggere e rileggere i libri presenti in chiesa quanto voleva. Don Roberto assecondava quella sua passione con gioia e lo aiutava anche a capire i testi più difficili.

Non teneva molto al suo aspetto. Si lavava quel poco che bastava a essere presentabile e spesso era don Roberto che lo obbligava a farsi tagliare i capelli, il più delle volte lunghi e spettinati.

Ad aspettarlo a casa c’era la vecchia nonna. Era la sua famiglia. Non aveva conosciuto i genitori. In realtà Maria non era la sua vera nonna. Lo aveva trovato avvolto in una coperta quindici anni prima nelle campagne fuori dal paese. Decise di crescere quella creatura come fosse suo figlio o meglio, data la differenza di età, come un nipote.

«Ma quand’è che ti metterai a fare un vero lavoro?» lo redarguiva tutte le sere, nonna Maria. Sentiva le altre del paese i cui nipoti o i figli lavoravano i campi o avevano preso delle pecore da pascere e, seppur cercasse di sottolineare l’importanza del lavoro del nipote, in cuor suo sapeva che non ci si poteva campare. Infatti era lei a doversi prendere cura della casa, dei terreni, delle bestie. «Quando morirò io, come farai? Mettiti dietro ad Alfonso e impara a tenere le pecore, non dietro a quel prete che non ti dà una moneta. Mo’ ti sei imparato a scrivere e a leggere, va a chiedere udienza ai Colonna.»

Era la stessa litania di tutte le sere. Lui a volte si innervosiva, a volte provava a spiegare alla nonna il suo stato di pace in mezzo ai libri, altre volte ci scherzava su: «A no’, statti tranquilla che tu non muori, così puoi continuare a cucinare queste meraviglie per me.» Il ragazzo ripeteva tra sé che avrebbe pensato al da farsi al momento opportuno.

In paese veniva trattato con un benevolo scherno, ma anche con tanta compassione, considerata la sua storia. Non erano in pochi, però, a criticare la sua mancanza di responsabilità nel prendersi cura della propria famiglia. «Ormai ha quindici anni, deve lavorare. Altrimenti si facesse prete e se ne andasse a studiare dai frati, che almeno la povera Maria la smette di ammazzarsi di lavoro per lui.»

Ogni tanto partiva a fare commissioni per conto della parrocchia. La maggior parte delle volte doveva raggiungere Tagliacozzo per consegnare della corrispondenza al parroco del posto, che fungeva da centro di raccolta della zona per la successiva consegna al Vescovo di Avezzano. Spesso andava anche nei paesi vicini attraversando i monti per fare prima.

Era molto preciso nel suo lavoro, ma quella sera commise un grave errore al quale doveva porre rimedio al più presto, pena la fiducia di don Roberto e il rischio che gli revocasse il suo incarico. Stava spostando dei libri quando involontariamente aveva colpito una candela, che era caduta sulla Bibbia preferita del parroco. La più antica della piccola biblioteca, il regalo del Vescovo alla vestizione di don Roberto. La cera aveva macchiato la copertina e la fiamma ne aveva bruciato leggermente la pelle. Doveva nascondere il libro e partire subito, l’indomani.

Senza lasciare detto niente a nonna Maria, diversamente da come faceva di consueto, partì, che era ancora bui, sul sentiero per Camporotondo. Decise di passare dai monti e non dalla strada battuta. Attraversando Pianezze avrebbe raggiunto Camporotondo risparmiandosi un’ora di viaggio. Lì sarebbe andato da Bonifacio. Lui sapeva lavorare le pelli delle pecore in un modo eccelso, donando nuova vita ai resti delle bestiole trasformandole in splendida cartapecora. La notte, trascorsa insonne per quel peso sul cuore, aveva lasciato una leggera spolverata di neve, ma lui non se ne preoccupò. Non è niente, pensò, e oggi non ci sono nuvole in cielo. Mai previsione fu più sbagliata. Non aveva ancora raggiunto il passo che il cielo divenne nero e cominciò a buttare giù neve a non finire. «Devo andare avanti. Ormai sono in cima e tra poco scenderò in paese per far riparare il danno.»

Raggiunse la vetta cercando di mantenersi in piedi quando veniva colpito dalle fortissime raffiche di vento. Discese il versante opposto e finalmente poté far valutare il danno a Bonifacio. Per fortuna l’abile artigiano riuscì a far tornare praticamente nuova la copertina di quel prezioso manoscritto. Contento di quanto realizzato, il ragazzo uscì dalla bottega e si rese conto che la neve aveva ormai ricoperto tutto. Accidenti, pensò, ora sarà dura tornare a casa, ma devo comunque avviarmi. La neve può durare giorni e non saprei dove stare. Preoccupato, ma fiero di aver posto rimedio in così breve tempo al danno fatto e, convinto che don Roberto non avrebbe mai scoperto quanto successo il giorno prima, prese la via del ritorno.

La salita si rilevò più ostica del previsto. La neve era già alta e ogni passo era un’impresa, ma continuò a camminare a testa bassa. Conosceva bene quelle alture e all’occorrenza avrebbe trovato protezione in qualche riparo costruito dai pastori o in un anfratto naturale e sapeva come accendersi un fuoco.

Quel tardo pomeriggio andò secondo le più negative delle previsioni. Rallentato dalla nevicata, la notte lo sorprese sui monti e dovette trovare rifugio in una grotta sulle Pianezze.

Passò la notte all’addiaccio e al mattino fu svegliato dal sole che era tornato a fare capolino. Si alzò, riprese le sue cose, spense per bene quello che era rimasto acceso dal fuoco notturno e si avviò verso l’imbocco della grotta. Appena mise la testa fuori, sentì delle voci avvicinarsi. Si spaventò, perché in quei posti, in inverno, era quasi impossibile incontrare anima viva. Rientrò nella grotta e si spinse all’interno.

«Forza ci siamo quasi.»

«Mamma mia non ce la faccio più.»

«Dai, dai. Vedrete che ne saremo ripagati.»

Erano tre voci diverse. Ma chi poteva essersi spinto così in alto in quel periodo? Provò ad affacciarsi verso l’uscita e si rese conto che i tre venivano proprio nella sua direzione. Senza sapere bene il perché, decise di nascondersi.

«Ecco la grotta.»

Stavano proprio entrando. S’infilò al buio di un’ansa e quasi trattenne il respiro.

«I soldi devono stare qui, nascosti da qualche parte.»

Gli passarono di fianco, a pochi metri, così poté riconoscere dei suoi paesani. Erano Giulio, il figlio del fornaio, Ernesto l’oste e Giovanni, che aiutava il padre con le pecore.

«Secondo la lettera, stanno in fondo alla grotta, ma dobbiamo capire dove. Giovà, accendi un ceppo per fare luce.»

Giovanni armeggiò con la bisaccia e dopo alcuni minuti riuscì ad illuminare l’interno della grotta. Lui fece ancora dei passi indietro schiacciandosi con forza contro la parete rocciosa.

I tre continuarono a camminare e non riuscì più a vederli, ma li sentiva parlare anche se non distingueva le parole. Stava quasi pensando di darsela a gambe, quando sentì che avevano alzato il tono di voce. Sembrava ridessero e gioissero, e un istante dopo la grotta tornò a illuminarsi. Stavano uscendo. «Forza dobbiamo tornare con gli attrezzi e con l’asino, ah ah ah.» Erano gioiosi.

«C’era davvero, siamo ricchi!»

Gli ripassarono davanti e uscirono dalla grotta senza rendersi conto della sua presenza.

Aspettò che fossero lontani e si incamminò anche lui verso Castellafiume. Passò prima dalla nonna per tranquillizzarla, poi si precipitò a rimettere a posto il prezioso manoscritto di don Roberto. Continuava a chiedersi cosa avessero trovato i tre all’interno della grotta, ma non poteva chiedere niente al suo parroco, altrimenti avrebbe dovuto spiegare il motivo per cui si trovava lì.

Decise di cercare nei libri qualcosa che potesse dargli una risposta o, perlomeno, un indizio su cosa potesse esserci. Finalmente trovò il riferimento a una grotta, cosiddetta dello Scapigliato. Iniziò a leggere una storia che si riferiva a più di un secolo prima:

 

C’era la battaglia tra gli Orsini e i Colonna per il possesso del territorio di Penna in quel periodo. Le due famiglie si scontravano fisicamente, con le loro truppe, e politicamente con continui intrighi di palazzo. Tra i litiganti seppe inserirsi tale Martino da Rocca. Il tizio si spacciava con gli uni e con gli altri come un caro amico e fidato confidente del Papa, e che avrebbe potuto intercedere per l’assegnazione dei possedimenti. Per fruire della sua mediazione aveva bisogno di denari, molti denari. Ora erano per le spese, ora per pagare le guardie, ora fare un regalo a Sua Santità e così via. Con questo stratagemma riuscì a spillare alle due famiglie contendenti un vero e proprio tesoro. Il suo gioco durò fino a quando un vero emissario del Papa non raggiunse il Conte Orsini e negò qualsiasi conoscenza del menzognero. Almeno nell’impresa di mettere d’accordo le due famiglie il Martino da Rocca vi riuscì. Entrambe le fazioni concordarono nel trafiggerlo con una lancia e così avvenne. Provarono a cercare il denaro estorto, ma l’abile truffatore ne aveva fatto sparire le tracce. In effetti aveva affidato un grosso carico imballato a un certo Giustino di Castellafiume.

Questi conservò il baule nella stalla vicino ai porci, come indicatogli dal Martino, e in cambio ne guadagnò cinque soldi che per la sua famiglia era una manna dal cielo. Il povero Giustino, a distanza di qualche giorno, venne a sapere come e perché era morto quell’uomo e fu preso dal panico. Non sapeva se disfarsi del baule o se tenerlo per sé. Decise di andare nella stalla e di controllare il pericoloso fardello. Prese una vanga, ruppe il pesante lucchetto e aprì il baule così lentamente che parve passare un’eternità. Alla vista del contenuto cadde in mezzo al letame dei porci e vi restò bloccato che sembrava gli fosse preso un male per un buon quarto d’ora. Di colpo si alzò, infilò la mano nel baule e intascò una manciata di monete, chiuse il baule e tornò in casa. Quel tesoro avrebbe cambiato la sua vita, ma aveva troppa paura. Quei soldi erano stati sottratti alle famiglie dei potenti e lui li aveva tenuti nascosti. Bastava a farlo condannare a morte anche se non ne conosceva il contenuto. In un impeto di coraggio che non gli apparteneva uscì di casa e andò a chiamare il compare Manfredo e il fratello cugino Pinuccio. Raccontò loro tutto e gli chiese di aiutarlo a nascondere quei soldi, che quando si sarebbero calmate le acque se lo sarebbero diviso. Portarono il baule sui monti dove Pinuccio sapeva esserci una grotta. Lì la portarono in fondo alla cavità e la coprirono con dei rami impegnandosi a non rivelare niente a nessuno e a non prendere nulla in quel primo momento. Non avevano fatto i conti con il soldato inviato dagli Orsini per ritrovare il proprio denaro. Era un mercenario dal viso profondamente segnato dalle battaglie, vestiva di nero sempre e aveva una folta capigliatura trasandata, il migliore nella ricerca di tracce. Aveva interrogato molte persone a Tagliacozzo e aveva sentito parlare di un uomo di Castellafiume che più volte era stato visto con il truffatore. Arrivato a Castellafiume fece il giro di tutte le strade del paese per farsi vedere dai paesani, ma non parlò con nessuno. Solo alla locanda disse da chi era stato mandato. Nelle sue intenzioni c’era quella di far prendere dal panico il complice di Martino e fargli compiere qualche stupidaggine.

Le sue previsioni furono quanto mai azzeccate. I tre compari si fecero raccontare con noncuranza dal locandiere quanto sapeva di quell’uomo e decisero di andare a togliere quante più monete da quel baule e sotterrarle. Così, pensarono, seppure il soldato avesse trovato il baule non avrebbe potuto incolpare nessuno e loro non avrebbero perso completamente il tesoro. I tre abboccarono all’esca gettata dal soldato nero e a notte fonda partirono in direzione della grotta. Il soldato li seguì da lontano fino a quando sparirono in una fenditura della roccia. Si addentrò come un serpente dietro i paesani e li vide attorno al baule con i soldi. Li aspettò fuori dalla grotta e non diede loro nemmeno il tempo di proferire parola. La sciabola che li colpì fece volare in aria quelle maledette monete che erano state la causa della loro sventura. Il soldato trascinò quei morti lungo la montagna fino al sentiero dove qualche passante li avrebbe trovati. Aveva fatto il suo dovere e le tre uccisioni dovevano esser di monito a tutti perché capissero che qualsiasi affronto agli Orsini era punito con la morte. In paese nessuno capì le motivazioni di quelle condanne e il soldato non si vide più, ma in molti giurano di aver visto un uomo vestito di nero, con i capelli lunghi di guardia alla grotta. Per tutti quel posto era la Grotta dello Scapigliato e se ne guardavano bene dall’avvicinarsi.

 

Il ragazzo trasalì sia per l’idea di aver trascorso la notte nella stessa grotta, sia perché lo avvolse una strana sensazione. Gli sembrava di conoscere quei fatti, ma era la prima volta che ne leggeva il racconto e non riusciva a spiegarselo. Aveva una specie di sofferenza nell’animo che non riusciva a mettere a fuoco e non ne capiva la ragione. La sera provò a mettersi a letto per riposare, sperando che gli passasse quel senso di oppressione, ma fu del tutto inutile. Si alzò dal suo giaciglio e si diresse verso la porta.

«Dove vai?» chiese nonna Maria. «Non dormi?»

«Non riesco a prendere sonno. Vado a fare due passi.»

La mattina si alzò che si sentiva molto meglio. Fece colazione e uscì per andare in chiesa. Arrivato alla piazza di fronte San Nicola vide che quasi tutto il paese si era riunito lì.

«Cosa è successo?» chiese avvicinandosi a un compaesano.

«Sono stati ritrovati morti ammazzati tre ragazzi,» e si passò le mani tra i capelli.

«Chi sono?» chiese il sacrestano sbarrando gli occhi per la sorpresa.

«Giovanni, Ernesto e Giulio. Gli hanno dato una coltellata e gli hanno tagliato tutt’e due le mani. Ma chi può essere stato? Perché quei poveri ragazzi?» e si coprì il volto per nascondere la commozione.

Lui era diventato bianco come il latte delle vacche. Le gambe gli si piegavano e non riusciva più a camminare. “Com’era possibile? Proprio loro? Cosa c’entrava la grotta?”

Raccolse le forze e si convinse che in quel momento doveva fare il suo lavoro. Doveva assistere don Roberto. Entrò in chiesa, ma il prete non c’era. Immaginò che stesse dando conforto alle famiglie e si avviò verso la casa di uno dei tre sventurati.

Passò prima dal fornaio, salutò la famiglia e fece il segno della croce al morto. Don Roberto era già stato da loro ed era andato dalle altre famiglie. Lo trovò a casa di Giovanni, il pastore. Prese posizione di fianco a lui e iniziò a pregare con lui e i famigliari di Giovanni. L’occhio gli cadde sul cuscino del povero ragazzo defunto. Da sotto usciva l’angolo di una cartapecora e si intravedevano le ultime lettere di un manoscritto: uccio.

Senza pensarci tirò fuori quella lettera e iniziò a leggerla:

Chiunque ritrovi questa lettera potrà diventare padrone di una grande ricchezza. Dentro la grotta sui monti di Pianezze, io, Giustino e Manfredo abbiamo nascosto un grosso baule pieno di monete. Se hai trovato questo messaggio vuol dire che non ci sono più e che il tesoro è ancora lì. Fanne buon uso. 25 agosto 1442. Pinuccio.

L’aveva scritta uno dei tre compari della storia letta sul libro. Questo confermava che non era una leggenda.

Don Roberto alzò la testa quando non sentì più il ragazzo pregare. Vide che stava leggendo e che era rimasto terrorizzato da qualcosa.

«Che c’è? Cosa stai leggendo?»

Il ragazzo non rispose, ma passò la lettera nelle mani del prete che lesse lo scritto ad alta voce. I famigliari iniziarono a urlare: «Oddio, è stato lo Scapigliato! Lui li ha uccisi tutt’e tre.» E ancora: «Il fantasma li ha ammazzati per difendere il tesoro della grotta.»

A quelle parole il giovane sacrestano rimase bloccato con gli occhi sbarrati come in preda a un’estasi. In effetti nei suoi occhi passarono numerose immagini. Si vide dietro l’angolo di una casa a osservare tre uomini, si vide brandire una sciabola contro quelle stesse persone e lo scintillio delle monete che volavano in aria, si vide accoltellare nel sonno quei tre giovani e tagliare loro le mani. Si passò una mano tra i capelli scombinandoli, se possibile, più del solito. Guadagnò l’uscita da quella casa dove erano tutti in preda al panico e si lasciò alle spalle urla e pianti.

Passò in chiesa e si mise a pregare. Quelle immagini continuavano a passargli davanti agli occhi. Stranamente la preghiera non gli dava il conforto sperato. Scese in canonica, si sedette sulla sua sedia con lo sguardo fisso nel vuoto. Cos’erano quelle immagini? Sembravano episodi già vissuti, ma lui non aveva mai fatto quelle cose. Soprattutto quei tre uomini, lui non li aveva mai visti e non aveva mai brandito una sciabola in vita sua. Tornò a casa e si buttò sul letto. Voleva dormire e cancellare ciò che gli passava nella testa, ma passò tutto la notte a fissare il soffitto. Appena il sole iniziò a fare capolino dai monti decise di alzarsi e uscire di casa. Doveva tornare alla grotta e cercare qualcosa che lo aiutasse a capire.

Quando vi giunse nei pressi, il cuore gli batteva come non mai e non per la fatica. Si fermò davanti all’apertura nella roccia montana. Di nuovo quelle visioni: proprio in quel punto una sciabola colpiva un uomo e delle monete volavano in aria. Si scosse ed entrò. Accese la torcia che si era portato da casa. Sentì risuonare le risa dei ragazzi che dicevano di aver trovato un tesoro e subito gli apparve la sua mano che tagliava un polso. Si strinse la testa tra le mani quasi a voler scacciare quella scena.

«Ma perché?» continuava a chiedersi. Continuò a camminare verso le profondità della roccia. Raggiunse la fine della grotta. Illuminò ogni angolo, non c’era niente. Pensò che forse i ragazzi ne avessero parlato con qualcuno e che fossero riusciti a portar via il tesoro. Quell’idea gli provocò un dolore quasi come un pugno nello stomaco.

Sconfortato, decise di tornare indietro. Si voltò e il fascio di luce per un attimo illuminò qualcosa che attirò la sua attenzione. Si avvicinò e si accorse che la roccia era intagliata: era lo stemma di una casata. Tastò la roccia. Passò la mano in quella che sembrava una crepa. Era una feritoia non visibile a occhio nudo, che gli permise di infilarsi per accedere a un piccolo ambiente. Alzò la torcia e vide quello che probabilmente avevano trovato i suoi compaesani: un vecchio baule. Provò ad aprirlo, ma fu colto da un malore che lo fece cadere all’indietro. Fece di nuovo un tentativo, ma il risultato fu lo stesso.

La terza volta piantò bene i piedi a terra e sollevò di forza il coperchio. Non riuscì a vedere cosa c’era dentro, perché i suoi occhi si offuscarono. Le pupille si dilatarono e la sua mente ricostruì eventi accaduti un secolo prima. Castelli, cavalli e ancora quella sciabola, ancora quegli uomini seguiti nel buio, di nuovo le monete in aria e quelle mani mozzate.

Questi ricordi stavano cancellando quelli della sua vita a Castellafiume, ricordi non suoi. Di colpo gli fu tutto più chiaro. Capì e sentì forte dentro di sé qual era il suo dovere. Chiuse il baule. Spense la torcia.

Lo Scapigliato era tornato a difendere il tesoro. Quelle monete erano maledette e il fantasma nero con i capelli lunghi e scomposti aveva ancora una volta portato a termine il suo malefico compito.

Nessuno seppe più nulla di quello strano sacrestano sparito improvvisamente, come era venuto.

In paese non si parlò più di quei fatti, ma i bambini continuarono a giocare sereni cantando sempre lo stesso ritornello:

 

La luce nen c’arrive pe’ l’ombre de lu monte

Lu fredde e lu vente che manche t’arecconte

A la grotte annascoscte ci sta lu tesore

Ma quante maledette ha state chell’ore

A pijarle o arrubbarle nisciune maje c’ha arrivate

Pecchè ci sta lu fantasme, lu demonje scerrate.

Qualche mese dopo una donna di Castellafiume trovò nelle campagne del paese un neonato avvolto in una coperta.

Decise di allevare quella creatura.