Apocalissi fiorentine di Carlo Menzinger di Preussenthal [ALlibri]

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a cura di Angelo Marenzana

 

Oggi, per gli appassionati del genere, si fa un salto nella dimensione letteraria della narrativa di fantascienza. Ospite di ALlibri è Carlo Menzinger di Preussenthal autore dell’antologia di racconti Apocalissi fiorentine edita lo scorso anno da Tabula Fati. In questo volume, Carlo Menzinger (romano d’origine e fiorentino d’adozione) raccoglie 24 racconti distopici di fantascienza, climate fiction, ucronia e surreali, ambientati a Firenze. Con una scrittura sciolta e capace di catturare l’attenzione del lettore, Menzinger riesce a modellarci immagini capaci di parlarci di fragilità urbane e ambientali. La tesi è inequivocabile: il nostro pianeta è sempre più a rischio. E causa di tutto sono le tensioni demografiche e sociali, un clima fuori controllo, la perdita della biodiversità, tecnologie dagli effetti imprevedibili, deforestazione, inquinamento dell’aria e dell’acqua, lavori alienanti minano il nostro mondo. L’esistenza di una singola città è ancora più fragile. Spesso con ironia, a volte in modo surreale, l’autore narra come Firenze, nel passato, abbia rischiato di scomparire e come, in futuro, potrebbe trovarsi a cessare di esistere.

Firenze, così legata al suo passato saprà prepararsi al futuro? Basta poco per mutare il corso della storia, basta poco per distruggere ciò che è stato creato. Spetta a tutti noi evitare l’apocalisse.

Carlo Menzinger è un autore con al suo attivo numerose pubblicazioni, sia di opere in “solitaria”, sia di collaborazioni con altri. Il genere che ha frequentato maggiormente è l’ucronia (storia alternativa), dal suo primo romanzo “Il Colombo divergente”, che racconta un esito infausto della spedizione di Cristoforo Colombo, sino alla recente saga di “Via da Sparta”, che mostra un mondo moderno ma mutato per una divergenza storica ai tempi della guerra tra Sparta e Tebe. Menzinger è anche autore di fantascienza, thriller, gotico e ama affrontare ogni aspetto del fantastico.

 Buona lettura con L’Angelo del fango, racconto tratto da  “Apocalissi Fiorentine”

 

Veglia su Firenze una creatura alata. Qualcuno potrebbe definirla un angelo, anche se in greco ἄγγελος significa “messaggero”, mentre essa non reca con sé alcun messaggio e nulla ha da dire o comunicare alla stirpe scimmiesca di Adamo. Per i cristiani gli angeli sono vicini a Dio, ma quell’essere nulla sa di Dio e ben poco si preoccupa di esistenze sovrannaturali. Anche definirla “alata” è un’imprecisione, sia per la sua natura incorporea, sia per la conformazione di quegli strani organi mediante i quali riesce a librarsi in volo, spostandosi da un luogo all’altro con una velocità così impressionante da pensare sia ubiquitaria. Se fosse fatta di atomi, forse potremmo immaginarla di aspetto antropomorfo e con immense ali, ma la sua sostanza è qualcosa che riguarda la vibrazione delle particelle subatomiche e ciò la rende invisibile ai nostri occhi. Per parlarne abbiamo bisogno di un nome, in modo da non dover ricorrere continuamente a complesse perifrasi. Chiameremo, dunque, questo essere Angelo, sia come nome comune, sia come nome proprio, ma non ci meraviglieremo di certo se egli non risponderà al nostro richiamo, sia perché questo nome gli è alieno per le ragioni su esposte, sia perché, pur potendoci udire, Angelo sente e ascolta contemporaneamente infinite voci, ed è poco probabile che dia seguito proprio alla nostra tra tante.

Firenze, come il resto d’Italia, si appresta a festeggiare l’anniversario della vittoria nella Prima Guerra Mondiale, sempre che si voglia davvero credere che quella sia stata una vittoria o che, più in generale, qualcuno possa mai uscire vittorioso da un qualsivoglia conflitto bellico. Per la precisione, con la Festa delle Forze Armate e dell’Unità nazionale si celebra la firma a Villa Giusti dell’armistizio tra Italia e Austria nel 1918, che segnò la fine della Grande Guerra, la prima a devastare il XX secolo. Persino D’Annunzio la definì una “vittoria mutilata”, dato che l’Italia ottenne assai meno di quanto promesso prima della firma di Diaz.

È il 3 novembre del 1966, giorno dedicato a Santa Silvia, e l’indomani sarebbe la ricorrenza suddetta, nonché San Carlo. Nell’immaginario cattolico, angeli e santi sono di norma accomunati, ma Angelo nulla sa di questi Santa Silvia e San Carlo, e men che mai di santi o di religione, dato che per lui gli esseri umani sono tutti uguali e fa persino una certa fatica a distinguerli dalle altre scimmie in generale, per non dire dai primati in particolare. I santi per lui sono solo umani ormai morti. Ha, però, imparato che negli ultimi millenni questi bipedi hanno cominciato a costruire oggetti sempre più evoluti, mentre i loro cugini quadrumani si vanno via via estinguendo, soprattutto a causa di questi più feroci vicini. Questo dispiace ad Angelo, perché crede che scimpanzé, oranghi, gorilla o bonobo abbiano la medesima dignità di quelle scimmie rivestite che ora vede affaccendarsi sotto di sé.

 

È dagli ultimi giorni di ottobre che sulla Toscana piove a tutto spiano. Solo per Ognissanti c’erano state delle schiarite, quasi a voler concedere qualcosa alla festività. La pioggia imperversa non solo sulla regione, ma su tutta la penisola.

L’Arno è in piena e le sue acque si rivoltano impazienti nel letto del fiume. Sul Casentino e sul Mugello sta nevicando. I fiumi minori della città s’ingrossano, quasi a minacciare la supremazia dell’Arno.

Angelo non siede certo su una di queste nubi temporalesche, scure e dense da sembrare quasi impenetrabili. Quelle sono immagini da iconografia religiosa infantile. Angelo, come si è detto, è un essere ultraterreno che vive negli spazi subatomici, si muove attraverso l’infinitamente piccolo e non ha bisogno di appoggiarsi o di sedere su nulla. La sua essenza è vibrazione e oscillazione. Non è né materia né energia, ma semplice moto subatomico. Le vite umane dovrebbero essergli del tutto indifferenti, eppure le osserva da talmente tanti millenni che ha quasi imparato ad amarle, se potessimo definire così la fibrillazione dei suoi tachioni.

Comprende, con la sua capacità di trascendere il tempo, che in quell’attimo della storia umana, per lui quasi impercettibile nell’infinito flusso delle ere, i fiorentini si apprestano ad affrontare una delle più gravi catastrofi della loro esistenza. L’uomo è fatto soprattutto di acqua e senza non può vivere, ma è proprio quell’elemento a minacciare ora le esistenze dei toscani. Angelo sa bene che la distinzione tra animali, piante ed esseri inanimati è solo un artifizio della mente umana. Egli stesso non ha nulla delle caratteristiche degli esseri viventi, eppure si considera più vivo di qualsiasi uomo, cane, fungo, mosca, rosa, aquila, pino, serpente o virus. Non somiglia agli esseri animati, ma ha già potuto partecipare a milioni di rivoluzioni della Terra attorno al Sole. Sa che l’acqua è viva. La vita dell’acqua, come la sua, è fatta di movimento. L’acqua muta facilmente di stato, ora è liquida, ora solida o gassosa. L’acqua muta di forma. Così facendo si anima, si muove, si sposta, talora con violenza e irruenza. Quello che sta accadendo in quelle ore ne è la prova. L’acqua si addensa minacciosa in nubi oscure, scende inarrestabile dal cielo, scorre feroce nei letti dei fiumi. L’acqua, quest’acqua, può uccidere e devastare. L’acqua uccide e devasta.

Angelo osserva la notte calare sul terzo giorno di novembre assieme a una quantità di quel composto di idrogeno e ossigeno quale non si era vista da tempo. Duecento litri per ogni metro quadro della città che fu dei Medici. La temperatura s’innalza all’improvviso di cinque gradi, facendo sciogliere le nevi, che vanno a riversarsi nell’Arno già ingrossato. I torrenti a monte della città cominciano a tracimare.

A Firenze si ultimano i preparativi per la grande festa del giorno dopo. I tricolori e i gigli fiorentini appesi ovunque stentano a sventolare, tanto sono impregnati.

Il sindaco Piero Bargellini, promotore del programma “Firenze pulita”, osservando la pioggia, scherza. «Firenze pulita va bene, ma con tutta quest’acqua mi pare che si esageri.»

Nonostante la minaccia incombente, i fiorentini continuano la loro vita. In molti si accalcano al Teatro Verdi per vedere la proiezione della “Bibbia” di John Huston, e non vedono alcun presagio nelle immagini del diluvio universale che scorrono sullo schermo.

Angelo, il cui sguardo abbraccia presente, passato e futuro, osserva con una certa pena tanta indifferenza. Potrebbe fare qualcosa? Lanciare un grido di avvertimento? Se davvero fosse un angelo, magari lo farebbe, ma gli esseri tachionici come lui non si immischiano con le vicende umane. Di solito non ci fanno neanche caso. Neppure lui, di solito. Quello che lo colpisce non sono tanto gli uomini, quanto tutta quell’acqua. Angelo non è fatto di materia, ma sa notare quando questa ha moti inconsueti. Che cosa ha da fare, del resto, se non osservare in eterno? Quell’acqua non può sfuggire alla sua attenzione distratta. Tanta attività non può essere spontanea. C’è una volontà, pensa Angelo, dietro a quei moti liquidi.

Sono le dieci di sera. Nel Mugello, nel Casentino e nel Valdarno superiore fiumi e torrenti stanno rompendo gli argini. Alle undici anche l’Arno, sgomitando in un letto ormai troppo stretto, comincia a insinuarsi in cantine e seminterrati. Le campagne attorno a Firenze si allagano. La gente cerca rifugio nei piani alti e si arrampica persino sui tetti. Neppure da lì può vedere Angelo che osserva, muto. Il torrente Resco inonda baldanzoso Reggello.

Scocca la mezzanotte, ma l’Arno non è una principessa che fugge dal ballo e torna indietro correndo: la sua corsa verso il mare procede inarrestabile e invade con un moto liberatorio Montevarchi, Figline, Incisa, Rignano, Pontassieve, Le Sieci e Compiobbi.

Inizia il giorno di San Carlo. Inizia la festa delle Forze Armate. Inizia la festa dell’Arno in libertà. Come un animale a lungo tenuto in cattività che sia appena stato liberato e assapori l’aria fresca nelle narici, l’erba sotto le zampe, l’odore della terra, così l’Arno, sfuggito ai propri argini, si scatena in una danza folle, allargandosi e spostandosi ovunque possa, con una gioia selvaggia e violenta, cercando di raggiungere e toccare ogni cosa.

Dimenando entusiasta l’immensa coda, provoca smottamenti e frane. Allaga anche Ponte a Poppi. La gente, nuova specie di uccelli spaesati, si appollaia sui tetti.

I collegamenti sono interrotti: l’Autostrada del Sole, la ferrovia per Arezzo, la Tosco-Romagnola, le vie tra Firenze ed Empoli.

La gente in città comincia a guardare con preoccupazione l’amato fiume cittadino salire arrogante oltre i limiti. Sul Lungarno c’è anche il sindaco, che si sporge nervoso dal parapetto con una piccola corte di Polizia e Genio Civile attorno. La voglia di scherzare gli è ormai passata. Nessun allarme è lanciato, per non creare il panico. Si confida ancora che nulla di più possa accadere.

Angelo comincia ad agitarsi. Vola inquieto sulle acque tumultuose del fiume, si solleva verso le nubi scure, le attraversa, vola al di sopra, sotto un cielo stellato che da lassù pare tranquillo e indifferente. Si tuffa nei nembi e torna in picchiata a sfiorare i tetti rossi della città. La pioggia attraversa la sua forma incorporea. Angelo striscia nel fango, senza esserne sporcato. Si risolleva verso le stelle. Si ferma. Osserva. Scruta.

L’Arno, dopo essersi impregnato dei miasmi cittadini, risale purulento attraverso le fogne in cui ha appena grufolato, straripando a Piazza Mentana. Alle due di notte il Mugnone conquista il Parco delle Cascine, danzando sfrenato lungo i suoi viali, tra gli alberi, accanto al letto del fratello maggiore, l’Arno, quasi sfidandolo a fare altrettanto. Allaga l’ippodromo tra i nitriti folli dei cavalli sconvolti. Con un’ondata letale ne consegna settanta alla morte, che li accoglie con le braccia scheletriche spalancate e un ghigno soddisfatto. Per sovrappiù vi aggiunge come esotico contorno persino il celebre dromedario Canapone, del vicino zoo.

Nel frattempo l’Arno, geloso, non vuole farsi rubare la scena dal fiumiciattolo e straripa, pavoneggiandosi, a Nave a Rovezzano, Varlungo e San Salvi, e inonda persino la centrale via de’ Benci, quasi a dimostrare al Mugnone chi tra loro due sia il vero fiume e il padrone di Firenze.

Alle quattro di notte, da Lungarno Cellini, il figlio del Monte Falterona si riversa in via dei Renai e allaga strafottente l’Oltrarno fiorentino fino alle porte di Scandicci.

Anche il Bisenzio decide di unirsi ai suoi fratelli, allagando San Piero a Ponti. La gente, sottovalutandone l’irruenza, s’illude di potersi salvare ancora con la chiusa delle cateratte.

Al Bisenzio si uniscono i torrenti Vingone, Rimaggio e Guardiana. Per fiumi e torrenti è vera festa. Celebrano l’inattesa libertà, si uniscono e abbracciano tra loro, allagando e sommergendo ogni cosa e rivaleggiando in spavalderia. L’acqua ormai viene da tutte le parti: dal cielo come pioggia, dalle fogne come fetido rigurgito e da ogni direzione come fiumi e torrenti fangosi in piena. Acqua. Acqua ovunque e le tenebre della notte ancora fonda aiutano ad alimentare la confusione di quell’orgia idrica.

É allora che Angelo scorge nelle acque tumultuose delle figure che non sono umane e che, come lui, sono invisibili allo sguardo dell’uomo, sebbene abbiano le sembianze femminili di ragazze. Sono le potameidi, le ninfe naiadi dei fiumi, le antiche figlie di Nereo e Doride. Le vede nuotare con i morbidi seni e le curve flessuose coperte solo dal velo dell’acqua, e loro vedono lui, sebbene egli non abbia forma precisa e sia piuttosto un’essenza volatile. Le potameidi, creature gentili e aggraziate, lo salutano con le mani giovanili e il sorriso sincero. Angelo risponde titubante al saluto, che in quel momento drammatico gli appare fuori luogo. Queste creature antiche sono quattro e si divertono a nuotare come pesci tra le acque dell’Arno. Gli fanno cenno di unirsi al loro gioco, ma Angelo rifiuta con aria grave, e con parole che non sono parole dice loro di guardarsi attorno e di osservare la devastazione che il loro festino sta creando. Le eternamente giovani naiadi ridono gioiose a quel rimprovero e continuano a nuotare e saltare tra le onde furenti, sospingendole a montare ancora.

Le naiadi non sono le sole creature sovrannaturali ad aver invaso Firenze. Quel cataclisma ha attratto anche gli dei Aplu e Nethuns. Il primo, che ai tempi degli etruschi era Dio del Tuono e del Fulmine, scaglia le sue armi dal più nero dei nembi che scuriscono quella notte senza stelle. Nethuns, barbuto e dalla folta chioma, si bagna ebbro nelle acque fangose di cui è stato Dio prima dell’avvento degli Dei di Roma. Lo guarda risentito il figlio del greco Poseidone, il Dio del Fiume, Tritone, come se si sentisse defraudato della scena e del regno.

È da lungo tempo che Angelo non vede tanti presunti Dei tutti assieme. La loro presenza lo disturba. La sua non-voce tuona loro di andarsene e di lasciare quella città. Nethuns lo fissa ridendo sguaiato. Aplu risponde con il rombo di due tuoni in successione. Tritone soffia beffardo nel suo corno di conchiglia. Le ninfe continuano indifferenti i loro giochi, spruzzandosi a vicenda con risa argentine.

Alle cinque l’Arno straripa godurioso nei Lungarni degli Acciaoli e delle Grazie. Ovunque in città il fiume è arrivato alle spallette. Gli orefici fuggono disordinatamente da Ponte Vecchio con i loro ori stipati in borse di fortuna. Il Bisenzio invade San Mauro a Signa e Campi Bisenzio. Una naiade, sorridente e vestita solo dei suoi lunghi capelli, fa surf sulle sue acque a cavallo di un tronco.

Poco prima delle sette, l’Arno mette a segno il suo colpo più micidiale: assale la Biblioteca Nazionale Centrale e il suo inestimabile patrimonio letterario, e dilaga in Santa Croce.

Alle otto e mezza anche l’Ombrone Pistoiese rompe gli argini, correndo ad abbracciare le acque ribelli del Bisenzio. Anche Prato finisce sott’acqua. Aplu e Nethuns brindano con calici colmi di fango e Aplu scaglia saette in ogni direzione. Angelo li guarda in modo che si potrebbe definire accigliato se solo avesse delle ciglia sugli occhi e se solo avesse un volto.

«Siete piccoli Dei di poco valore!» li sgrida con la sua non-voce. «Come potete divertirvi in questo modo? Lasciate in pace queste città e questi paesi.»

Aplu e Nethuns alzano all’unisono i loro calici fangosi verso di lui con aria di scherno. Angelo si allontana sdegnato. Tritone in disparte sguazza per conto suo nel Bisenzio.

Solo mezz’ora dopo, il fango invade la piazza del Duomo e si spande attorno alla cupola del Brunelleschi e al campanile di Giotto.

Le fogne di via Pisana esplodono, riversando acqua fetida per le strade, trasformate in fiumi senza nome. Alle nove e trenta l’acqua in gran parte di Firenze è arrivata al primo piano delle case. Piero Bargellini è assediato in Palazzo Vecchio. Affacciandosi dalla finestra, il sindaco di Firenze non può vedere l’incorporeo Tritone che gli fa le boccacce. Peretola, Brozzi e l’Osmannoro sono ormai territorio delle graziose naiadi, che si sono moltiplicate e ora sciamano con gioia sfrenata a decine, saltando nell’acqua come delfini, nuotando sul dorso, surfando su qualunque oggetto galleggiante, tuffandosi dalle finestre delle case, schizzandosi l’una con l’altra in un’allegria innaturale fra tanta distruzione. Dalle chiese le campane rintoccano a martello per dare l’allarme a chi ancora non si sia reso conto della gravità della situazione.

Per la prima volta nella sua esistenza plurimillenaria, Angelo si sente coinvolto da una tragedia umana, ma nulla può contro la follia irridente di quegli Dei pagani che esercitano la loro vendetta su una popolazione che li ha ormai da tempo dimenticati.

I carcerati delle Murate, tratti in salvo prima che le acque li facciano affogare, sono accolti dalla popolazione del vicinato. A San Donnino persino le mucche sono messe al riparo al secondo piano della Casa del Popolo, che ora risuona di muggiti che cercano di emergere nel mugghiare dei fiumi.

Alle otto di sera l’Arno in alcune zone ha quasi raggiunto i sei metri di altezza, ma comincia finalmente a ritirarsi. Aplu e Nethuns sembrano essere riusciti a ubriacarsi con quei loro continui brindisi di fango e, accasciati su un tetto, non spingono più le acque per le vie. Anche le sempre adolescenziali potameidi sembrano ormai stanche dei loro giochi e molte di loro si lasciano cullare dai fiumi improvvisati tra i palazzi, riposando sul dorso o nuotando pigramente.

Le acque rigonfie dell’Elsa hanno ancora abbastanza forza e pressione per sfondare gli argini a Empoli, mentre l’Arno colpisce Santa Maria a Monte, Santa Croce sull’Arno e Pontedera. L’Ombrone sommerge Grosseto, ma il peggio sembra ormai passato e il festino fluviale volge al termine, con gli ospiti indesiderati che si avviano a ritornare ai loro letti. Sono le ultime ondate, Angelo lo sa, e presto anche quelle creature sovrumane scompariranno negli abissi di dimenticanza da cui erano riemerse e Angelo rimarrà solo a fissare gli umani che cercano di risollevarsi da quella catastrofe.

Da tutta Italia e persino dall’estero cominciano ad accorrere soccorritori, subito impegnati a cercare di recuperare opere d’arte, libri antichi, manufatti ed edifici, ripulendoli dal fango.

Il giornalista Giovanni Grazzini li definisce “angeli del fango” e il nome si afferma, ma angeli non sono, come un angelo non è neppure lui, come Dei non sono Tritone, Aplu e Nethuns o le innumerevoli naiadi accorse da spazi tachionici inconoscibili alla mente umana. Tutti loro sono esseri che vivono negli interstizi della materia, oltre le leggi note della natura, presunti Dei che hanno la forza e la capacità di smuovere gli elementi e che nei secoli si sono serviti di questi poteri per asservire l’umanità ignorante. Angelo è diverso da loro in questo. Riesce, però, talora a insinuarsi nelle menti degli uomini, a sussurrare loro idee e propositi. Tutto quello che può fare ora è sospingere le volontà degli “angeli del fango”, esortarli ad andare avanti nella loro opera di recupero e ricostruzione.

Per la prima volta usa quella sua voce sulla gente. Per la prima volta prende parte alle vicende di quella città su cui aleggia da secoli. Per la prima volta è un poco un angelo anche lui, se non un serafino o un cherubino, quantomeno un angelo del fango.