Crociera pericolosa di Diego Zandel [ALlibri]

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A cura di Angelo Marenzana

 

 

Gli amici lettori di ALlibri hanno già avuto il piacere di conoscere biografia  penna di Diego Zandel quando è stato recentemente ospite della rubrica per presentare il suo Apologia della lettura con le sue Riflessioni di un bibliofilo incallito pubblicato dalle edizioni Historica. Oggi l’autore ritorna nella sua veste forse più abituale, quella di autore di narrativa gialla con il romanzo Crociera pericolosa, testo pubblicato dalla casa editrice Oltre, editore presso il quale lo stesso Zandel cura la collana Gialli Oltre.

In Crociera pericolosa l’autore, lui di origine istriana, riprende il tema più congeniale della propria narrativa ovvero quello dei profughi ex Jugoslavia. Così ci racconta di Anika, una finta bionda che a Rodolfo Hagendofer, detto Hag, commissario di bordo della nave da crociera Esperia aveva dichiarato di essere bosniaca. Ma in realtà era serba e si era infiltrata tra i profughi della Bosnia-Erzegovina e dalmati raccoli dall’Esperia da tre malandate scialuppe. Anika è decisa a contrastare l’azione di Slavko Zobundzije, contrario all’idea della grande Serbia. Il suo scopo è di sequestrare il nipotino di Slavko, che lei ritiene a bordo, insieme ai profughi. Ma sull’Esperia, ci sono tanti altri ospiti indesiderati e imprevisti: due mercanti d’armi, un investigatore privato e due terroristi arabi che sequestrano la nave e minacciano di farla saltare. Insomma, una crociera non proprio tranquilla, ma ad alto rischio. E una storia dai contorni drammaticamente attuali.

Buona lettura con un estratto di Crociera pericolosa.

 

1

Si chiamava Anica ed era una finta bionda. A Rodolf Hagendorfer, detto Hag, commissario di bordo della nave da crociera Esperia, aveva dichiarato di essere bosniaca. In realtà era serba. Si era infiltrata tra i profughi della Bosnia– Erzegovina e dalmati che quella calda notte di giugno l’Esperia aveva raccolto da tre malandate scialuppe. Da bordo, l’ufficiale e i marinai di guardia avevano udito le loro lancinanti grida a mare. “Upomoc! Upomoc!”, che, in serbocroato, vuol dire aiuto.

Il comandante Lorenzo Fabiani, subito avvertito, aveva dato l’ordine di fermare i motori. Le scialuppe, invisibili nella notte scura, erano state puntate dai potenti fari della nave. Era apparsa un’umanità brulicante, un groviglio di bambini, donne e anziani malvestiti, dai volti imploranti. Fabiani aveva dato l’ordine di farli salire a bordo, anche se sapeva che avrebbe avuto problemi con l’armatore.

Tanto più che avrebbe dovuto probabilmente mutare rotta, dirigendo la nave su qualche porto italiano, invece di Corfù. Ma stavano aspettando, per questo, disposizioni da parte delle autorità italiane, avvertite via radio.

“Ci dobbiamo consultare con i greci” avevano detto gli italiani.

“Fate presto” aveva risposto Fabiani “e fate in modo di convincerli ad accogliere gli slavi. Un loro rifiuto comporterebbe un grosso danno economico per la nostra compagnia di navigazione, lo capite?”

L’Esperia era una nave da crociera di lusso, i suoi passeggeri erano gente ricca e potente che avrebbe poco gradito quel carico di disperati e l’eventuale cambiamento di programma. Ma Fabiani non se l’era sentita di abbandonare delle creature innocenti, vittime di un’assurda guerra, a un destino imprevedibile.

Ora, la maggior parte dei profughi erano stati sistemati sul castello di prua con delle coperte, ed erano stati rifocillati. Hag aveva atteso la mattina per dare inizio alla conta e alla registrazione dei nomi. In tutto erano 47 persone, tra le quali ben 22 bambini di età che andava dagli 8 ai 15 anni, e solo una decina di essi erano accompagnati dalla madre o da un parente. Oltre la metà risultavano soli, orfani, oppure messi su quelle tre scialuppe dai genitori che volevano salvarli dall’inferno dei bombardamenti, dalla fame e dalla paura.

Subito dopo la registrazione e il ritiro dei documenti, che non tutti avevano, Hag era stato raggiunto nel suo ufficio da Anica. Il commissario di bordo non aveva potuto esimersi dal gettarle uno sguardo, per quanto distratto. La donna indossava un paio di jeans neri aderenti che mettevano in risalto le gambe lunghe e le natiche piene, mentre una polo  stinta, che una volta doveva essere stata rossa, tratteneva i seni ampi e sodi.

  • Što hoćeš? – le chiese Hag in croato.
  • Parli la mia lingua. Come mai?
  • Sei venuta per chiedermi questo?

Anica sorrise. Aveva una bocca grande, dalle labbra pronunciate, e la dentatura forte.

  • No, sono venuta per via di quei bambini lì fuori… Mi pare che ci dovrebbe essere il nipote di Slavko Zobundzija…
  • L’uomo politico?
  • Sì.
  • No, non c’è nessuno Zobundzija.
  • Ma non è questo il nome del bambino. Si tratta del figlio della figlia di Zobundzija, perciò porta il nome del padre… Si dovrebbe chiamare Mihailovič… Slavko Mihailovič…
  • Slavko, in onore del nonno, per una vecchia tradizione – disse Hag, mentre abbassava lo sguardo sull’elenco dei nomi in suo possesso.
  • Perché ti interessa?
  • Be’, per poi avvertire il nonno, farlo star tranquillo – disse Anica, suscitando l’approvazione di Hag.

Ma le intenzioni della donna, in realtà, erano diverse. Doveva rapire e minacciare di morte il bambino, per conto delle milizie nazionaliste serbe del comandante Arkan. L’organizzazione voleva, in questo modo, ricattare il politico montenegrino Slavko Zobundzija, farlo desistere dall’impegno che si era assunto di guidare una nuova stagione politica della Jugoslavia dando vita a un originale tipo di federazione democratica e liberale che tenesse conto degli avvenimenti degli ultimi anni, cioè la formazione di stati indipendenti e autonomi. E Zobundzija, per il prestigio nazionale e internazionale che aveva acquisito prima come dirigente della vecchia Jugoslavia a fianco di Tito e poi per la sua opposizione al regime dittatoriale, che gli era costata anni di carcere, era l’unico in grado di far accettare al mondo e ai democratici delle sei repubbliche ex jugoslave questo disegno che poneva fine all’autocrazia comunista e a una nuova federativa, simile a quella svizzera. Un disegno che si poneva apertamente contro l’idea della Grande Serbia, di uno stato di slavi del sud assoggettato a Belgrado, caro ai nazionalisti serbi.

Hag, dopo aver scorso l’elenco dei nomi, alzò gli occhi verso la ragazza.

  • No, non c’è nessuno con questo nome.
  • Sei sicuro?
  • Vuoi vedere tu il registro?
  • No, no, mi fido – rispose Anica. – Senti, avere una sigaretta?
  • Mi dispiace, fumo solo questi. – E Hag mostrò un pacchetto di cigarillos sulla scrivania. – Se ti va…

Anica parve valutare quell’uomo alto, con i capelli brizzolati, i baffi curati e il viso abbronzato dalla vita di mare. Poteva farselo complice semplicemente offrendogli il proprio corpo, certa che lui, ben presto, sarebbe venuto in possesso dell’informazione di cui aveva bisogno. Chiunque fosse il bambino, prima o poi, solo com’era, avrebbe sentito la necessità di confidarsi con qualcuno. E chi altri poteva essere se non il rassicurante commissario di bordo?

Anica accettò uno dei cigarillos che Hag le offriva.

  • Ti piacciono cose forti – commentò la donna, portandolo alle labbra con un gesto sensuale. – Anche a me. – E avvicinando il viso alla fiamma che l’uomo le tendeva, mentre le prime spire di fumo le velavano gli occhi, aggiunse in serbocroato: “Želiš me?”. Mi vuoi?
  • Adesso?
  • Perché no? Siamo soli.

Hag posò l’accendino sullo scrittoio.

  • Devo lavorare – rispose.

Anica annuì. “Come vuoi. Ma sai dove trovarmi”.

Fece per uscire. Sulla porta si fermò, tornando a guardarlo. E, continuando a parlare in serbocroato:

“Allora non mi dici dove hai imparato a parlare la mia lingua?”

Hag abbozzò un sorriso. “Te lo dico la prossima volta.”

Anica drizzò significativamente il corpo, quindi sistemò una ciocca di capelli che le era caduta sulla fronte.

“Speriamo che non sia troppo tardi” rispose, chiudendo la porta dietro di sé.

Erano le sette del mattino. Un raggio di sole entrava dall’oblò della cabina dei coniugi Alberto e Flavia Arduini. Consideravano quella crociera sull’ Esperia una seconda luna di miele. Due giorni prima, nella stessa chiesa dei Santi Nazaro e Celso di Bellano, in provincia di Como, dove si erano sposati, avevano celebrato le nozze d’argento. Venticinque anni di un matrimonio vissuto nell’amore e nel rispetto reciproco, ma amareggiato dalla mancata nascita di un figlio. Ci avevano sperato fino al giorno in cui Flavia non era entrata in una precoce menopausa.

Alberto era proprietario di una notevole e produttiva azienda tessile, che gli procurava lauti profitti. Ma più gli anni passavano e più si chiedeva a chi avrebbe lasciato il suo patrimonio. Se lo chiedevano entrambi, intristiti dal pensiero che venticinque anni prima, al momento di salire sull’altare, erano convinti che il loro matrimonio sarebbe stato allietato da una nidiata di bambini.

A questo, ancora, pensavano Alberto e Flavia quella mattina a bordo dell’Esperia, dopo aver visto tutti quei bambini abbandonati, affamati e piangenti sulle scialuppe e ora raccolti sul castello di prua. Quale fine avrebbero fatto? Se lo chiedevano, ognuno per conto proprio, considerando quell’ennesima ingiustizia della vita. E se fossero riusciti a salvarne almeno uno?

Come se fino a quel momento, anziché tacere, si fossero scambiati le loro sensazioni, Flavia disse: “Alberto, perché non ne adottiamo uno? Ci sono diversi orfani tra loro, ho sentito dire.”

“Stavo pensando la stessa cosa” si guardarono negli occhi. Le loro mani si cercarono. Alberto annuì, deciso “Sì, ne porteremo a casa uno. Parleremo con il co-mandante…”

“Pensi che sarà possibile? Per la legge, dico. Dio mio, tutti quei cavilli…”

“A questo punto non m’importa di nulla. Tu scegli soltanto il bambino che più ti piace. Sarà nostro, a co sto di rapirlo. Ma, intanto, a bordo è il comandante la legge. Gli chiederemo di non farlo sbarcare, per il momento.

“Il commissario di bordo, però, ha già registrato i loro nomi. In Grecia o in Italia controlleranno, faranno l’appello, e se la polizia si accorge che ne manca uno…”

Alberto accarezzò la moglie, le sorrise: “Parlerò anche con il commissario di bordo. Cercherò di fargli chiudere un occhio. O tutti e due.

Flavia sospirò, ormai incapace di resistere a quell’idea.

  • Sarebbe bellissimo.
  • Sì. Ma adesso vestiti e vai a vedere i bambini, stai un po’ con loro, e poi scegli. Una volta che avrai deciso, farò i miei passi.

“E tu non scegli con me? Sarà anche figlio tuo.”

“Hai ragione. Verrò con te.”

 

Il piccolo Slavko, con le braccia conserte sul parapetto, guardava con occhi tristi il mare, la spuma bianca delle onde che la prua dell’Esperia tagliava con decisione. Ma non vedeva nulla. Pensava ai momenti terribili che aveva passato la notte e il giorno prima nella città bombardata dai serbi. Pensava alla nuova decisione di zia Danica di fuggire anche da Dubrovnik, che per alcune settimane era sembrata un rifugio sicuro. Ci erano arrivati dopo che a Belgrado, dove vivevano, lui aveva rischiato di essere rapito. Un uomo alto e magro e una donna bionda lo avevano acciuffato per i capelli e trascinato verso un’automobile scura, ma erano subito intervenute le guardie del corpo del nonno a salvarlo e i due avevano dovuto lasciarlo per non essere catturati e uccisi. Erano nazionalisti serbi, aveva saputo poi. Gli stessi che avevano minacciato sua madre di morte. E il nonno, allora, aveva dato disposizioni perché i suoi cari, la figlia e il nipotino, lasciassero Belgrado. Per maggior sicurezza, lui e sua madre erano andati in posti diversi. Lui a Dubrovnik, accudito da zia Daniza, la sorella del nonno. E sua madre in una località segreta della Slovenia.

Slavko aveva passato dei giorni meravigliosi in quella città antica, di fronte al mare. Lo vedeva dalla finestra del suo rifugio, limpido e azzurro, con le isole della Dalmazia sull’orizzonte. Poi erano cominciati i bombardamenti. “Uccidono la storia, oltre agli uomini” aveva commentato con disprezzo zia Daniza. E poi, quando il fuoco della guerra aveva preso definitivamente possesso della città, zia Daniza lo aveva avvertito.

‘’Mio piccolo Slavko, dobbiamo andare via. Ci uniremo a un gruppo di profughi che vanno verso Fiume. Non dire mai a nessuno che sei il nipote di Slavko Zobundzija, qualsiasi cosa accada. Io sarò vicino a te. Per tutti sarò tua nonna. Diremo che i tuoi genitori sono morti, che sei orfano. D’accordo?”

‘’D’accordo, zia Daniza.”

“No, piccolo mio, d’ora in poi devi chiamarmi nonna.”

“D’accordo, nonna.” E sorrisero entrambi.

Si erano uniti a un gruppo di profughi, alla periferia di Dubrovnik, nello stesso momento in cui riprendevano i bombardamenti. Le donne, i bambini e i pochi uomini anziani insieme ai quali si trovavano cominciavano a correre spaventati, cercando riparo, mentre le bombe esplodevano intorno a loro. Qualcuno, dai tetti delle case, aveva preso a sparare. Slàvko, in quei giorni, aveva imparato a distinguere gli scoppi delle bombe dai colpi di fucile e dalle raffiche di mitra. Uomini misteriosi sparavano sulla gente, non importava se fossero bambini, donne e anziani, o già feriti. I cecchini erano guidati soltanto dal gusto della distruzione e della morte. A un certo punto, bersaglio delle loro pallottole era divenuta una donna dai capelli candidi, il sorriso e la voce dolce di zia Daniza. Slavko l’aveva vista rotolare a terra come un fantoccio. Lui stesso, che le stava accanto, non si era reso conto di quello che era accaduto. Pensava che, nella fuga, fosse inciampata. Aveva gridato: “Nonna”, e s’era chinato su di lei per aiutarla a sollevarsi. Ma poi aveva visto il sangue, sul corpo e sul viso, e aveva capito. L’aveva fissata incredulo, implorandola in silenzio di non morire. Zia Daniza aveva appena avuto la forza di alzare una mano e accarezzarlo, sporcandogli la guancia di sangue.

“Sai quello che devi fare” l’aveva udita dire con un filo di voce. “Raggiungi Lubiana e cerca l’ex vicepresidente della Slovenia… è un grande poeta, nostro amico… si chiama Ciril Zlobec… l’indirizzo è Vosnja…” Ma non era riuscita a terminare la frase. Con gli occhi sbarrati era rimasta a guardare il cielo lacerato dagli scoppi delle bombe.

Slavko avrebbe voluto restare abbracciato con lei, finché non si fosse risvegliata. Ma qualcuno dietro di lui, con dolcezza e decisione, l’aveva staccato da quel corpo.

“Dogi” vieni.

Slavko aveva opposto un po’ di resistenza. Ma la bocca di zia Daniza sembrava parlargli ancora. “Sai quello che devi fare. Raggiungi Lubiana…” E il bambino, con un ultimo sguardo al corpo di zia Daniza, aveva seguito la donna che lo tirava per mano.

“Vieni, piccolo. Ho tre figli orfani, posso averne quattro…”

Si era ritrovato solo e confuso, col gruppo di profughi, ai quali se ne aggiungevano altri, via via che si allontanavano da Dubrovnik, lungo la costa. A un certo momento si erano fatti avanti alcuni uomini in armi, miliziani croati, che scortavano un altro piccolo gruppo di donne e bambini abbandonati.

“La strada è interrotta, non potete passare. L’artiglieria serba vi ucciderebbe. Abbiamo predisposto delle barche…”

Li avevano guidati lungo un sentiero tra le rocce e i rovi.

L’aria, ricordava Slavko, odorava di mirto e di mare. Era stato, quello, un modo per capire che era ancora in sé. Perché, altrimenti, le cose, i volti e le voci della gente intorno gli giungevano dalle lontananze estreme della sua assenza spirituale. Presente in lui era soltanto il volto e la voce di zia Daniza, dei suoi occhi azzurri uguali a quelli di suo nonno Slavko Zobundzija e di sua madre.

Doveva raggiungerla a Lubiana. Ma ora, si era chiesto mentre metteva piede, nella notte, su una delle tre barche ormeggiate a un piccolo molo di legno, ora dove stava andando?

E se lo ripeté adesso, a bordo dell’Esperia, con gli occhi che fissavano il mare: dove sto andando?

Mi capitassero sempre dei lavori così, pensò il detective privato Amos Longhi, mentre, a bordo dell’ Esperia, stava ascoltando in cuffia la conversazione che si svolgeva nella cabina attigua tra Cafiero Delcroix e la sua amante Stefania Pelizzari. Niente noiosi appostamenti o stancanti pedinamenti. L’area dell’indagine era ristretta alla nave, e in più si faceva gratis una crociera di lusso.

Amos Longhi era stato ingaggiato dalla moglie di Delcroix, Stella, che secondo lui non aveva nulla da invidiare, come corpo, a Stefania. Alta, mora, abbronzatissima, aveva cosce lunghe, valorizzate dalla gonna stretta e corta di Versace e uno sguardo intenso di donna mediterranea. Guardandola, Amos era rimasto senza fiato, mentre metteva piede nel suo ufficio di via Manzoni a Milano, e poi, sedutasi di fronte a lui, accavallava le gambe. Aveva provato un brivido.

“Mi dica, signora” le aveva chiesto, come di rito. “In che cosa la mia agenzia può esserle utile?”

“Voglio le prove che mio marito mi tradisce. Tutte le prove che può portarmi: fotografie, registrazioni, le cose che di solito servono in questi casi” aveva detto Stella Delcroix con la sua voce calda, un po’ nasale nella sua tenue inflessione siciliana.

Amos aveva annuito. Siamo alle solite, aveva commentato tra sé. Corna, nient’altro che corna, mentre lui continuava a sperare in un incarico in campo industriale e commerciale, oppure su un delitto, in concorrenza con la polizia ufficiale. Sognava il colpaccio: la polizia trovava un colpevole e lui ne trovava un altro, quello vero. Invece, il grosso del lavoro era nel campo dell’adulterio. Mogli che facevano seguire il marito e viceversa. Noia. Squallore. In questo caso, invece, era stato più fortunato: una crociera non capitava tutti i giorni. Per questo motivo le indagini aveva voluto seguirle di persona. Non poteva affidarle a uno dei suoi ragazzi!

Quel giorno, come anticipo, Stella Delcroix aveva firmato un assegno a sei zeri. Era ricca, la signora. Ma voleva diventare ancora più ricca, oltre che indipendente. Voleva divorziare da Cafiero Delcroix e godere di un lautissimo appannaggio. Lui era un mercante d’armi bresciano con cittadinanza svizzera. Trattava solo partite grosse: cingolati, cannoni, mitra, bombe. A Stella Delcroix non importava che il marito la tradisse. Lei faceva altrettanto, anche se con maggior discrezione. Ma voleva i soldi del marito. E tanti. Prima che Stefania riuscisse a diventare la signora Delcroix e a lei toccasse solo una modesta liquidazione.

Una cosa era certa: Amos Longhi, in quei giorni di navigazione, avrebbe raccolto tutte le prove che voleva dell’adulterio di Cafiero Delcroix. Il giorno prima, alla partenza da Venezia, era riuscito a piazzare un paio di microspie in cabina. In giornata, quando i due piccioncini fossero saliti sul ponte a prendere il sole, avrebbe provveduto all’installazione di una microtelecamera. Avrebbe ripreso Cafiero e Stefania mentre scopavano. Li aveva già ripresi mentre salivano a bordo dell’Esperia, quando invece alla segretaria e alla moglie Delcroix aveva detto che partiva per Amman, per un contratto. E aveva scattato già parecchie fotografie.

Tra un paio di giorni Amos Longhi avrebbe potuto considerare chiuso il suo lavoro. Sarebbe potuto tornare a Milano e consegnare alla signora Delcroix tutte le prove del tradimento del marito. Ma visto che il biglietto per la crociera era stato pagato, si sarebbe fatto una bella vacanza. Stella Delcroix poteva aspettare.

  • Che scocciatura! – disse Stefania Pellizzari, distesa nuda accanto a Cafiero Delcroix. – È vero che torniamo in Italia per quei mocciosi?
  • Non è detto. Se i greci saranno d’accordo, li scaricheranno a Corfù. Speriamo che sia così. Ho pagato cinque milioni di lire per questa crociera, accidenti! Se fosse dipeso da me, non avrei neppure guardato le scialuppe, avrei tirato dritto. Ma noi italiani siamo i soliti idioti. Una cosa è certa: non possono tenerli a bordo per tutto il tempo della crociera.
  • Ma chi è quella gente? – chiese candidamente Stefania.

Delcroix la guardò ridacchiando. – Non lo sai che c’è una guerra a poche miglia da qui, piccola? Gli slavi si stanno ammazzando tra di loro che è un piacere…

  • Ti fanno ridere queste cose? – chiese Stefania incuriosita.
  • Piccola, dove credi che prenda i soldi? Ce ne vorrebbero tante di guerre. Solo qui in Jugoslavia ho realizzato finora cinquecentomila dollari vendendo armi ai serbi e ai croati.
  • Sei crudele!
  • Io offro solo dei servizi. Crudeli sono loro – allungò la mano verso di lei accarezzandola. – Io sono tenero tenero come questo bel culetto…

Stefania si girò dalla sua parte, afferrandogli il membro. – Non direi che sei tenero tenero, anzi…

  • Già, piccola, già… Mettiti su di me, questa volta. Io riservo le forze per dopo…
  • Per fortuna, non facciamo altro da quando stiamo insieme. Era ora. Ero stufa di dedicarmi a te solo nei ritagli di tempo.

Delcroix sorrise. – Ne avrai abbastanza di me, in questi otto giorni di crociera.

  • Ma io ti vorrei tutta la vita – sussurrò Stefania, sistemandosi sopra il robusto corpo di Delcroix e cominciando a muoversi. – Dimmi, mi ami?
  • Certo, piccola.
  • Più di Stella?
  • Che razza di domande mi fai…
  • Rispondimi – intimò lei con una traccia di affanno nella voce, accelerando i movimenti. – Mi ami più di Stella?
  • Sei stupenda… mi fai…
  • Rispondi!
  • Sì, di più… Stefi, vengo…

Stefania rallentò, cercando abilmente di ritardare l’orgasmo dell’uomo.

  • Mi piaci da morire, Cafiero – sussurrò. – Voglio essere tua moglie.

E lo sarai… ma sarà difficile convincere Stella…