Apologia della lettura di Diego Zandel [ALlibri]

a cura di Angelo Marenzana

 

Per l’appuntamento domenicale con ALlibri questa settimana parliamo di Apologia della lettura -Riflessioni di un bibliografo incallito, di Diego Zandel, e pubblicato dalla casa editrice Historica. Si tratta di una piccola chicca in cui filtra tutto l’amore per i libri e tutta la ricca esperienza di scrittore e di lettore appassionato del suo autore. Senza scadere nella logica del manuale, Diego Zandel racconta in dieci capitoli e in modo del tutto originale (supportato dal proprio piacere di scrivere e dalla profonda conoscenza della struttura narrativa) come sia riuscito a risolvere nella sua vita i diversi problemi che la lettura dei libri inevitabilmente impone per via dei mille impegni e incombenze imposti dalla quotidianità. L’obiettivo dell’autore è di condividere con tutti gli amanti dei libri e della lettura un percorso che impedisca la resa di fronte agli ostacoli che si frappongono tra il desiderio di leggere  per bisogno di conoscenze o per divertimento e relax e il tempo che occorre trovare per poterlo fare.

Diego Zandel, di origine fiumana, nasce a Fermo nel 1948 e tutta la sua produzione narrativa appare spesso collegata a esperienze autobiografiche, o a echi e risvolti di tali esperienze, con agganci anche a particolari momenti storici, come gli anni di piombo (il romanzo “Massacro per un presidente”), la guerra nella ex Jugoslavia (“I confini dell’odio”), la guerra nell’Egeo (“Il fratello greco”) oppure le foibe e l’esodo istrofiumano (“I testimoni muti”). Più in generale, vale per Zandel quanto scritto da Elvio Guagnini, professore emerito di letteratura all’Università di Trieste, in merito al romanzo L’uomo di Kos: “Zandel sa coniugare gli “slarghi” delle descrizioni e dell’analisi con il ritmo sempre sostenuto di un racconto ricco di momenti di sospensione e di colpi di scena. Usa con intelligenza i trucchi del genere (dei generi) ai quali fa riferimento. Usa con altrettanta intelligenza anche la seduzione del paesaggio e dell’ambiente, per tenere avvinto il lettore. E, accanto a tratti “di consumo” usati con intelligenza (ma sappiamo che non tutta la letteratura detta di consumo è necessariamente “di consumo”), sa intrecciare una storia d’azione a un romanzo di analisi.” Un’analisi che vale un po’ per tutti i suoi romanzi, in cui il gusto del mistero, della memoria e dell’avventura s’intrecciano incisivamente agli eventi della piccola e della grande storia.

Buona lettura con il capitolo I luoghi della lettura.

 

Il tavlado è tipico delle case nelle isole del Dodecaneso, in Grecia. Si tratta di un soppalco di legno al quale si accede di solito con tre gradini e ricoperto di kouloura, i colorati tappeti cuciti dalle donne con gli avanzi delle stoffe, sui quali vengono posati i materassi per dormire. La parte sottostante, un tempo, era adibita a dispensa per l’inverno. Vi si conservavano l’olio, il vino, il succo di pomodoro in bottiglia, le olive in salamoia, le noci, i dolci secchi ed altro. Oggi è per lo più adibito a ripostiglio. La casa dei nonni materni di Anna, nell’isola di Kos, conserva questo arredo interno. Anzi, la stanza maggiore delle due che compongono la casa ha due tavlado, ciascuno ai lati opposti di essa: uno, che prende metà parete, era riservato un tempo ai genitori e l’altro, che occupa l’intera parete, allo stesso livello di due finestre che guardano la piana, il mare e le isole antistanti, era riservato ai figli. Finché Anna era viva era qui che dormivamo a Kos, d’estate, e con noi i nostri figli da piccoli. Una delle due finestre era parallela al mio corpo disteso, a filo dei miei occhi. E la mattina, al risveglio, era questo incanto d’azzurro, di cielo e di mare, tagliato dai dorsi marroni con sfumature d’aragosta delle isole di fronte, la prima immagine che mi colpiva. È stato questo il mio posto anche quando, morta Anna e i figli fattisi grandi, tornavo da solo per trascorrervi l’intera estate.

Sul tavlado amavo distendermi soprattutto il pomeriggio quando, con un libro in mano, mi predisponevo alla lettura quotidiana, subito dopo il pranzo. Sotto le finestre il vento muoveva le foglie dei gelsi prima di penetrare nella casa e accarezzarmi la pelle accaldata. Incessante, il canto delle cicale, un refrain monotono che accompagnava il lento sfogliare delle pagine.

Di tutti, nella mia vita, i posti in cui sono stato o più frequentemente mi sono trovato, è stato per me il luogo ideale per la lettura, un punto focale nel quale io, il libro e l’ambiente circostante, diventavamo tutt’uno, puro spirito riempito della materia levitante, leggera, fatta di parole, personaggi, luoghi, storie, che l’autore raccontava, trascinandomi via.

Ero con Darley a Creta, mentre leggevo Justine di Lawrence Durrell. Per poi, a poco a poco, diventare Darley stesso. “È di nuovo alta marea, oggi, con folate di vento elettrizzanti. Nel mezzo dell’inverno si possono già sentire le invenzioni della primavera. Un cielo di nuda madreperla cocente fino a mezzogiorno, poi i grilli in posti riparati, e adesso il vento che disfa i grandi platani e li fruga… Sono fuggito su questa isola con pochi libri e la bambina – la bambina di Melissa. Non so perché uso la parola ‘fuga’. Gli abitanti del villaggio dicono scherzando che soltanto un uomo molto malato sceglierebbe un luogo sperduto come questo per rimettersi in sesto. Bene, allora, se si vuole metterla così, sono venuto qui a guarire me stesso”.

Forse non ero a Creta. Forse ero proprio ad Asfendiou. Il villaggio è pressoché disabitato, ci sono rimasti solo i vecchi, i più poveri, coloro che non avevano la possibilità di farsi una casa nuova giù, a Zipari, lungo la strada che collega i villaggi dell’isola, ai piedi del monte Dikeo, sul cui costone, isolato, si trova Asfendiou. Le case qui sono abbandonate, come un passato che non si ha interesse a conservare, perché ciò che importa nella vita di un uomo è il presente, l’aprire gli occhi sul nuovo giorno e dire: “Signore, ti ringrazio di questo nuovo dono che mi dai”. Quasi tutte le case sono crollate, in balia delle intemperie, dei rovi che le soffocano, diventate tane per topi, nidi di vipere e scorpioni, di gechi grigi immobili sui muri al sole. Poche sono rimaste in piedi. Il borgo antico, di case dell’Ottocento, è stato restaurato con i soldi del Ministero della Cultura ai tempi in cui il ministro era Melina Mercouri, ma è deserto. Nessuno si cura di dargli vita, di farlo abitare. Io guardavo con rimpianto quelle case, m’intrufolavo nel borgo scavalcando cancelli di legno serrati da lucchetti e temevo, col tempo che passava, un nuovo degrado, altri crolli. “Soltanto un uomo molto malato sceglierebbe un luogo sperduto come questo”. Lo pensavo anche quando veniva qualcuno dall’Italia a trovarmi, di passaggio. Ma era un fatto che solo lì, ad Asfendiou, riuscivo a prendere distanza dalla mia vita, a darle un significato tale da restituirla in altra forma. E poi lì ero felice. Anche se, a un certo momento, mi prendeva l’urgenza di ripartire per tornare a tuffarmi nel mio mare romano, dove ritrovavo il mio lavoro, il senso vero della mia vita.

Anche le letture che mi portavo dietro mi aiutavano, certo.

Al contrario di Darley non riuscirei a scrivere sotto l’ulivo di Asfendiou, come lui a quello del suo sperduto villaggio cretese. Ho bisogno del mio studio, della mia scrivania. A Kos, dove comunque ritorno ogni estate, ora con Alessandra, seppur abitando altrove, vicino al mare, non scrivo. Preso dalla straordinarietà dell’arcipelago egeo, mi limito a rielaborare solo con la mente e sul mio taccuino idee, trame, personaggi che in quegli spazi si affollano.

Ma ciò accade un po’ in tutti i viaggi che faccio, anelando poi il ritorno a Roma per dare corpo a una storia, così come a Roma anelo a un viaggio per dare vita alla mia fantasia.

La prima volta che andai in Grecia era il 1969, appena fidanzato con Anna. C’era la dittatura dei colonnelli, e l’aver toccato con mano la condizione di oppressione in cui viveva il popolo contribuì a farmi sentire molto vicino ad esso, spingendomi a conoscere gli oppositori, stringere loro la mano, abbracciarli. Mi sarei trovato in Grecia anche nell’anno della caduta dei colonnelli, nel 1974. Era bellissimo respirare quell’aria di libertà, con gli oppositori che, dopo anni di prigione o confino tornavano nelle loro case, accolti da ghirlande di fiori. Ecco perché, d’allora, mi prendono tanto i romanzi che raccontano le loro storie, la loro Storia. Sono tutti belli, perché intessuti di dolore, di ferite, di dubbi, di fede, di libertà, di amore, ma qualcuno in particolare mi ha particolarmente colpito, forse perché li ho portati dietro con me per leggerli in Grecia. Forse sarebbe stato diverso se li avessi letti altrove?

Non so in quale estate mi capitò di leggere un libro che mi coinvolse tantissimo: La fidanzata di Achille di Alki Zei, una tra le più grandi scrittrici greche. Era una lunga riflessione in forma narrativa della storia del Partito Comunista Greco, il KKE, visto con gli occhi di una comunista. Un’analisi spietata ma splendidamente raccontata attraverso la storia di Elena, la fidanzata di un capo comunista, Achille appunto, eroe, sebbene solo letterario in questo caso, nella guerra civile contro i monarchici, sostenuti, nel dopoguerra, dagli angloamericani, e poi, per la sconfitta, in esilio nei paesi dell’est europeo. La vita tra le comunità di greci, l’inquadramento nel partito, la gerarchia interna, le lotte di potere intestine, i sacrifici, le speranze, i tradimenti. Ed Elena che si vede esclusa dalla propria vita, perché è la promessa sposa per lunghi anni e poi moglie di Achille e poi ancora madre della loro figlia, e non può lasciarlo, non può innamorarsi di un altro, perché un eroe non si può né si deve lasciare… anche se per molti anni staranno lontani, lei in Grecia, lui in esilio, e poi, quando tornano a incontrarsi a Tashkent, nell’Uzbekistan occupato dai sovietici dove Achille come molti comunisti è finito, non si riconoscono, sono cambiati, mutati dalla vita che li ha attraversati, ma sono condannati a restare insieme… la storia del Partito Comunista, vissuto come una chiesa, con i suoi riti, i suoi sacerdoti e i martiri, con i suoi tabù, ipocrisie e grossolanità, s’intreccia alla vita privata, intima, dei personaggi. Ma tutto il libro parla di Grecia, perché la vita di Achille ed Elena è stata condizionata dalla drammatica storia della Grecia moderna. E trovarmi io lì in Grecia, sentir parlare greco fuori, mentre sul tavlado leggo un libro del genere, è come se Achille ed Elena fossero lì con me…

Sì, i luoghi influenzano la lettura, per lo meno ti aiutano a capire meglio certi libri.