La Guerra dei Mondi (10) – Apocalypse Now [Il Superstite 471]

ATO6: "Crisi idrica, i cittadini siano più parsimoniosi con l'acqua" CorriereAl 1di Danilo Arona

 

 

Prima dell’avvento del Coronavirus, in Italia e ovunque nel mondo si viveva in un’aspettativa continua di catastrofe. Ovvero, l’Apocalisse, prima di ogni altra cosa, era uno stato della mente. Non è tanto una nostra tesi, quanto un’autentica cifra esistenziale esposta dal filosofo e urbanista francese Paul Virilio nei libri Città panico e L’incidente del futuro, dalla lettura dei quali si trae la convinzione che la catastrofe, nelle sue diverse forme, sia stata lo sfondo permanente entro il quale si muoveva l’uomo moderno prima dell’ultimo e assurdo giro di boa. Un valore aggiunto di estremo peso era arrivato dall’11 settembre 2001 che aveva inaugurato l’era della catastrofe integrale, sistemica e globalizzata, celebrando la forza strisciante dell’immagine televisiva e del contagio virale mediatico, che annullava distanze spaziali e funzionalità temporali, provocando reazioni a catena, reali e virtuali. Ci fu poi la fuffa del 21 dicembre 2012 che, per quanto pochi confessassero di prendere sul serio, in realtà fu un elemento che lavorò ai piani bassi dell’inconscio collettivo. Grazie soprattutto al cinema.

Quest’ultimo, sin dalla sua genesi, ha coniugato con redditizio cinismo l’estetica dell’Apocalisse, offrendo consolatorie quanto spettacolari vie di fuga da un quotidiano opprimente. Così si spiega il successo di tanti prodotti che per  anni ci hanno raccontano in varie sfaccettature la fine, sfiorata o inevitabile, dell’uomo “questa malattia”(titolo di un vecchio romanzo di Claude Yelnik).

Se i progenitori filmici dell’Apocalisse contemporanea datano, non a caso, il decennio degli anni Trenta del secolo scorso per la specularità con l’apocalisse economica (La fin du monde di Abel Gance e The Deluge di Felix Feist), è il 1963 l’anno della transizione dal vecchio al nuovo cinema “della fine”, quando  Hitchcock vince la sfida del mettere in scena “il cielo che si avventa sulla Terra”. Con Gli uccelli, tratto da un racconto esemplare di Daphne Du Maurier, Hitch compone il vocabolario di tutte le apocalissi a venire, il precursore sempre citato da registi come M. Night Shyamalan, George Romero, Peter Weir e Roland Emmerich, soprattutto per quel saper guardare “dentro” alle anime dei personaggi in attesa di un imprecisato Giorno del Giudizio. Sono l’attesa, l’avvisaglia, l’angoscia in crescendo dell’umanità, gli elementi quasi sempre vincenti del primo cinema catastrofico post-hitchcockiano, quello per intenderci degli anni Settanta legato a sconvolgimenti tanto planetari (Terremoto di Mark Robson e Meteor di Ronald Neame) quanto più localizzati ma metaforicamente esportabili (L’avventura del Poseidon, L’inferno di cristallo e i tanti Airport). Lo sono perché durante i “tempi di attesa” i cattivissimi uomini, colpevoli persino del fatto che la Terra sia divenuta “il pianeta delle scimmie” (il finale dell’omonimo film del ’68 di Franklin J. Shaffner, in cui l’astronauta Taylor scopre sulla spiaggia solitaria di un pianeta sino a quel momento ritenuto alieno, i resti della Statua della libertà, è una delle scene più genuinamente apocalittiche di tutti i tempi…), hanno così tutto il tempo per pentirsi delle loro nefandezze e attendere in modo poco laico il colpo finale.

Su questa dialettica, triplice se all’aspettativa e alla catastrofe aggiungiamo anche il “dopo”, si sviluppa tutto il cinema a venire. Con titoli non sempre memorabili, ma mai passati inosservati: dalla trilogia di Roland Emmerich (Independence Day, L’alba del giorno dopo e 2012) che assemblava clamorose immagini anticipatrici, ai quasi anacronistici The Day After di Nicholas Meyer e Testament di Lynne Littman, ambedue del 1983 e imperniati sull’olocausto nucleare, tornato in auge sociale per effetto del ritorno della guerra fredda nell’era Reagan; dalle catastrofi provenienti dal cosmo di Armageddon di Michael Bay, Deep Impact di Mimi Leder e Skyline dei fratelli Strause, a quelle naturali di film come Twister di Jan De Bont, Vulcano – Los Angeles 1997 di Mick Jackson, The Core di Jon Amiel; dai morbi fantabiologici di Virus letale di Wolfgang Petersen e Contagion di Steven Soderbergh (per niente “fanta” se consideriamo quello che ci sta capitando), ai morti viventi che escono la notte per divorare gli ultimi vivi in ogni angolo del pianeta, ovvero i vari 28 giorni dopo, Resident Evil, l’ottimo serial TV The Walking Dead, tutti derivati dal cinema di George A. Romero (sei film dal ’68 a oggi), e tutti nel loro insieme ispirati da un romanzo scritto da Richard Matheson nientemeno che nel 1954, Io sono leggenda, oggetto di tre trasposizioni filmiche “ufficiali”, l’ultima delle quali è l’omonimo titolo con Will Smith, firmato da Francis Lawrence nel 2007.

In tanto dispiegarsi di immagini del disastro, spesso in reciproca gara sul fronte sempre più stupefacente degli effetti speciali digitali, si possono citare tre film di altrettanti periodi storici che seguono percorsi opposti, legati alla reciproca poetica dell’autore. Il primo è L’ultima onda (1977) dell’australiano Peter Weir, esemplare opera tutta “in levare”, ridondante di segni, suoni e misteriose manifestazioni atmosferiche preludenti all’ultima ora del pianeta, che verrà scandita dalla “pioggia nera”. Quindi l’emozionante E venne il giorno (2008) di Shyamalan, il più “hitchcockiano” di tutti nella messinscena dell’Apocalisse, al quale si deve lo sconvolgente incipit dei suicidi di massa, una sequenza purtroppo debitrice a certe immagini, terribili e indimenticabili, dell’11 settembre (e ancor più hitchcockiano nel raccogliere la sfida lanciata dal maestro: «Bisognerebbe far vedere dei fiori che mangiano gli uomini…», testimone che il film a suo modo raccoglie). Concludendo con Melancholia (2011) di Lars von Trier, in cui il geniale regista danese viviseziona la psiche e l’anima di due disturbatissime sorelle mentre il pianeta Melancholia sta per entrare in collisione con la Terra. Impossibile però non menzionare almeno in due righe il “perturbante” Take Shelter di Jeff Nichols, in cui l’Apocalisse sta tutta racchiusa nella mente del protagonista, ma non è per questo meno distruttiva.

E adesso?

Al momento non si girano film, tutto è fermo e il pianeta vive (vive?) in stato di animazione sospesa. E il solo scriverlo relega tutti i film sin qui citati nel territorio dell’archeologia visiva. L’unico dato che sembra avere senso in mezzo secolo di immaginario cinematografico che si è occupato della Fine dei Giorni è il titolo dell’immenso film di Coppola Apocalypse Now.

Infatti l’Apocalisse è adesso.