La Guerra dei Mondi (8) – Spettralità [Il Superstite 469]

ATO6: "Crisi idrica, i cittadini siano più parsimoniosi con l'acqua" CorriereAl 1di Danilo Arona

 

Nelle ultime settimane lo avrete sentito pronunciare dalla TV oppure letto su parecchi quotidiani: le nostre metropoli, in assenza dell’elemento umano confinato tra le mura domestiche, sono divenute “spettrali”. C’è un paradosso che salta agli occhi nel continuo uso di questo termine, ovvero si richiama sulla scena del paesaggio apocalittico la presenza dello spettro per evidenziare l’assenza fisica delle persone. È ovvio che la metafora è concettuale, ma sta di fatto che il cosiddetto «spectral turn» è divenuto negli ultimi anni una solida prospettiva di ricerca che investe psicologia, politica e architettura, disancorandosi dall’armamentario gotico di primario riferimento. Lo spettro è così chiamato di continuo in causa, ma non così il soprannaturale in cui di solito si agita.

Si segua come il giornalista Andrea Parisotto su Torino Oggi del 17 marzo descrive la tratta ferroviaria Torino-Savona in un articolo intitolato Coronavirus, stazioni spettrali e treni fantasma: il surreale viaggio tra Savona e Torino:  «Una stazione che sembra abbandonata, un convoglio insolitamente vuoto e un silenzio spettrale, interrotto dalla voce dell’altoparlante che scandisce il nome delle fermate di un treno su cui non salirà nessuno e, verosimilmente, non scenderà nessuno. Benvenuti sulla Savona-Torino, una tratta ferroviaria deserta ai tempi del Coronavirus. Il Covid-19 ha fermato tutto. Il Piemonte, la Liguria e l’Italia intera. Quella che generalmente è una delle tratte più battute, molto utilizzata da chi vuole andare al mare e dai tanti lavoratori che si muovono tra le regioni vicine tra loro, in un normalissimo giorno lavorativo è irriconoscibile Il vagone del treno con tutti i posti vuoti e disponibili, il silenzio delle stazioni una volta animate da pendolari con la valigia o la 24 ore, turisti e residenti, è lo specchio del difficile momento vissuto da tutto il paese e in particolare da due regioni come la Liguria e il Piemonte in cui non solo i casi di Coronavirus crescono in maniera esponenziale, ma che fanno dell’interscambio di merci e persone un valore aggiunto per la propria economia.»

L’esempio mi pare perfetto, ma vorrei aggiungere che non si tratta soltanto di una mera questione linguistica. Se da un lato la spettralità senza fantasmi può affermare di non coltivare parentele di cui vergognarsi con il mondo del soprannaturale, dall’altro deve parecchio della sua attualissima potenza metaforica all’affermazione delle discipline psicanalitiche. E nel caso specifico della “visione significante” al cinema, soprattutto a un certo tipo di cinema fantascientifico (e non solo) che non c’è quasi più e che ha infestato l’immaginario di decenni trascorsi con intuizioni visive straordinarie proprio a proposito dell’Apocalisse, tematica  di cui la fantascienza sempre si è nutrita e che oggi è debordata nel mondo reale e nei telegiornali. Megalopoli notturne deserte e irreali, quartieri abbandonati, palazzoni senza apparenti abitanti, un chilometrico manicomio di acciaio e di pietra, spazi forse vuoti: un pugno di autori che si chiamano (ancora) Carpenter, De Palma, Friedkin, Lustig, Kaufman e altri, in grado di saldarsi con certe “mine vaganti” del poliziottesco italiano per non dire di Dario Argento in certe sue affascinanti manipolazioni urbane, ma pure con certi studi sull’immagine di Giorgio Agamben sull’immagine, definita quest’ultima come la concretizzazione di un’ansia generale di tipo conoscitivo: «come se dall’esterno del fuoricampo del nostro occhio, l’immagine riuscisse a realizzare dei fantasmi che sono dentro di noi, realtà molto diverse, che interagiscono in maniera molto particolare e molto specifica con il nostro retroterra di vissuto e realtà quotidiana.»[1]

Ora, che tutta questa voluttà teorica viene spazzata via dall’avvento e dal dominio delle reali immagini metropolitane ridotte a deserti dal dilagare del COVID 19, occorre ripensare il succitato concetto di spettralità, un’allegoria che si vorrebbe, nonostante la sua potenza semantica, priva di spettri. Realismo purissimo, l’imparzialità delle riprese televisive. Ma è proprio qui riprende pertinenza il dominio dello spettro. Che non è affatto assente, se me lo permettete.

Ogni immagine – anche un fermo immagine – possiede una visibilità reale, ben visibile e precisa, e una occulta, da scoprire. È qui che germina lo spettro, un essere – come ha scritto Jacques Derrida –  «per il quale la vita o la morte non è né qui né là, per il quale la faccenda di vivere o non vivere è priva d’importanza.»[2] Un’entità neutra, ma invisibile e inarrestabile. Che può identificarsi, data la sua vicinanza alla morte e al problema della sopravvivenza, con il virus stesso.

Peraltro è il nostro immaginario che si ritrova a essere infestato, e dalla specifica paura di essere contaminati e dalla paura tout court. Una condizione esistenziale che non ci dovrebbe sorprendere perché anticipata da parecchi anni da tutto un filone narrativo, tanto letterario quanto cinematografico, che ha fatto dell’Apocalisse il suo punto focale. Invece ci ha sorpreso con le braghe in mano perché per troppo tempo una pessima propaganda ci ha instillato la convinzione che gli spettri non esistono.

Peccato che la spettralità stia dimostrando il contrario.

 

 

[1]   Le notti della locusta, mio intervento su Cinema & Cinema  n° 29, Marsilio, ottobre – dicembre 1981. Quasi quarant’anni fa giusto a sottolineare la vetustà non solo del sottoscritto, ma anche del dibattito in oggetto.

[2]   Jacques Derrida, Marx & Sons. Politica, spettralità, decostruzione, Mimesis, 2008.