Il cacciatore di lupi [ALlibri]

di Angelo Marenzana

 

 

Oggi è la domenica di Pasqua. Ma diversamente da tutte le altre Pasqua con chi vuoi, vivremo una festività che si trascina dietro tracce di dolore, tristezza, speranza e isolamento. Mille emozioni tutte diverse. Ognuna specchio di altrettante vite individuali. Si intrecciano a formare le maglie di una rete che tiene prigioniero il nostro futuro. Ma sapppiamo trattarsi solo di un momento. E perchè questo istante di vita sia il più breve possibile ognuno di noi è chiamato al proprio senso civico e a nutrire quella pazienza necessaria imposta dall’attuale emergenza.

Con il mio racconto Il cacciatore di lupi voglio fare un omaggio a tutti coloro che mi seguono e leggono le proposte letterarie delle domeniche di ALlibri. Un salto nel passato, in un seicento ferito anche allora da un’epidemia di peste che ha infestato pure la nostra città.

Occasione per un in bocca al lupo a tutti.

Buona lettura e buona domenica di Pasqua.

 

 

Cullato da un ritmo sonnolento mi lascio trasportare dal cavallo senza mai forzarne l’andatura. La stanchezza si sta impossessando di ogni muscolo del corpo. Desidero un giaciglio e cibo per saziarmi a dovere. Dietro di me solo le tracce di chi, sguardo fisso e capo chino, abbandona le proprie case per cercare rifugio dalla peste nelle campagne del Monferrato, la grande distesa collinare che si sviluppa dalla guarnigione di Alessandria fino alla fortezza di Casale.

Avanzo nella foschia soffusa del borgo Rovereto con l’archibugio a tracolla. Il mio solo compagno di viaggio. Ho appena superato la Porta degli Orti. Nessun problema al controllo della Bolletta di Sanità da parte delle guardie all’ingresso dello spalto. Tutto è filato liscio, visto che sul lasciapassare erano apposti timbri e firme dalle autorità sanitarie milanesi. Tengo il cappello calato a coprire gli occhi e una pezza di lino cosparso con dell’unguento balsamico tra bocca e naso, oltre a quella con cui mi sono fasciato il petto per difendere le vie respiratorie dal morbo che ormai dilaga senza controllo.  Alla partenza ero stato avvertito di tenermi alla larga dalla zona a ovest dove di recente hanno costruito il nuovo Lazzaretto per volere del Vescovo. Giusto per non rischiare di incrociare il via vai di carretti e campanacci diretti in quel luogo maledetto. Sui muri trovo affissi bandi e avvisi che leggo a fatica perché offuscati da buio e umidità, ma so che segnalano i soliti divieti a scopo preventivo a importare merce di qualunque genere. Pena il carcere. Lungo la mulattiera che porta verso la Cattedrale non incrocio anima viva. Solo muretti in sasso ormai ricoperti da una vegetazione che sembra farla da padrona ovunque.

Mi rendo conto che anche in questa zona molti degli appestati vengono abbandonati a se stessi, dimenticati nelle case, spesso con le porte sprangate all’esterno per evitare che possano uscire e contribuire a diffondere l’infezione. È possibile percepire la loro presenza invisibile passando in strada. Un peso straziante che incombe come una maledizione. I malati urlano se hanno ancora un filo di voce, altrimenti i loro lamenti si espandono come sibili velenosi. Ma la pena non conquista i cuori dei loro parenti che, pur nel dolore, si mantengono a debita distanza. Le invocazioni restano inascoltate e molti infetti muoiono di fame più che di peste. La morte si è ormai trasformata in una compagnia talmente quotidiana, che chiunque è riuscito a farci il callo. E sono pochi quelli che si lasciano prendere dalla disperazione o vincere dalla pietà, rischiando solo di peggiorare la situazione.

In vista del Duomo, mi attrae il riflesso di mille fiammelle che rompono la penombra della sera. Do di sprone per spingere la bestia al trotto. Fin quando le luci si trasformano in torce e un brusio si fa orazione distinta. Mi fermo per lasciar passare una lenta processione. Davanti al corteo alcuni fedeli liberano le strade da liquami e immondizie, mentre altri gettano secchiate di calce liquida per disinfettare il percorso. Alle porte di botteghe e abitazioni centinaia di lumini accesi ad accompagnare la sfilata che parte dalla Cattedrale per imboccare la via Maestra. Ne intuisco lo snodo vedendo le luci prendere la direzione dell’ospedale dei Santissimi Antonio e Biagio fino alla chiesa di San Baudolino per concludersi in via Larga e da lì, probabilmente, per rientrare in Duomo.

Costringo il cavallo a un breve dietro front. Mi lascio sulla sinistra una piccola chiesa intitolata a San Rocco eretta proprio al punto di incrocio di quattro strade, come vuole il culto espiatorio dei contagi. Mi addentro dove tutto odora di nebbia, escrementi e paura. Mi faccio largo tra i carretti su cui dormono uomini mezzi ubriachi di stanchezza e distillati. Altri sono riversi a terra, buttati in un angolo a sonnecchiare avvolti in mantelle luride e lacere. Supero la bottega di un fabbro. Lapilli di fuoco si sollevano da un braciere ormai annerito dal fuoco. Tizzoni vividi illuminano l’ingresso dove, attraverso alcune volute di vapore, sfuma il profilo di un uomo nerboruto. Batte con una grossa mazza una lastra di ferro incandescente. Intuisce la mia presenza. Si ferma e mi guarda. Una pettorina in cuoio gli scende fino a coprire i piedi. Anche lui ha il viso coperto da una pezza di lino. Vedo solo i suoi occhi, e mi accorgo che nel suo sguardo non filtra il demone del sospetto.

“Dove posso lasciare il mio cavallo?” chiedo.

L’uomo si pulisce le mani e si passa il dorso del braccio sulla fronte. Fa un passo in avanti. Si presenta come il tipo che nelle situazioni difficili sa farsi rispettare.

“Legalo sul retro della bottega. Può occuparsene uno dei miei ragazzi. Qual è il tuo nome?”

“Bartolomeo Dal Pozzo”. Scendo da cavallo e faccio scivolare a terra il calcio del mio archibugio.

“Io sono Alessio”. Si fa più vicino. “Ma non mi confondere con il fabbro. Lui è morto. Io sono suo fratello, il cerusico, e sto solo cercando di dare una mano, perché il lavoro è molto e le braccia buone sono poche”.

“Questo borgo sembra l’antro dell’inferno, ma non è diverso da quelli incontrati sul mio percorso”.

“Sei armato. Sei qui per l’ordinanza sui lupi?”

“Tu cosa ne sai?”

“Nelle ore notturne molte bestie vengono attirate dal fetore dei troppi cadaveri insepolti nelle campagne. Alcuni si sono fatti così audaci da arrivare a penetrare all’interno delle abitazioni per divorare bambini incustoditi. Si fanno scudo della nostra fragilità e della vegetazione di cui più nessuno si cura”.

“È tutto vero? Non vorrei perdere tempo a rincorrere le chiacchiere”.

“Non c’è più nulla di vero. È tutto solo possibile. Io personalmente non ho visto alcun corpo dilaniato se non da questa immonda malattia, però l’odore della morte è tale da aver contaminato l’intera zona, fino agli Appennini. E i predatori scendono a caccia. Almeno così si dice in giro, e tu sai che le voci circolano di bocca in bocca infette proprio come la peste. Pare anche che il vescovo abbia promesso 5 mila denari per ogni animale abbattuto”.

“Una bella cifra”.

“I lupi sono pericolosi. Pensi di riuscire a farcela da solo?”

“Fosse l’ultima cosa che riesco a fare”.

“Hai bisogno di soldi?”

“Le cure costano, e io non voglio abbandonare la mia famiglia in un miserabile lazzaretto”.

Alessio strizza gli occhi fino a trasformarle in due fessure sottilissime e incomincia a fissarmi in maniera tanto pressante da farmi sentire in imbarazzo. Il suo sguardo sembra volermi sfilare la pelle, senza tralasciarne nemmeno un centimetro. Fa un cenno rapido verso di me, come se volesse toccarmi. Poi sembra rinunciare.

“Pur di salvare moglie e figli saresti disposto a dare credito a una diceria?”

“Ho avuto assicurazione che i bandi del vescovo parlano chiaro. E con questo ci so fare”. Sollevo l’archibugio da terra e glielo piazzo davanti.

“Allora entra”. Mi dice, mentre alcune folate di vento fanno da sottofondo alle sue parole riportando il cigolio degli argani e delle gru per il carico e scarico, ormai abbandonate e in disuso.

Dentro, in un grosso camino di pietra brillano ciocchi incandescenti che intiepidiscono l’aria.

“Un piatto di zuppa calda ti rimetterà in sesto. Ma pensaci bene prima di affrontarli”.

“Non ho più tempo a mia disposizione. Dimmi. Dove si nascondono?” chiedo mentre Alessio mi porge una ciotola fumante. L’afferro con entrambe le mani. Il coccio caldo mi trasmette una botta di calore e mi produce un brivido lungo la schiena.

“Pare siano al riparo della vegetazione della Piazza Maggiore. Proprio davanti alla Cattedrale. Quasi una sfida a Dio. Qualcuno sostiene di averli sentiti strisciare tra le sterpaglie, ma nessuno si azzarda a metterci il naso. C’è già la peste a uccidere, non è il caso di buttarsi anche tra le fauci di un lupo. Non avrai rivali, Bartolomeo. Se vuoi, hai campo libero”.

“Allora, la caccia è aperta”. Concludo e intanto guardo con bramosia un pagliericcio messo d’angolo, nella penombra.

Cerco di recuperare le forze in attesa del calar del sole, il momento migliore per stanare la preda. Ma sento che la stanchezza non vuole abbandonarmi. Per tutto il giorno mi tiene compagnia l’eco di continue litanie. La peste sembra aver avvicinato ancor di più l’uomo a Dio. E pare che la cura più efficace per salvarsi dal contagio sia quello di rivolgersi alla Madonna e a tutti i santi conosciuti. Ne approfitto per dedicarmi alla pulizia dell’archibugio. Me lo ha costruito un armaiolo milanese utilizzando un nuovo sistema a ruota, piuttosto sofisticato, capace di rendere automatica l’accensione. Premo il grilletto, il cane si abbassa a contatto con la zigrinatura della ruota, il copriscodellino si apre, la ruota inizia a girare sprigionando scintille dalla pietra. A questo punto la polvere si infiamma provocando lo sparo. Un’arma che finora non ha mai fallito. Me lo sono già ripagato almeno sei volte con tutti i servigi che mi ha permesso di onorare con successo. E anche stasera saprà cogliere il suo bersaglio. Ormai siamo un tutt’uno, e sono talmente addestrato da riuscire a sparare fino a tre palle in un minuto. Per la mia preda non ci sarà scampo. Un lupo in cambio di moglie e figli.

Quando lascio la casa di Alessio, lui si offre di accompagnarmi. Cammina al mio fianco senza aprire bocca. Il silenzio avvolge l’intero borgo. Il vento che ha sibilato per tutto il pomeriggio si è placato e questo è un buon segno. Ci fermiamo quando ci troviamo di fronte la Cattedrale. Maestosa e inquietante al tempo stesso. A separarci, Piazza Maggiore. E un immenso groviglio di vegetazione dove non è difficile immaginare forme di vita animale pronte alla caccia notturna.

Alessio mi batte una mano sulla spalla e se ne torna indietro senza dire una parola. Io cerco riparo dietro un muro di sasso. Filtra un raggio di luce lunare, foschiosa ma sufficiente a darmi una buona visuale. Sto sul chi va là per una manciata di minuti, poi carico l’archibugio e incomincio a scrutarmi attorno per memorizzare particolari e prendere confidenza con un posto tutto nuovo. Mi assale una sensazione di gelo, mi percuote la schiena e si insinua nello stomaco. La punta delle dita si intorpidisce. Mi rialzo e cerco di scaldarmi facendo alcuni passi nervosi. Cambio postazione. Mi stendo a terra dietro un cespuglio di spine. Osservo da una nuova prospettiva. Tutto è immobile. Tengo le orecchie in allerta. Percepisco solo qualche fruscio dovuto a isolati sbuffi di vento che muovono la cima delle piante. Rumori troppo flebili per essere prodotti da un animale di grossa taglia.

Passa quasi un’ora quando sento un fruscio. Mi alzo in piedi, lentamente e solo adesso mi rendo conto che sta calando una nebbia inaspettata. Vedo tutto sfocato. Le immagini davanti a me si dilatano e si stringono. Strizzo gli occhi. La notte mi appare velata. Non si presenta nera ma grigia come il pelo di un ratto. Sollevo l’archibugio e lo punto nella direzione del rumore. Mi muovo con qualche scatto controllato. La nebbia mi sembra più fitta e il cervello si fa opaco. I pensieri più lenti. Una morsa di dolore mi preme il collo e le spalle. Ruoto la testa per cercare di liberarmi dal peso improvviso quando scorgo sfumature grigie più intense. Sembrano prendere corpo, affilarsi le une sopra le altre. Diventare pelo, muso e scattare verso l’alto, sopra rovi e cespugli. Mi metto in posizione e sto per premere il grilletto quando uno spasmo ai polmoni mi scuote in maniera violenta. Il respiro mi raschia in gola, lacera il palato e arriva alle labbra. Brucia. Subito dopo sono preda di un convulso attacco di tosse. Le braccia tremano, l’archibugio mi cade. Mi piego sulle ginocchia vinto dai crampi e dai primi conati di vomito. Mi porto le mani alla bocca. Le sento bagnate, vischiose. Sporche. Zuppe di sangue. Cado a terra, accanto all’archibugio, con la bocca aperta a contatto della terra e le convulsioni che mi lacerano i polmoni e mi irrigidiscono le gambe.

Proprio com’è successo a mia moglie Rita. E ai miei figli, nemmeno due giorni dopo di lei. Gli occhi mi si riempiono di lacrime, per lo sforzo del tossire e nel rendermi conto che la peste insaziabile si è presa anche la mia vita.

Un leggero scricchiolio mi fa aprire appena gli occhi. Tutto sembra vorticarmi attorno. La crisi è passata ma il respiro è carico di ansia. E il dolore insopportabile. Ma non riesco a muovermi. Nemmeno quando una sensazione di umido si appoggia sulla mia guancia. Vorrei piantare le unghie nella terra e cercare di aggrapparmi alla mondo, alla via. Ma sento di non farcela. Vorrei urlare per sentirmi vivo. Ma sono solo carne accucciata ai piedi di un lupo che mi sta annusando, leccando e scrutando con due occhi azzurri obliqui e trasparenti pronti a penetrare il grigio della notte e del suo manto. Sento l’alito caldo dell’animale sulla faccia, il pelo stuzzicarmi il naso, l’odore di selvatico uscire dalla sua bocca e i denti affilati raschiare tra loro. Mi sento spingere di lato, come se la bestia provasse a spingermi di lato con il muso. Come se volesse voltarmi e guardarmi dritto negli occhi prima di affondare le sue fauci nella mia carne malata.

Una sensazione fredda di bagnato sul viso mi costringe a sollevare la testa. Un respiro sale dal profondo e si strozza in gola. Rischio una nuova convulsione. Faccio forza sulle braccia per risollevarmi e provare a reagire.

“Stai fermo”. Mi sento dire. “Ci penso io”.

È la voce di Alessio. Con una mano mi tiene sollevata la nuca e con l’altra mi bagna la fronte e le guance con un’essenza oleosa ma profumata.

“Il lupo…” provo a mormorare.

“Non ci pensare adesso.”

“Perché sei qui?”

“Non mi sono mai allontanato. Sapevo che la crisi era vicina e che avresti avuto bisogno di aiuto”.

“Come facevi a saperlo?”

“I bubboni sul collo si vedevano sotto la garza. Grossi come noci. Ma tu eri troppo preoccupato per la sorte della tua famiglia da accorgertene”.

“E il lupo?” ripeto.

“Non c’è nessun lupo, Bartolomeo”.

Reclino il capo. Non ho la forza di reagire. Con la mano gli stringo il braccio. Mi lascio sollevare da terra quanto basta per farmi stendere su un carretto. Subito dopo sento Alessio inforcare le cinghie e trainare il biroccio facendolo rimbalzare sulla pietra sconnessa che mi riporta verso casa sua.

Il rollio acuisce il dolore, come una lama che mi artiglia polmoni e gola, ma allo stesso tempo sento di essere grato ad Alessio per avermi lasciato vivere un’ultima illusione prima di affrontare la morte senza poter riabbracciare una volta ancora Rita e i miei figli.