L’Ammidia Storie di Streghe d’Abruzzo a cura David Ferrante [ALlibri]

La sinistra alessandrina strumentalizza Umberto Eco...e intanto dimentica Delmo Maestri CorriereAl 1a cura di Angelo Marenzana

 

L’appuntamento domenicale di ALlibri è con la magia del mondo abruzzese. E in particolare con l’antologia di racconti L’Ammidia (Storie di streghe d’Abruzzo), curata dallo scrittore David Ferrante e pubblicata dall’editore Tabula Fati.

A prima vista si potrebbe pensare che L’Ammidia sia destinata a un pubblico locale, che condivide codici simbolici, linguistici e antropologici esclusivamente regionali. Nulla di più errato. L’intento di questa collettanea pare proprio l’esatto contrario: da un lato il curatore si propone di promuovere la conoscenza del patrimonio di tradizioni, riti e simboli oltre l’orizzonte locale, dall’altro ha un obiettivo ben più ambizioso, ovvero una piccola rassegna del pensiero magico che si tratta. Di un mondo di storie, credenze, usi che non si intende riproporre come puro folklore, ma come testimonianza di una cultura viva, spesso ridotta a subcultura da logiche di potere e stereotipi sociali.

È il caso delle streghe e delle magare, donne che solo ricerche pazienti e la potenza dell’immaginazione hanno potuto sottrarre all’oblio, quando non a una vera e propria damnatio memoriae. Come sempre, allora, l’immaginazione offre un’opportunità. Quella della riscrittura.

Così, la narrazione muove dai dati resi disponibili dalla tradizione orale o ricostruiti dalle fonti e racconta quel che potrebbe essere stato. Ed ecco, allora, che ci si avventura in un mondo apparentemente barbaro e certamente misterioso, ma sempre affascinante.

Si tratta di una raccolta di 17 racconti di autori (non solo abruzzesi) che narrano fatti veri di processi di stregoneria, storie di guaritrici di paese, fiabe e leggende, appartenenti alla cultura e alla storia abruzzese. Fatti veri arricchiti con elementi di fantasia verosimili che ne completano la narrazione.

Fra gli autori (Fiorella Borin, Maria Elena Cialente, Marina Ciancetta, Rosetta Clissa, Adriana Comaschi, Daniela D’Alimonte, Gabriele Di Camillo, Valentino Di Persio, Carla Dolazza, Mariaester Graziano, Cristina Mosca, Anna Maria Pierdomenico, Gino Primavera, Flora Amelia Suárez Cárdenas, Patrizia Tocci, Lucia Vaccarella) sarà il curatore David Ferrante a offrire in lettura il suo racconto.

 

 

La Preta Tonna dell’Antera

 

 

«Lo Jus Primae Noctis, caro notaio Latino Stofano, è un diritto concessomi da Dio e consentitomi dal nostro Marchese, e Voi, che siete uomo di legge, dovreste saperlo. E non ho nessuna intenzione di rinunciare al mio diritto alle primizie coniugali con la Vostra fresca amorosa. Rassegnatevi. Smettetela con le Vostre preghiere chiassose e piagnose e le maledizioni frenate tra i denti: né i Vostri santi né i Vostri diavoli potranno nulla su di me. Tornate a casa e la notte del matrimonio portatemi la futura sposa, se ci tenete alle vostre pulite carcasse. Buttatelo fuori!… Ma con riguardo, è pur sempre un rispettabile.» E rise di cuore Orazio Rossi, mentre i suoi sgherri spingevano con le lance incrociate lo sfortunato fuori dal palazzo.

Stofano non avrebbe mai permesso quello sfregio all’amata. Quella stessa notte, contravvenendo a ogni principio cristiano che lo aveva accompagnato fino ad allora, attese in via Del Carro il passaggio di Rossi e gli ruppe il cranio con un colpo secco, fuggendo poi a Roma per non pagare le conseguenze del suo gesto.

Per alcuni giorni Pacentro sembrò vivere in uno stato onirico: troppo silenzio, troppo freddo, tutto troppo ovattato. La notizia del fattaccio si era diffusa ma la popolazione non sapeva se festeggiare o essere spaventata. L’attesa durò poco.

Le guardie marciarono verso la casa della donna di Stofano che, osservato dalla campagna lo strano movimento, si rifugiò nel bosco e lì stette per giorni. Horatius Russus, questa la firma sugli atti di governo, non era morto, e ora pretendeva diritto e vendetta con ferocia disumana.

Non avrebbe potuto scappare e nascondersi per sempre, la sventurata. Non ne aveva la forza, né le capacità, ma non le mancava il genio: avrebbe distrutto il desiderio che era all’origine della sua tragedia. Appese una gallina morta a un ramo e lasciò che imputridisse. Quando il fetore divenne insopportabile mise la carcassa tra le gambe per una notte e un giorno e alla sera successiva si presentò dal suo aguzzino.

«Io sono… sarei stata la moglie di Latino!»

«Vi conosco bene, giovane signora. E lui dov’è? Perché non è qui con voi?»

«Mettiamo fine a questo schifo e dimenticate mio marito!»

Ma il tanfo era così forte che impregnò tutto il letto del Rossi il quale, una volta stesosi accanto alla donna non poté far altro che scappare, scacciato dalle putride esalazioni. Correndo, inciampò per le scale; quando uscì per strada urlava parole insensate su zolfo e demonio, mezzo nudo e con il volto illividito dalla rabbia e dalla paura.

«È una strega! Ha usato un sortilegio per sopprimere la mia virilità! Si è venduta al demonio per uccidermi!»

Ma se la sua bramosia era morta, il bisogno di vendetta viveva di una voglia irrefrenabile.

La giovane donna fu arrestata, portata all’Antera, denudata e legata alla Petra Tonna: tutti dovevano vedere il volto della strega e sentire l’odore marcio dell’inferno. L’avrebbe fatta ardere al rogo, come era accaduto nel recente passato per le donne diaboliche, ma occorrevano prove. Non bastavano quel fetore e la sua temporanea impotenza. Ricordò allora una storia che girava da quasi due secoli in paese a proposito di un sabba di streghe nel quale era coinvolto, pare solo come testimone, un avo di Stofano. Il Luogotenente Rossi ordinò perciò una capillare e approfondita perquisizione nelle proprietà del notaio.

 

La culla era vuota. Quante volte il pensiero le aveva fatto rivivere quell’attimo: la pelle che avvertiva una presenza nel buio, l’aria accanto al letto agitata da un passaggio veloce, le risa di donna sulla strada e poi quell’immagine che le aveva trafitto gli occhi con una lama infuocata e squarciato l’anima con un’ascia. Produssero un suono reale, percepibile all’esterno, le ferite inimmaginabili e vigliaccamente notturne: lo sfrigolio della carne e del sangue degli occhi e quel tonfo fragoroso, come di un tronco che si spacchi in due.

«Dove sei figlia mia?»

Donna Maria de Cicco de castro Pratularum e donna Costance di Sulmona in quei giorni avevano subito lo stesso impensabile destino: a pochi giorni dal parto le loro creature erano scomparse. Accomunava le poverine anche il ricordo delle risa perverse di donne la notte della tragedia.

Erano gli anni del governo del Conte Antonio Caldora, discendente di Jacomo Caldora, che di lì a pochi anni avrebbe perso i suoi domini per mano del Re Ferrante d’Aragona per i tradimenti alla corona del Regno di Napoli. Coelum Coeli Domino, Terram Autem Dedit Filiis Hominum: il cielo al dio del cielo, ma la terra ai figli degli uomini era il suo motto.

Alla Pietra del Tomolo era stata una mattina molto agitata. La povertà spinge verso la salvezza a ogni costo, anche a discapito degli altri, e Antonia aveva dovuto stare alla gogna per aver tentato di truffare sul grano, nell’illusione di portare un po’ di cibo in più ai propri figli. La Pietra dello Scandalo era lì per questo, come unità di misura e come luogo della vergona. Era all’incrocio tra via della Porta, via Del Carro e via Delle Schiarite, a un trivio osservato da Ecate, dea della notte, dei morti, dei dèmoni, e capace di viaggiare tra i mondi degli uomini e delle divinità, dei vivi e dei morti.

Bartolomeo aveva assistito a tutti gli accadimenti del giorno e la fatica si sommava al disagio di sentirsi addosso gli sguardi della povera Antonia e della pazza del paese, che vagolava tutti i giorni sull’altipiano dell’Antera vestita solo dei resti della sua camicia da notte.

Bartolomeo Blasius era il responsabile di due dei mulini dei Conti Caldora: quello di Sotto, accanto alla Porta della Terra, di fianco alla chiesa di San Nicola, e quello di Sopra, situato qualche decina di metri più su, verso il castello.

La donna della vergona era tornata dai suoi figli. Era scesa la sera e la poca luce della luna si divertiva a gettare ombre spettrali accanto agli alberi. L’odore dell’erba, il prato come una voragine buia, i piedi bagnati della sua umidità: non c’erano più voci, né benevole né maligne. Vagava solo il vuoto della matta, solo l’orgoglio della povera donna con il sacco pieno del disonore della fame.

La luna si concentrò sul simbolo del buio: il Noce. Visibile sin dalla valle, il Noce — piantato quasi mille anni prima e lasciato in eredità dall’antico popolo Longobardo vissuto in quelle terre — da diverse notti era illuminato da un fuoco che proiettava le lunghe ombre che danzavano in cerchio: si ripetevano le scene dei racconti di quella stirpe guerriera che rinunciò alle proprie divinità nelle città dominate lasciandole ai credi del popolo di Cristo, continuando ad adorare il proprio dio, lontano dagli occhi della gente del posto. Il fascio luminoso del fuoco sembrava seguire il cammino delle due donne che si allontanavano dolenti dalla scena.

Bartolomeo era rimasto nel mulino di Sopra per delle riparazioni che non potevano attendere, e la stanchezza a un certo punto cedette al sonno. Faceva ancora molto freddo in paese, e sulla Majella la neve sembrava brillare di luce propria.

Quando la notte ammantò pietre, querce, mulini e chiese, il freddo tagliò ogni cosa con folate di vento. La luna si nascose dietro tante nuvole, le più nere che trovò.

Il persistente e anomalo vociare sussurrato fece svegliare lo stanco lavoratore che, affacciatosi da una finestrella del mulino, costrinse i propri occhi a vedere ciò che non avrebbe mai voluto, ciò che mai avrebbe dimenticato, ciò che ancora oggi viene narrato.

Seccati, ne lo nome de lo Demonio!

Esci fuori, in nome de lo Maligno!

C’era un folto gruppo di donne che provenivano simultaneamente dalle tre vie, dirette verso l’Antera. Strisciavano i passi senza che i piedi toccassero il suolo e come la matta erano vestite di brandelli di bianche sottane luride. La luce che copriva il Noce formava lunghe ombre sui loro volti, ombre terribili. Ripetevano la loro maledizione allo stesso ritmo, senza che nessuno tenesse il tempo, nello stesso timbro, allo stesso volume e allo stesso istante.

Si secchino le terre ne la valle e non diano più frutti!

Si secchi l’erba ne li prati de la montagna!

Si fermarono accanto alla Preta Tonna dell’Antera. Alcune di loro, che trascinavano tronchi, rami e ceppi li depositarono nell’aia; colei che portava una torcia infuocata la utilizzò per far ardere la legna. Tre pali furono incrociati sul fuoco a mo’ di treppiedi, e a questo venne appeso un paiolo colmo d’acqua.

Nella notte di San Giovanni le sacrileghe avevano raccolto potentissime erbe, che ora gettavano nel calderone fumante: aconitum, segale cornuta, mandragora, giusquiamo, datura stramonium, atropa belladonna…

Danzavano deliranti nella loro nenia le Streje, mentre gettavano nell’acqua bollente gli ingredienti sapientemente dosati per restare sul limine tra la vita e la morte, tra realtà e inferno, tra gravità e volo. La pelle, il corpo e gli arti, persa ogni sensibilità, si muovevano indipendenti; ogni cosa assumeva contorni sfumati e forme ondulante e il fumo acre del paiolo prese la forma di una grossa capra.

Il mulinaro era paralizzato dall’incredulità: stava vivendo una situazione che non apparteneva alle cose possibili. Riuscì solo ad allontanarsi dalla finestrella e inginocchiarsi per non essere visto. Il Demonio era a due passi dalla Porta del suo paese, dalla sua famiglia, dalla sua gente. Ma lo spettacolo più atroce e assurdo doveva ancora arrivare.

 

Unguento, unguento mandame a la Noce de Benivento

Supra ad acqua e supra ad vento

 

Le donne avevano bisogno di un unguento per volare al Sabba insieme alle altre streghe, avevano bisogno di grasso per la loro brodaglia: un gatto scorticato, una lucertola, una vipera, un rospo…

Le maledette necessitavano anche di grasso umano per raggiungere le sorelle Janare.

Due di loro estrassero da sotto la veste, quasi mimando un raccapricciante parto, due corpicini, due neonati ai quali era stata tolta la vita, durata solo pochi giorni. La capra di vapore apparsa sopra il calderone sembrò allora agitare gli zoccoli affinché le creature fossero gettate nell’acqua bollente. E così le sue puttane fecero.

 

Et supra ad omne malentempo

Unguento, unguento portaci alla Noce de Benivento

 

La brodaglia si addensò con il grasso di chi non aveva neanche avuto il tempo di essere lavato nell’acqua battesimale del popolo di Cristo e, diventata olio, fu utilizzata per ungere i corpi. Mentre il rito si svolgeva, una per volta le streghe scomparivano nel buio in una folata di vento. Correvano scalze verso il magico Noce come in un antico rito iniziatico, sotto l’albero della notte che aveva sfidato e vinto anche l’ira di san Barbato, rinascendo quale simbolo del male.

La ronda notturna che proveniva da Porta del Castello si allarmò alla vista della folla di donne alla Petra Tonna. Donne inginocchiate e adulanti, altre che danzavano guardando inebetite una nera e possente colonna di vapore, figure che sembrano dissolversi nel fumo a una a una mentre altre comparivano.

I militari corsero verso l’anomala scena, o meglio corse chi riuscì a farlo, perché in molti furono vinti dalla paura e cercarono loro stessi protezione tra le mura del castello.

Le streghe iniziarono con lentezza a raccogliere in piccoli vasi il prezioso preparato rimasto. Alcune fecero ancora in tempo a ungersi e perdersi nel buio.

Con le spade sguainate e le lance puntate i soldati cercarono di catturarle scendendo da via Delle Schiariche, ma le beffarde si voltarono e posero fine ai loro passi gettando su di loro un incantesimo malefico. Trasportata da un vortice d’aria, la polvere li investì e li avvolse, togliendo forza a ogni loro muscolo e movimento, bloccando ogni loro articolazione. Rimasero lì fermi come statue di carne e grasso.

 

Lo Maligno vi fermi sul posto

Ora! Muti ed immobili!

 

La ronda di stanza alla Torre de La Porta, udendo le inconsuete urla nella notte, iniziò a salire verso la Preta e si trovò davanti l’assurda scena. I soldati chiamarono i colleghi per nome, uno a uno, e pian piano quelli uscirono dal loro torpore. Abbassato il ponte levatoio andarono in loro soccorso.

Mentre si avvicinavano a Bartolomeo, che era uscito dal suo rifugio, si accorsero dei macabri resti di due piccolissimi corpi.

In pochi minuti intorno ai brandelli di quei due innocenti si adunarono tanti occhi, che brillavano nel buio riflettendo le fiamme delle fiaccole che illuminavano l’agghiacciante scena. La paura trasformò ogni arnese in un’arma: le donne anziane alzarono i loro scudi fatti di scongiuri, giaculatorie e preghiere; le giovani madri fecero scomparire i propri pargoli tra le braccia, stringendoli fin quasi a far loro male; tutti si segnavano con una frenesia malata, guardando il cielo, ogni campanile, ogni frate, a ogni rintocco di campana, asciugando le lacrime davanti quei corpicini bolliti: Padre, Fije e Spirde Sande!

Tutte le guardie armate erano per le strade, così come tutte le forze di Dio. Le chiese furono aperte e suonate le campane. La maggioranza della popolazione invase la chiesa di San Nicola, dove don Matheus celebrò la messa. Ma non fu il solo, l’abbate Pietro officiò nella chiesa di San Marcello e don Jacobus e don Thomas in quella di Santa Maria Battesimale.

Fece giorno anche quel venerdì, e mentre il sole iniziava la sua ascesa, le donne andavano ai Canaij per lavare i loro poveri abiti nella grande vasca e riportare a casa un po’ di quell’acqua fresca e pura che dalla montagna scendeva in paese, per poi uscirne e irrigare i campi coltivati dopo aver riempito il lavatoio e alimentato i mulini. Avevano tanto da dirsi e da raccontarsi, ma quel giorno restarono in silenzio.

La matta guardava i resti della culla vuota, nascosta da ragnatele e foglie secche che da anni entravano dalle finestre rotte. Antonia si nascondeva dai suoi figli, che le chiedevano il latte. I limpidi corsi d’acqua, che attraversavano il paese dissetando gli uomini e la terra, tentarono con tutta la forza di lavare via quella paura che soffocava gli abitanti. Ma nulla era come prima.

Bartolomeo era stato trattenuto nelle stanze dei militi del Conte per riferire i dettagli di quella notte infernale. Johannis Cocij de Aversa, l’allora Governatore dei Caldora, aveva fatto avvisare il Conte Antonio dei fatti e questi, percependo il terrore di quella notte, dopo aver consultato i suoi più saggi consiglieri, i più esperti uomini d’arme, i religiosi di Corte e anche magari, fate, astrologi e streghe di fiducia, prese la sua decisione, che fu affissa e urlata in ogni angolo del paese. Emanò il bando contro la stregoneria.

 

Banno Contra Stregarum

Homini, Religiosi et Donne de la Contea de Pacentro

È pervenuto a le orecchie de lo Segnor Conte Antonio Candora — cum soa grande preoccupazione — che a la Preta Tonna, ne lo Largo ubi dicitur Antera, a lo Trivio de le strade de lo Carro, de la Porta et de le Schiariche, et proprio avanti la Porta de la Terra, dopo la meczanocte de lo jovedí, quando piú è grande lo potere de le tenebre, se tengono li Sabba, ove partecipano gran numero de femmine seguaci de Diana, dea dei Pagani, regina della Notte…

Volendo lo Exellente Conte Antonio Caldora, in questa soa Terra di Pacentro, estirpare lo flagello della eretica pravita’ de lo Sabba de la Preta Tonna, regno di Ecate, dea de li Inferi et de Trivi, loco ove talune persone perverse dispreczano lo Altissimo, ave prescricto, ordinato et sententiato, socto pena de condanna capitale:

In primis

La nocte de ogni jovedí, la Porta de Pacentro et la Preta Tonna de l’Antera siano rigorosamente illuminate ad jorno da le fiamme de le torce;

Secundo

Pe impedire che le Streje de Pacentro partecipano a lo Sabba de lo jovedí, et a quille de fuori di entrare ne lo paese, se sparga de lo sale benedicto fora la Porta de ista Terra de Pacentro et lo si raccolga la mattina pe lo riutilizzo ne li jorni de li Sabba;

Tertio

Se pianti uno grande crocifisso benedicto veccino la Preta Tonna ad lo fine de tenere lontano Streje, et Stregoni et Demoni;

Quarto

Tucte li costi dicti de torce, de sale benedicto et altro occurente sarra’ pagato da la Universita’ de Pacentro;

Quinto

Tucte le Streje capturate et confesse debbiano essere condannate ad morte et bruciate vive cum lo foco;

Sextio

Li Homini de Arme de guardia a la Torre de la Porta de la Terrae de Pacentri sono incaricati de la predicte cose.

Sia laude a Dio.

 

Questi fatti avvenivano fuori le mura di Pacentro nella notte tra il 4 e il 5 marzo 1450.

Fu per secoli narrazione orale del popolo ed ebbe conferma nell’atto notarile denominato Declaratio pro Bartolomeus Blasius, redatto dal notaio Ottavio Rossi, inerente il sequestro di “una carta antica assai”, ordinato da Orazio Rossi stesso: Pro Dominus Militum Horatius Russus, 2 settembre 1653.

Nonostante i fatti avvenuti e i documenti in suo possesso, il Luogotenente non riuscì a convincere nessuno della stregoneria della donna che, dopo un’intera notte alla Petra e alcuni giorni di segrete, fu liberata. Per tutti il male era lui.

Ma Stofano doveva morire. Ora aveva due colpe da espiare: il tentato omicidio di Rossi e l’affronto della sua donna ai danni del Luogotenente. Quest’ultimo inviò a Roma il fedele sicario Rubinio, il quale riuscì a scovare il condannato, farselo amico e ottenere la sua fiducia.

Stofano fu convinto dalle parole del suo nuovo compagno, anche lui di Pacentro, che come lui odiava Orazio Rossi — che ora sapeva vivo — e che come lui voleva estinto.

«Dobbiamo tornare nella nostra terra e accoppare quel demonio!» gli disse.

Sì, doveva tornare all’adorata terra che tanto gli mancava e riabbracciare quella donna che avrebbe già dovuto essere sua moglie.

Seguirono mesi di piani e sogni, e finalmente tornarono a Pacentro, ma giunti a via Del Carro, non molto distante dall’Antera, proprio nel luogo che due anni prima aveva visto l’attentato a Rossi, Stofano perse la vita per mano di Rubino. Il sicario portò, come da ordini ricevuti mesi prima, la testa del notaio al mandante, che neanche lo ringraziò: «Devono morire tutti. L’intera stirpe sua e di quella strega maledetta siano trucidate!» gridò.

Rubinio ubbidì ancora una volta.

Solo un bambino di due anni si salvò, grazie a un monaco di Santo Spirito a Majella che lo nascose e lo portò al monastero di Caramanico, dove restò fino a quando volle tornare alla terra materna. Il bimbo era figlio della donna e del notaio, frutto dell’amore consumato prima del matrimonio per il timore di quell’assurdo diritto della prima notte, ostinati entrambi a volerlo disattendere a ogni costo. La dinastia di Stofano perciò proseguì, anche se scomparve nel nome.

 

A secoli di distanza, un suo discendente corre scalzo, gne li zinghere, lungo la parete del colle Ardingo fino ad arrivare a Pacentro nella chiesa della Madonna di Loreto.

È stata una mattina strana, quella che ha preceduto la gara. Sua moglie silenziosa, con un sorriso statico, lui logorroico, con le parole che gli coprivano gli occhi e le orecchie: parlava freneticamente senza ascoltarsi e vivendo già la corsa. In paese è un onore e una gioia partecipare una volta nella vita alla Corsa degli Zingari, e così è anche per il giovane padre.

Raggiunge la Petra Spaccata prima degli altri quel pomeriggio, annusa l’aria leggera, guarda quegli spazi infiniti soffermandosi con lo sguardo sul suo paese e sul campanile del suo traguardo, e attende il suono della campana.

Inizia la competizione, e giù lungo i prati, sulla breccia, tra gli alberi, come un fauno. I piedi feriti dalle pietre, in segno di pentimento: ogni sasso, ramo reciso o rovo sono cicatrici della sua devozione. Al giro dell’albero di metà percorso, con la testa alta e fiera, il moderno guerriero nasconde le dolorose fitte come un antico giovane che correva verso l’età adulta per dimostrare di essere il migliore della truppa, come l’antico longobardo che girava l’albero da cui pendeva la capra in devozione del suo dio, intorno a quel fuoco che allungava le ombre rendendole altissime, terrificanti: che sembravano streghe. Poi la salita, e le piaghe fresche che scivolano sul pietrisco che si bagna di sangue, mentre il sudore trova il suo percorso tra le pieghe del viso e della sofferenza.

Davanti alla porta della Madonna di Loreto c’è lei, sua moglie, pallida, smarrita e tremante. Finge un sorriso, è fiera di lui, ma la disperazione è assoluta. Il drappo della vittoria è del suo uomo. Quel simbolo di potenza che fu veste per li zingare, ora è il palio del suo giorno di gloria, ma esso non può asciugare il sangue che sgorga invisibile dal cuore della moglie. Davanti alla casa della Vergine, che vide suo figlio ucciso dall’umana cattiveria, manca sua figlia, la discendente di Bartolomeo.

Felice a terra, mentre gli curano i piedi martoriati e celebrato dai suoi amici, cerca gli occhi di lei. Vuoti, spalancati. «Cos’hai?»

Non è riuscita a rispondergli.

Ora, mentre i pacentrani festeggiano suo marito, la donna si ritrova lì, rapita dall’immagine di san Francesco che salva un bimbo che alle sue spalle il demonio getta nel paiolo appeso al fuoco. Chissà per quanto tempo è rimasta nel convento in piedi davanti a quell’affresco. Cercava aiuto dai monaci, ma quel dipinto le riporta alla mente tutti i fatti che da secoli si raccontano in paese.

Ogni mattino trova sua figlia a terra accanto alla culla. La piccola è sempre più magra e bianca, come se qualcosa la stesse prosciugando. Quella mattina è scomparsa ed è stata ritrovata dopo ore sull’erba accanto alla Petra Tonna dell’Antera.

E tutte le notti quelle risa soffocate di donne. Realtà e superstizione stanno distruggendo la giovane madre, in egual misura.

«Padre, ma perché a mia figlia?»

Ignara della discendenza da Bartolomeo e dei fatti accaduti quel maledetto 5 marzo 1450, paga ancora nella carne e nel sentimento, innocente come erano stati innocenti i neonati strappati alle culle in un tempo lontano, come è innocente la sua creatura.