Legami criminali di Pino Casamassima

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A cura di Angelo Marenzana

 

«La narrativa è per me una  valvola di sfogo. Una sorta di vacanza che mi consente di liberare la fantasia, sempre tenuta a freno nei miei lavori di carattere storico. Come le precedenti, anche questa fiction è nata in modo inatteso, quasi da sola, con un’idea sviluppatasi velocemente per una suggestione geografica sulle colline gardesane, dove vivo. E siccome mi occupo da quasi vent’anni di terrorismo e lotta armata fino a ricevere una convocazione dall’ultima – inutile – commissione parlamentare sul caso Moro, in questa narrazione non potevano mancare le Brigate rosse…».

 

Così si presenta Pino Casamassima, ospite di ALlibri e autore del romanzo Legami criminali recentemente pubblicato da Armando Editore. In veste di g professionista scrive per il “Corriere della Sera”, “Focus Storia”, “BBC History”. Al suo attivo una quarantina di libri, alcuni dei quali tradotti all’estero, Cina compresa. Per il teatro ha scritto una ventina di testi, fra cui i monologhi da lui stesso interpretati. Fra un saggio e un altro si confronta con la narrativa: questa è una delle volte (più felici).

Casamassima vive a Gardone Riviera e proprio in un borgo sulle colline del Garda ha scelto di ambientare il suo romanzo. Siamo nel gennaio 1971. Un anziano, un solitario d’origine toscana i cui unici interessi sono la caccia e il suo orto viene ucciso. Molti anni dopo, un’unica mano compie una serie di delitti anche oltre i confini italiani, mentre una banda armata viene sgominata dopo la sua ultima, clamorosa azione a Milano. Tutto appare slegato nel tempo e nei luoghi. Ma questa è solo l’apparenza. Con una scrittura che intreccia più generi e più forme narrative, Casamassima costruisce una storia che ne contiene diverse, seppure tutte riconducibili a un’unica genesi.

Buona lettura con l’incipit di Legami criminali.

 

 Sabato 11 gennaio 1971, tardo pomeriggio

 

Nevica amo’. Si scostò dalla finestra. A passi lenti raggiunse il camino. Com’ la sera dela Befana. La sera dei milioni della televisione. Scaraventò i guanti nel fuoco. Che aveva poi divorato il resto, scarpe comprese. Aveva sempre tirato bene quel camino. Dai tempi di suo nonno, che lavorava nei campi, dove passava la giornata sotto quel cielo che di tanto in tanto scrutava. Si drizzava sulla schiena, nonno Gianni, s’asciugava il sudore con un fazzoletto rosso a pois bianchi, e l’interrogava, il cielo. Perché poteva bruciare mesi di fatica. Ogni tanto gettava lo sguardo oltre i campi, e se passava anima viva, strizzava gli occhi. Mano sulla fronte, cercava d’indovinare chi fosse per l’andatura o per ciò che portava con sé.

Poi tornava a incurvavarsi sul lavoro. Puliva un germoglio, sradicava un’erbaccia, parlandoci pure, con la fatica. Quando doveva parlare invece con un cristiano, gli balbettava il pensiero, ché non era abituato a cianciare con gli estranei. Se gli capitava d’infilare una frase intera o addirittura mezzo discorso, era grazie a qualche bicchiere di rosso che l’aveva incoraggiato in un giorno di festa. Era morto in quel campo, nonno Gianni. Cuore forte, ma vecchio. E stanco. Il ricordo svanì con una fiammata. Consumato e gettato via. Come la scorza d’un serpente dopo la muta. Nascose il biglietto nel fondo di un cassetto, fra la biancheria. Infilò il bagno. Non era passata un’ora.

I primi fiocchi avevano cominciato a cadere dalle prime ore della mattina. Moglie e figlia erano andate da sua cognata. Per aiutarla a… A fare? Boh. Doveva raggiungerle l’indomani. Breve tregua della neve attorno a mezzogiorno. Spazzaneve al lavoro. Con puntuale solerzia. Quando era uscito di casa per andare dal Bepi per quella cuccia che doveva vendergli, la strada era libera. Nel tragitto pensò ancora a quanto mettergliela, quella cuccia, che a lui non serviva più perché Furio era cresciuto e ce ne voleva una più grande. Quella l’aveva rimediata sua moglie, col cane regalato alla loro figlia. Ma i pastori tedeschi crescono. Assai, pure. Per il Bepi sarebbe andata bene, con quello scherzo di cane che si ritrovava.

«Caffé?». Sì che lo voleva. Una liturgia, il caffè, sennò veniva male. Il Bepi aveva preso le tazzine, quelle con i fiorellini azzurri. Una cosa «a modino», insomma. Come piaceva a lui. A modino, appunto. Toscano, il Bepi. Arrivato a San Michele da ragazzino, sul finire del novecentodieci. Suo padre, Egidio Bracali, funzionario del dazio, era stato trasferito a Salò e grazie a qualche conoscenza di quelle giuste che s’era fatto subito, aveva saputo di quella casa in vendita a San Michele. Un affare, anche per i lavori di sistemazione per i danni del terremoto del novecentouno, quello che aveva devastato mezza Salò. Sei mesi dopo, la famiglia Bracali aveva lasciato la casa in affitto al cosiddetto Muro, zona chiamata così per quel muro che costeggiava la via per metà della sua lunghezza e che era quel che restava della cinta della cittadina. Suo fratello Luca, più grande di lui di tre anni, qualche tempo dopo – sarà stato il novecentosedici, diciassette – aveva preteso una moto. Suo padre l’aveva presa usata da un meccanico.

Luca s’era schiantato, con quella Gilera. Una sera di pioggia, davanti al Casinò di Gardone Riviera. Il Bepi era rimasto figlio unico. Non una volta che passasse davanti a quel Casinò segnato negli anni da chiusure e aperture e usi diversi, cinema compreso, senza maledirlo. Suo padre, un depresso senza rimedio, fino a che un infarto se l’era portato via con tutti i suoi rimorsi. L’unica panacea per il vecchio Egidio, il dolore. Gli faceva compagnia da quando apriva gli occhi su un nuovo, inutile mattino, fino a che li chiudeva su una nuova notte di incubi. Tutti in bianco e nero. Tutti con Luca, che però non appariva mai. Alla fine aveva gettato la spugna. Una domenica, prima d’andare alla funzione delle 8 con sua moglie. Che gli era sopravvissuta per oltre dieci anni, vedendo invecchiare il figlio che le era rimasto, il Bepi, che non s’era mai sposato. Era rimasto con lei, e quando era morta, s’era ritrovato vecchio pure lui. Quella fascina d’anni che gli gravava in groppa l’aveva vista riflessa nello specchi del bagno la mattina dopo il funerale. Fibra da toro, sua madre. Tempra dura, gente d’appennino. Il Bepi aveva poi sempre campato da solo. Avevano cominciato a chiamarlo così, Bepi, i compagni di scuola, ché Giuseppe era troppo lungo. Bepi. E Bepi era diventato per tutti, per sempre.

«Goccino?» aveva detto il Bepi cavando una bottiglia color acqua dalla credenza.

«No, niente grappa, grazie Bepi…» aveva risposto spegnendo l’ultima sigaretta nel grosso portacenere in onice blu sporco di quel che restava di un toscano. Era stato allora che l’aveva visto. Un biglietto. Sotto il grosso vaso di onice blu gemello del portacenere, sempre desolatamente senza fiori. Un biglietto della lotteria.

«Che fèt» aveva chiesto al Bepi sfilandolo da sotto quell’ammasso di onice, «te conservet i bigliet vèc?».

«Vecchio? Ma mi garberebbe assai l’esser vecchio come quel lì!» aveva risposto il Bepi mentre recuperava la caffettiera dallo scolapiatti. «Cento milioni! Cento milioni vale quel vecchio lì!». Lui l’aveva guardato come in trance. Come si guarda un’onda al mare che sta per sommergere un ragazzo e tu sei lì, sul bagnasciuga, impotente. Paralizzato dall’imprevisto. Vedeva il Bepi compiere tutti quei gesti necessari, ma gli appariva come quel tavolo, quel vaso d’onice. Incapace anche di pensarla, una sola parola, ché i pensieri s’erano tutti rintanati in una caverna lontana, impervia e irragiungibile. «Homprato quando s’è andati a caccia in Iugoslavia col Fausti’. Ci s’era fermati in autogrill e dopo i haffè s’era bighellonato un po’. Guardando qua e là. S’era homprato di questo e di quello, sai home va in quei postacci dove s’entra per un haffè e s’esce co’ mille hazzate. E alla hassa ‘na bela passera, ‘na bela ciuffalona…»

«Eh?»

«Ma sì, ‘na mezza hippy ma bela però… ‘na bela passera… dice: “I he lo vole ‘n bijetto della lotteria, signore?” Cinquecento lire e via! E s’è homprata la furtuna, diobbono!».

Già, la fortuna. Il cervello, un ammasso inutile di celluline grigie, come diceva quello lì, quello di quel giallo che gli aveva passato sua moglie. Era salito sulla giostra della demenza, il suo cervello, e da lì pareva non voler scendere più. Meglio star lì. Per non soffrire. Finché restava così, nessuna sinapsi. E quindi nessuna sofferenza. Invidia? Ma va! Non era invidia. Era dolore. Era ingiustizia, era tutto quello che poteva odiare.

 

“Quante saranno state le volte che sei uscito da San Michele, brutto scemo? E quella fortuna bastarda e vigliacca va a baciare il culo proprio a te!”

 

Mentre accendeva il gas, mentre il caffè era venuto su gorgogliando, mentre aveva fatto tutto quello che andava fatto quando si offre un caffè, il Bepi aveva continuato a parlare. Parole inutili, come la maggior parte delle parole. Parole felici, parole indolenti, parole stupide. Parole che gli erano scivolate addosso come un vento inutile, fastidioso. «Ti ha capito?» aveva detto infine il Bepi. E sì, lui gli aveva detto che sì, che aveva capito. E gli aveva detto pure che era stato bravo, proprio bravo quella sera, la sera dell’estrazione della Lotteria. «Ta ghè fat bè, propre bè a fa’ finta de gnent…». Quel maledetto porco aveva fatto finta di niente. Aveva controllato il suo biglietto senza tradire la minima emozione. Fra le bestemmie e le mandate a fanculo a Corrado e alla Carrà. Tutti, ma proprio tutti, a quel tavolo, chi più chi meno, avevano stramaledetto la fortuna. Quella «cazzo di fortuna che la varda mai da la me’ parte». Lui, il Bapi, era rimasto impassibile. Ora che faceva mente locale se lo ricordava. Imbalsamanto, come la volpe che teneva in camera da letto sopra il comò. Poi, mica tanto dopo, s’era scolato un bicchiere di vino e aveva concluso che s’era fatto tardi. «Si va a casa, suvvia!».

 

Chissà come aveva goduto poi, una volta solo. Da quell’orso che è. Ma che se ne fa di tutti quei soldi uno come lui! Un vecchio che vive solo e che pensa solo alla caccia. Che ci compra? Continuerà a fare la sua vita grigia, inutile. Niente moglie, niente figli, nessun fratello. E tutti quei soldi? Alla fine, ai preti.Si sarebbe comprato il paradiso, con quei soldi. E quei preti, quei preti ruffianii glielo avrebbero garantito. Un’indulgenza plenaria con biglietto. Un colpo di fortuna,  anzi, una vera e propria e ingiusta botta di culo! Facevano effetto tutti insieme quei soldi per chi ogni schifosissima lira se l’era conquistata come un trofeo alla fine di una corsa con una palla al piede. Vaffanculo, Bepi! Vaffanculo!

 

Fissò i guanti. Da quando era arrivato dal Bepi non se l’era ancora sfilati. Pure il montone gli era rimasto adosso.

«E perché te ‘l diset a me de chei soc?»

«Perché ho hambiato idea. Quelli he nun dihun nulla il l’è perché i so’ egoisti, i’ so. I vogliono godersi quei soldi tutti da soli… he se ne faranno, poi! No?»

«…»

«Domani lo si dice a tutti, suvvia! A tutto ‘l paese. Offro ‘na cena a tutti al Pierolì e poi si hompra un’ambulanza… E na harrozzina nuova alla Rosetta, poveretta, hai visto com’è honciata quella che c’ha? La si butta via e la si hompra nova nova.»

«…»

«Beh, poi mi verrà in mente altro. Di sicuro, sistemo l’impianto elettrico he nun l’è più a norma, nun l’è… poi… poi…boh… parleò hon don Armando, per i poveri…»

 

Fu allora. Successe tutto di colpo. Su don Armando. Nessuna esitazione, nessuna remora. Nessun freno inibitore. Aveva agguantato il vaso. Anzi, aveva visto il suo braccio scattare e la sua mano afferrare due chili di onice blu. Come non fosse lui. Come se quel braccio, quella mano non fossero i suoi. Quel blu era poi crollato sulla testa del Bepi. Aumentato di un chilo per ogni frustrazione, ogni delusione, sacrificio, rinuncia, mortificazione, sofferenza, dispiacere accumulatisi anno per anno, fino a diventare una montagna. Una discarica di dolore. Con tutta l’immondizia accumulata in una vita inutile. Con i giorni a inseguirsi sempre con lo stesso grigiore, anche quando il sole spaccava, quando s’infilava pure nelle cantine. Come quando un giorno finisce con la stessa nebbia con cui s’è levato. Senza luce, solo un piattume più bianco al mattino e più scuro alla sera. Una vita di niente. Cento milioni. Cento milioni! Avrebbe ricominciato da capo. Ricominciato? Cominciato! Cominciato! Ché la partenza, quella vera, non c’era stata mai.

 

Su quei pensieri s’era stesa una melodia liquida, divina. Come un’acqua che se ne frega d’ogni cosa che incontra. Un’acqua che travolge tutto. Una musica armoniosa. E d’improvviso, dal camino era uscito un uccello. Un uccello orribile. Arrivato dai buchi neri della follia. Aveva svolazzato sulla testa del Bepi. La testa colpita una, due, dieci volte da quel blu di morte. E poi, quando tutto era finito, aveva infilato le zampe su quella testa rotta e aveva inziato a tirar su pezzi di cervello con quel becco di bronzo, quel becco feroce. Le piume lorde si sangue, s’era poi appoggiato sulle sue spalle. Piumaggio sudicio di Bepi e di mistero. Piume grigie e verdi, le zampe artigliate, taglienti, rasoi. Il ventre gli si gonfiava e sgonfiava. Come un rituale. Un rapace di vita. Grande, pesante. Osceno. Dallo sguardo umano. Di donna. Una testa di donna col becco d’uccello e i capelli di vipere. Un mostro. Era rimasto lì, addosso a lui. Ora fermo. Prima aveva sbattutto le ali e lanciato urla stridule ogni volta che l’onice s’era infilato in quella testa. Finché il Bepi aveva vomitato la vita. Sparsa per terra, in grumi rossi. Materia gelatinosa e pezzi di onice blu. Schegge infilatesi sotto il tavolo, la cucina, quel mobile di noce nato insieme alla casa. E pure l’anima del Bepi era finita là sotto. Come una scopa abbandonata in un angolo, con la sua saggina divorata da un pavimento rosso e sconnesso.

Per la stanza s’era infine alzato quel canto rimasto fino a quel momento come una canzone scappata da un condominio lontano e precipitata su una spiaggia deserta. Un canto che aveva sentito crescere pian piano prima di vedere quelle grandi ali che sbattevano contro l’uscio.

Un canto che anche dopo aveva continuato ad aleggiare sulle loro teste, la sua e quella fracassata del Bepi. Un canto mostruosamente incantevole. Il canto di un essere che aveva compiuto il suo dovere ed era volato via, raggiungendo le rocce su cui stavano altri esseri, altri mostri. Reduci da altre missioni o prossimi a compierle. Chi a Nord, chi a Sud, chi dove nasce il sole, chi dove tramonta. Appollaiati, in silenzio, sopra un oceano di uomini ignari dei loro destini, che vivono sparsi per il mondo, in paesi distanti, ma tutti intuibili dai loro occhi puntuti. E se non fossero stati loro, i marinai più audaci, a passare davanti alle loro acque di suggestione per affogarvi, sarebbero stati loro, quegli esseri mostruosi, a raggiungerli per porre fine a giorni consumati su selciati presidiati dall’ambizione.

Come i cacciatori studiano la selvaggina, quei predatori della mente umana attendono immobili le loro vittime, che riconoscono per la loro pelle che puzza di sfida al Fato. Emanano vita superflua. Uomini inquieti e vogliosi di cambiamenti non autorizzati. Uomini posseduti dal desiderio di sconfinamenti della loro esistenza. Che spiegano le vele di un’incoscienza scambiata per audacia o, peggio, per diritto. E, ignavi dei pericoli dei venti sconosciuti, s’inoltrano nel futuro. Uomini che hanno perduto la chiave dello scrigno della quiete e si lanciano fra le onde dell’ignoto, pronti a uccidere per rubare i rubini all’universo, i diamanti alla gloria, senza sapere d’andare incontro alla loro fine. Perché non sanno che quell’incantamento predatorio sarà mortale. Non sanno che la nostalgia non sarà loro concessa perché il tempo non gli apparterrà più. Che quel canto melodioso e inumano che s’allontanava, annunciava la loro perdizione, non diletto.