La “via della seta” nell’alessandrino: muron, bigàt, filatoi e tessiture. Se ne parla mercoledì al Museo della Gambarina

Sabato alla Gambarina si parla di Caporetto con Arrigo Petacco e Aldo Mola CorriereAlIl Club per l’Unesco di Alessandria, in collaborazione con gli Amici del Museo della Gambarina organizza per mercoledì 12 febbraio alle ore 18, presso il Salone del Museo Etnografico “C’era una volta” (piazza Gambarina, 1 Alessandria) un approfondimento sul tema “La “via della seta” nell’alessandrino: muron, bigàt, filatoi e tessiture”.

L’intervento è realizzato nell’ambito delle iniziative legate alla dichiarazione, avvenuta nello scorso 2019, di Patrimonio dell’Umanità per la via della seta, percorso millenario dalla Cina fino all’Europa, che ha contraddistinto per secoli viaggi, incontri, relazioni, scambi fra popoli e costumi diversi.

Nell’appuntamento di mercoledì 12, si porrà l’accento sul nostro territorio e sul suo rapporto con la seta, un tessuto che si ottiene dalla coltura del baco – il bombyx mori – particolarmente diffusa nelle nostre campagne fin verso la metà del Novecento. Così come particolarmente intensa era la coltivazione del gelso, pianta le cui foglie erano utilizzate per alimentare i bachi durante la loro esistenza.

Ma si parlerà anche di filande e filatoi, presenti nell’alessandrino, anche con particolari modalità organizzative pre-industriali.

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L’iniziativa, organizzata da Micaela Pittaluga per il Club Unesco e da Elena Garneri per gli Amici del Museo, partirà da un momento particolare della nostra storia: il periodo napoleonico. A parlarne è stato chiamato Piercarlo Fabbio, che ha così colto l’occasione per un’anteprima del nuovo libro che sta scrivendo con Teseo Sassi, il cui titolo è rivelato proprio per quest’occasione: Alessandria di Marengo, vita quotidiana all’epoca di Napoleone.

Chacho Marchelli ed Elena Garneri leggeranno una poesia di Giovanni Rapetti dedicata alla coltura del baco.

Piercarlo Fabbio e Teseo Sassi (con la consueta collaborazione di Mauro Remotti), metteranno anche a disposizione qualche pagina del loro nuovo libro. Pagine appunto dedicate alla coltura del baco da seta, al ruolo delle donne e ai tanti modi di dire che si sviluppano dall’allevamento domestico del baco.

Di seguito qualche passaggio del nuovo libro:

Teseo. (…) Non era da disdegnare anche la produzione di canapa un poco per tutto l’agro alessandrino. Ma la bachicoltura, nonostante la frammentazione organizzativa dovuta all’iniziativa familiare della coltivazione o la diffusione di malattie dei semi di baco, che ciclicamente mettevano in crisi la produzione, era l’attività più perseguita.

Piercarlo. E anche quella che si prestava più facilmente ad un ciclo artigianale o proto-industriale di scambio e trasformazione attraverso filande e filatoi, che si erano localizzati alla periferia di Alessandria. I rifiuti inquinanti degli opifici addetti alla trattura della seta finivano nelle canalizzazioni della città oppure andavano a riempire i vecchi alvei fluviali ormai diventati paludosi, generando olezzi maleodoranti e focolai ammorbanti. Ritornando all’allevamento, l’impiego di capitale iniziale era basso, quindi alla portata di molte famiglie contadine, e le strutture, a partire dai commessi venditori di seme, dai mercati delle foglie di gelso e dei cucalen o dei bigat, passando attraverso le filande per giungere ai filatoi, comunque reggevano in maniera stabile, pur se condotte a carattere stagionale.

 Teseo. La produzione della seta, come ho detto sopra, si era incrementata durante tutto il Settecento: negli anni che vanno dal 1724 al 1730 i fornelletti erano circa 160. A fine secolo, nel 1783, Alessandria ne contava 1080. Ogni fornelletto trattava 38 rubbi di bozzoli. In pratica si lavoravano circa 3650 quintali di bozzoli nelle filande urbane e a fine secolo si stabilizza sul territorio intorno alla città una produzione di circa 500 mila rubbi, cioè oltre 40 mila quintali. La presenza di filande era un ulteriore elemento di attrazione per le persone, che tendevano ad avvicinarsi così al posto di lavoro.

 Piercarlo. Le campagne quindi erano assai diverse dalle odierne, piatte, squadrate, senza intoppi, fatte apposta per essere solcate da potenti mezzi meccanici. Nel tempo che raccontiamo, il gelso trapuntava in lunghi filari la pianura, di norma collocato sui confini tra un campo e l’altro, tra un coltivo e l’altro, tra una roggia ed un’altra. Li accompagnavano le viti e gli alberi da frutto, i salici bianchi (le “gabe”), i pioppi, gli olmi. I gelsi si contavano a milioni.

Teseo. Per Castellazzo, l’antica Gamondio, borgo fondatore di Alessandria, si possiede qualche dato interessante:

“Da un calcolo approssimativo, (…) possiamo affermare che nel territorio del nostro Comune, il numero di gelsi si aggirava tra 1.500.000 e 2.000.000 di unità. Inoltre la qualità della foglia era ottima perché si otteneva una seta di particolare lucentezza. ‘Da tutti i paesi d’oltre Orba venivano a vendere la foglia, ma i prezzi, per loro, erano più bassi, come pure quelli dei loro bozzoli perché la foglia non era carnosa come la nostra’” (Re Reposi Milena, La seta a Castellazzo Bormida, Alessandria, 2009, pag. 12)

Piercarlo. I gelsi venivano coltivati a fusto basso e vuotato nel mezzo attraverso la potatura. L’imponente ramificazione che se ne ricavava gettava e metteva la chioma in Primavera, a disposizione per essere utilizzata proprio quando le foglie giovani erano più tenere e il Bombyx mori, il baco da seta, ne avrebbe fatto luculliane scorpacciate.

Il gelso si riproduceva attraverso i semi contenuti nelle gelsomore, bianche o nere a seconda del tipo di gelso. Il Morus Alba aveva foglie più tenere, ma meno sostanziose; il Morus nigra, produceva foglie più dure, ma più nutrienti.

Teseo. Il “muron” era considerato un albero strepitoso visti i molti impieghi della sua struttura. Con le gelsomore, dolcissime, si potevano fare squisite marmellate oppure un particolare sciroppo. Il gelsolino era invece una fibra robusta, che si usava per cordami, come fibra tessile o addirittura per fogli di carta. Dalla sua potatura o dal suo abbattimento se ne ricavava un legno dai mille usi: come combustibile per le stufe a legna o per i caminetti, per costruire robusti carri, secchie, botti o fusti per il vino, in quanto non lasciava gusti alla bevanda. (…)