La partita del secolo [Lettera 32]

di Beppe Giuliano

 

Cifra tonda. Capitolo 2

Giugno ‘70, Stadio Azteca, Italia-Germania 4-3

 

Primo tempo

Messico e nuvole

Chi lo sa come fa

quella gente che va fin là

a pronunciare un sì… mah!

(…) Queste son situazioni di contrabbando

a me non sembra giusto neanche in Messico, ma perché?

Messico e nuvole la faccia triste dell’America…

 

Qui da noi il Messico era soprattutto il posto dove andavano a sposarsi gli italiani che si rifacevano famiglia quando ancora non c’era la legge sul divorzio – vedasi canzonetta scritta da un avvocato astigiano allora quasi sconosciuto e cantata nel suo modo stralunato dal Jannacci giusto nel 1970.

Tra gli sposi messicani: Fausto Coppi con Giulia Occhini la “dama bianca”.

Poi, certo, il Messico era il posto delle cinematografiche rivoluzioni: viva Villa! viva Zapata!

Infine: le Olimpiadi del ’68, le prime in altura ma anche le prime in cui la politica tornò con decisione nello sport.

“Ho spiegato che su questa terrazza l’unico punto in cui si poteva cercare un pochino di protezione era sotto la balaustra, sotto il muricciolo, e sotto il muricciolo si sono messi tutti questi poliziotti col guanto bianco e le rivoltelle in pugno, puntate contro di noi e noi, che eravamo i detenidos, gli arrestati, siamo stati messi invece dalla parte del muro. Così eravamo un bellissimo bersaglio per quelli che sparavano dalla piazza, dall’elicottero, eravamo un bersaglio per tutti.” Le Olimpiadi furono precedute dal massacro di Piazza delle Tre Culture. Ce lo raccontò Oriana Fallaci che era là e per l’Europeo scrisse reportage pieni di pathos di cui era, naturalmente, l’assoluta protagonista.

Noi, tra tanti straordinari atleti scoprimmo Giuseppe Gentile, nipote del filosofo Giovanni, laureando in legge, che passò da primatista mondiale a medaglia di bronzo in pochi, folli, salti tripli.

Lo scoprì anche Pier Paolo Pasolini e Gentile passò, altre follie, dalla pedana in tartan al grande schermo, co-protagonista di ‘Medea’ con la divina Callas, “una donna fragile, e molto dolce” nel suo affettuoso ricordo.

Probabilmente anche loro erano davanti al televisore, a mezzanotte ora italiana, tra il 17 e 18 giugno 1970 quando sul terreno dello stadio Azteca entravano le nazionali di calcio di Italia e Germania.

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Secondo tempo

Ossessione 70

Domenghini e Mazzola

Boninsegna e Rivera

in panchina

in panchina

con Zoff

Quando a mezzanotte ora italiana sul terreno dello stadio Azteca entrano le nazionali di calcio di Italia e Germania, Gianni Rivera siede “in panchina, in panchina con Zoff” come dice la canzone ‘Ossessione 70’ scritta da Fausto Cigliano nei giorni del mondiale e interpretata addirittura da Mina, la “tigre di Cremona” (ah, la meraviglia dei soprannomi che si coniavano allora).

Noi, come da definizione di un giornalista belga, abbiamo fatto la “caisse d’epargne” nel girone, superato con un misero golletto, una ciabattata di Domenghini all’esordio contro la Svezia. Poi però ai quarti di finale contro i padroni di casa abbiamo dominato: 4-1 e tre gol nel secondo tempo, quando il commissario tecnico Valcareggi si è inventato la staffetta tra Mazzola e Rivera.

Giusto per i più giovani, visto che sono passati cinquant’anni, per quanto mi possa sembrare incredibile: Sandro Mazzola, figlio di Valentino capitano del grande Torino perito a Superga, mezzapunta con il fiuto del gol, era diventato da giovanissimo (si fece crescere i baffi per sembrare meno ragazzino) uno dei protagonisti dell’Inter che negli anni sessanta vinceva in Europa e nel mondo, fin dalla doppietta al Real Madrid nella finale del Prater di Coppa dei Campioni.

Gianni Rivera, nato a Valle San Bartolomeo dal rapporto ormai non facile con Alessandria e gli alessandrini, enfant prodige, aveva anche lui già vinto due Coppe dei Campioni con l’altra squadra di Milano, nel decennio in cui San Siro era davvero la capitale mondiale del calcio. Centrocampista dai piedi buonissimi, grande visione di gioco, il sommo Brera l’aveva etichettato “abatino” criticandone il non eccelso atletismo ancor prima di un presunto scarso coraggio (il “pallido prence mandrogno”).

Milano era spaccata in due, la stampa sportiva era spaccata in due, l’Italia era spaccata in due: con Sandrino o con l’abatino. Il saggio “zio Uccio” Valcareggi, che per conservare l’equilibrio della squadra non poteva rinunciare al fosforo del centrocampista “Picchio” De Sisti né ai polmoni di Angelo Domenghini, tornante di quantità e qualità appena laureatosi campione d’Italia con il Cagliari di “Rombo-di-tuono” Gigi Riva (ci torneremo, sullo scudetto cagliaritano), varò dunque la “staffetta”: dentro nel primo tempo, quando si correva di più, il maggiormente atletico nerazzurro, poi calati i ritmi spazio ai piedi buoni del rossonero.

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Sui quotidiani, in quei giorni:

“Tre grammi di una polvere misteriosa sequestrati in casa di Chiari e Luttazzi”. Inizia una lunga trafila giudiziaria con i due arrestati e Lelio Luttazzi, celeberrimo presentatore della ‘Hit parade’ radiofonica, vittima di un errore giudiziario che avrà gravi conseguenze sulla sua carriera e sulla sua vita.

Tra i resoconti della nostra vittoria col Messico e l’attesa per la semifinale con la Germania, si trovano su ‘’Stampa Sera’ pagine intere dedicate all’avvelenatrice innamorata di Ciriè. Il giallo del cianuro nel fernet appassiona i lettori: Enza, studentessa ingenua, è vittima di uno sfruttatore e, dopo la tumultuosa relazione con un industriale, il primo la ricatta il secondo minaccia di ucciderla. Così lei, che nel frattempo ha trovato un promesso sposo, corregge col cianuro il fernet ma un’altra persona, non l’industriale, beve il liquore.

Una breve dello sport ci informa che “Nicolò Carosio ha avuto una “disavventura” televisiva per aver definito “negraccio” il guardialinee etiope che ha annullato il gol di Riva in Italia-Israele. Per questo motivo Carosio non ha più commentato le telecronache della Nazionale italiana ai mondiali.”

Quando a mezzanotte ora italiana tutto un Paese siede davanti ai televisori in bianconero, si ascolta infatti il racconto della partita fatto da Nando Martellini.

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Tempi supplementari

Italia Germania quattro-a-tre.

Raccontarla di nuovo oggi non avrebbe senso, anche se vale la pena ricordare almeno che:

– Segniamo quasi subito: Boninsegna, all’ottavo minuto. Poi è sano catenaccio, le due punte tedesche marcate arcignamente a uomo.

– In una rara divagazione a centrocampo Rosato, difensore feroce, abbatte Beckenbauer. Il fuoriclasse dovrà proseguire col braccio al collo, e ogni volta che incrocerà il signor Yamasaki gli dirà cose orribili, accusandolo di essere nostro amico. In effetti l’arbitro peruviano della semifinale è il pupillo del designatore De Leo, brasiliano il cui cognome tradisce le chiare origini italiane.

– Quando la partita sembra vinta, nell’ennesima mischia dentro la nostra area segna in sforbiciata il difensore Schnellinger, uno che in carriera probabilmente aveva superato il centrocampo non più di due tre volte. C’è chi dice infatti che fosse lì perché stava tornando negli spogliatoi.

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In Italia sono state chiuse le frontiere dopo la debacle con la Corea, e possono giocare solo gli stranieri che erano già qui nel 1966. 

Schnellinger è uno dei due tedeschi che gioca da noi, proprio nel Milan di Rivera.  L’altro è Helmut Haller, un biondo piccolo e cattivissimo che sta fuori squadra, si dice, perché si è menato con il vecchio Seeler, mentre anche Schnellinger è malvisto da Beckenbauer perché gli ruba il posto in mezzo alla difesa (lesa maestà!!!), costringendo Kaiser Franz a fare il mediano .

I supplementari iniziano che in Italia sono quasi le due di notte, ma non dorme praticamente nessuno, e a tenerci svegli contribuisce “l’altalena delle emozioni”, come si scrive: autogol infelice di Poletti, pareggio di Burgnich (per lui vale quanto detto per Schnellinger), poi finalmente “Rombo-di-tuono” Riva: “sta per scadere il primo tempo supplementare ed è tre a due per l’Italia” ci ricorda Martellini.

Si cambia campo, i tedeschi al solito si avventano, sull’ennesimo angolo a coprire il palo lontano va Rivera. Inizia una delle scene più famose della storia del nostro calcio: Rivera si scansa, il solito velenoso Gerd Muller ci segna, Albertosi “letteralmente uscito pazzo” insulta il mandrogno, torniamo lentamente di là, cross all’ultimo respiro di Boninsegna, piatto proprio dell’abatino, epica dalla penna di Gianni Brera: “Questo è dunque avvenuto: al giovane eroe ha ridato la lancia Pallade Atena figlia di Giove Ottimo Massimo. Le troiane porte Scee e la porta di Maier si confondono nel cervello stranito di tutti.”

Sono quasi le tre, la gente in tutta Italia scende in strada a festeggiare nella notte con caroselli automobilistici come mai prima. In Alessandria si aggiunge alla gioia per la vittoria il tripudio per l’eroismo dell’enfant-du-pays.