Niente Taxi a Chattanooga di Rocco Bargioni [ALlibri]

A cura di Angelo Marenzana

 

 

“Mi piace collocarlo a metà tra una guida, un manuale urbanistico e un racconto. E spero di essere riuscito nel prendere il meglio di queste tre diverse letture.” Così sottolinea Rocco Bargioni, alessandrino, venticinque anni, nel presentare il suo Niente Taxi a Chattanooga, il suo libro pubblicato da Latorre Editore. Blogger esperto di viaggi e di canzoni, oggi ospite per l’appuntamento domenicale di ALlibri, l’autore ha deciso di raccogliere in questo volume l’esperienza di un lungo viaggio in solitaria in nord America. Da Montreal a Chicago fino al Texas, Rocco Bargioni prende per mano il lettore con una scrittura coinvolgente quanto leggera e spontanea. E poi c’è la musica, capace di accompagnare i suoi passi per arricchire un’esperienza giovanile destinata a restare per il bagaglio di conoscenza che porta con sè.

Buona lettura e buon viaggio con Niente taxi a Chattanooga.

 

 

“Last Train Home” come una splendida canzone di Pat Metheny, che mi ha accompagnato assieme a tante altre durante il viaggio. Ma soprattutto come l’ultimo treno del giorno, che alle 23.30 di sera lascia la Stazione Centrale di Milano in direzione della cittadina di pianura in cui sono cresciuto. Nei primi anni dell’università era l’ultima frontiera per chi non aveva la macchina. Perdevi quello? Aspettavi il giorno dopo.

Data l’ora tardiva, il treno in questione non ha tutta questa buona fama. Personalmente, complice la mia stazza medio-grande, non l’ho mai trovato pericoloso, piuttosto molto folkloristico. Non solo i prevedibili senzatetto, i rasta coi cani o i pendolari che hanno fatto tardi. Ma turisti diretti chissà dove, comitive chiassose che cantano cori, pazzarielli che sbraitano fuori dal finestrino contro infami non meglio identificati. Tutto in contrasto con la calma e la quiescenza che ti attendono quando arrivi nella stazione del tuo homeplace più o meno all’una. Mi piace considerare tal convoglio ferroviario come l’inizio di un percorso che mi ha portato a non sentirmi mai del tutto fuori luogo in mezzo alla variegatissima fauna di fruitori dei bus americani, tutti accomunati dalla non voglia di spendere troppo per un viaggio.

Oh giusto, il mio viaggio. Non ho nemmeno iniziato a parlarne, che già arriva la parte difficile. Che parole si usano per raccontare un itinerario che ti frulla nella testa da tempo? Per raccontarlo a voi, soprattutto, come se non aveste mai letto un racconto di esperienza turistica.

Beh, inizio col dirvi che questo viaggio sono in realtà tre viaggi. Ho effettuato una “fusione” tra diversi contesti che desideravo toccare con mano.

Il sogno americano (a livello vacanziero, neh) pervade me quanto tanti altri. Ma, anche a causa del numero limitato di film che ho visto nella mia vita, ho raramente sognato di andare a Miami e Los Angeles.

Tre viaggi, dicevo. Volevo vedere le terre natali della musica country, sin da quando giocavo a Grand Theft Auto e attraversavo le campagne in macchina con Conway Twitty e Loretta Lynn a palla.

Volevo vedere Chicago a causa della mia passione ventennale (ormai letteralmente) per i grattacieli, dato che i CD Rom su New York e i DVD su Chicago e Hong Kong non sono mai mancati in casa mia, fin dai tempi in cui li regalavano in edicola coi giornali.

Volevo vedere il Canada, perché mi chiedevo quanto bella dev’essere una nazione che possiede i paesaggi, le città, l’atmosfera e lo stile di vita degli Stati Uniti, ma al contempo non ne possiede tutte le controversie e contraddizioni.

Non ce n’era uno che desiderassi più degli altri, a pensarci bene. Perciò, all’attacco! Ho scritto che sognavo di visitare queste terre, e avreste dovuto vedermi: ogni volta che mi imbattevo in un edificio anche solo un po’ alto e moderno, scattava il paragone con la Federal Plaza di Chicago. E bastava un semplice ristorante fuori città, un pochino in mezzo alla campagna, che ogni tanto magari facesse pure musica dal vivo… che toh, la steakhouse country ranch ce l’abbiamo anche noi. Un po’ mi è dispiaciuto non potermi più figurare queste cose con l’immaginazione. Come quando finisci di guardare una serie tv e sei disperato perché non avrai più sorprese.

Ma passiamo alle cose concrete. Il mio viaggio attraverso il Nord America ha avuto luogo dal 1° al 25 luglio 2018. Ho percorso in solitaria all’incirca 5000 km. Da Chicago in poi mi sono mosso esclusivamente con gli autobus. Precedentemente in aereo, da Toronto a Chicago. E nonostante il titolo di questa introduzione, ho fatto un solo viaggio in treno, da Montréal a Toronto.

E luglio sarà pure il mese in cui si va al mare, ma quell’anno non è stato il mio caso, dato che non l’ho mai visto pertutti i 5000 km.

Inoltre, ho sentito parlare pochissime volte italiano. Per l’esattezza due, una a Montréal e l’altra a Toronto. Di questi tempi pare quasi brutto da dire, per colpa di un certo anti-italianismo insediatosi in alcuni turisti che del viaggiare hanno capito proprio poco, ma trovo davvero bello che esistano ancora itinerari (soprattutto in posti a noi non così alieni culturalmente) che possono essere svolti senza incontrare altri italiani per tutto il cammino. Aiuta il miglioramento della lingua, ti fa sentire davvero lontano da casa e quando torni a casa raddoppia l’entusiasmo (o lo sconforto, se siete tra quei turisti sopra citati).

Immaginate di essere un regista amatoriale che fa il suo onesto lavoro girando e montando video. I vostri vicini di casa sono Stanley Kubrick e Federico Fellini.

Questa è pressappoco la situazione di Toronto, che per quanto si possa proporre come città giovanile ed esuberante, è situata a metà strada tra Montréal e New York, le due rispettive capitali modaiole eartistiche dei due paesi nordamericani.

Niente paura però, il quartiere di Queen West è qui a dimostrarci che Toronto non è affatto un regista amatoriale. È sabato pomeriggio e mentre ascolto Regroovable di Chris Botti (che pezzo, ragazzi!) passeggio tra decine di giovani, atmosfere incredibilmente grunge, locali che ispirano creatività e negozi hipster a gestione familiare.

Perché qui le catene non sono gradite. O comunque lo sono a patto che restino in minoranza e si capisca chi comanda.

Vi elenco una lista di luoghi da visitare di Queen West, in ordine decrescente di gradimento giovanile: Graffiti Alley, il variopinto e ormai celebre vicolo. Trinity Bellwoods Park, pieno di ragazzi che fanno sport o si rilassano sull’erba. Il piccolo enclave ucraino dominato dalle chiese cattoliche di San Nicola e San Stanislao. La Campbell House.

La bella Campbell House è un’abitazione ottocentesca di epoca georgiana, che diventa inequivocabilmente un monumento storico in una città dove il più antico edificio è di appena un secolo prima. È ispirata all’architettura palladiana (usanza molto diffusa tra le residenze georgiane dell’epoca) e fu costruita come casa di villeggiatura per l’allora presidente della Corte Suprema, in una location lontana da Queen West. Fu letteralmente spostata nella posizione attuale nel 1972, non senza fatica. Oggi è sede di una casa-museo e rappresenta il lato più tradizionale di Queen West, quello che rischiamo sempre di tralasciare tra l’acquisto di una bombetta beige da abbinare con gli occhiali vintage e un cappuccino milk free con una spolverata di cacao del Ghana meridionale.