L’improvvisa durezza del mondo di Laura Scaramozzino [ALlibri]

A cura di Angelo Marenzana

 

 

Alla scrittrice torinese Laura Scaramozzino è affidato il piacevole compito di aprire questo 2020 sulle pagine letterarie di ALlibri. Conduttrice radiofonica, ha presentato Dimensione Autore sull’emittente piemontese Radio Italia Uno, ha tenuto corsi di scrittura creativa e ha pubblicato, per OAK Editions, il manuale: Percorso creativo. Un viaggio chiamato scrittura.

Da sempre affascinata dal mondo della fantascienza e dalle società del nostro possibile futuro, Laura Scaramozzino ha pubblicato racconti per Delosdigital edizioni e per l’antologia: Strane creature dell’ Editore Watson per il quale, nel 2019 è uscito Screaming Dora.

 

 

Per i lettori di ALlibri il racconto L’improvvisa durezza del mondo.

Buona lettura.

 

I sogni mi abbandonarono il giorno in cui lei si sfracellò nel cortile condominiale. Dopo un volo di tre piani, il corpo di mamma si spappolò, si appiattì e giacque accanto a una moto coperta da un telo. Fra macchie di grasso e guano secco, il sangue si estendeva rapido.

In pochi istanti, tutto era rallentato. La vicina si sbracciava dal balcone del secondo piano eseguendo una danza grottesca. Di fronte al palazzo, la cornacchia sorvolava ebbra una tettoia in lamiera.

Percepii, a un tratto, l’intera durezza del mondo. Come accade al cinema, quando le esplosioni rimbombano nelle orecchie e nel petto.

Due giorni più tardi, di ritorno dal funerale, papà venne a prendermi da un amico. Arrivati a casa, mi portò a letto. Sentivo il buio grattarmi la pelle.

«È normale sia così. È tutto normale», udivo ripetere in un mantra ossessivo. Così finsi di appisolarmi. Ma dormii poco e senza sognare.

Più avanti, durante le sedute, la psicologa, avvolta in un maglione triste, accennò a un meccanismo di difesa. Annoiato dalle stampe appese alle pareti, ascoltavo distrattamente e annuivo. Volevo tornare a casa e aspettare. Che mia madre diventasse un fantasma, o anche solo che mi mancasse.

Trascorsi alcuni giorni, smisi di attendere. Oltre ai sogni avevo perso i ricordi. Sapevo di aver avuto una madre che mi portava a scuola, al giardinetto pubblico o al centro commerciale. Avevo chiaro in testa quel che avevamo fatto assieme.

Per il resto: black out. Non mi era rimasto nulla del volto, del modo in cui mi teneva per mano o del suo odore. Di come i capelli le scendessero sul collo o del tono della voce. Non ricordavo se fosse magra o grassa, se sorridesse o se avesse le rughe intorno agli occhi. Nella memoria c’era ogni passaggio: le vacanze in Toscana, le gite in campagna la domenica e perfino le discussioni con papà sulla scuola da scegliere o sulle offerte del supermercato. C’era tutto, ma non c’era più niente.

Cercai le sue foto. Sul mio computer nessuna traccia. Mamma non amava farsi immortalare e, nelle rare occasioni in cui cedeva, ostentava una smorfia di disappunto. Forse nella galleria virtuale di papà si trovavano delle immagini. Da qualche parte, in casa, dovevano pur esserci delle stampe.

Frugai dappertutto. Sistemai la sedia sotto una mensola della cucina, salii sopra, mi issai e afferrai i barattoli dei biscotti e della pasta. Trattenendo il respiro, li svitai uno alla volta.  Macché. Così un giorno decisi di affrontarlo.

Dapprima, papà esitò e balbettò un pretesto. Ma io insistetti.

«Non ce l’ho fatta a tenerle. Ho dovuto buttarle via e cancellare quelle che avevo sul pc. È stato un gesto di rabbia, ma avere le sue foto mi stava facendo impazzire. Ti prego, Elias, cerca di capire!»

«Avevi paura per me?»

«Anche, ma credimi. Per ora è meglio così».

«Te lo ha detto quella?»

Mio padre mi guardò perplesso: «No, non esattamente. Ma anche lei è dell’idea che per il momento sia meglio».

«Ma se le foto le hai gettate o cancellate, come farò a trovarle un giorno, quando starò meglio?»

«Ti ricorderai di lei, non avrai bisogno delle sue foto».

«Ma sulla lapide non c’era un suo ritratto?», rimarcai.

«No, non l’avrebbe voluto. C’è il verso di una poesia al suo posto. Anche se non sei venuto al funerale, ti porto a trovarla quando vuoi».

Mi spazientii: «Io voglio vedere una sua foto!»

«Adesso basta, – sbottò mio padre, alzandosi dalla sedia di scatto – tu fai quello che ti dico io. Per il bene di tutti. Ora vatti a lavare le mani che fra poco si cena!»

Finsi di obbedire. Finito il pollo con le patatine ebbi una porzione doppia di gelato all’amarena. Papà mangiò in un silenzio teso e mantenne un’espressione cupa per tutto il tempo.

Il giorno seguente telefonai a zia Angela e le chiesi se conservava delle foto di mamma. Dopo un silenzio imbarazzato, mi rispose negativamente.

«Ma eravate sorelle!»

«Hai ragione Elias, ma tua madre non amava le fotografie. Spesso le strappava. Quando ne trovava una la faceva a pezzettini piccoli piccoli. Quelle che avevo sul cellulare, poi, sono tutte mosse».

Il tono di voce mi ricordò lo stridio del gesso sulla lavagna.

«Dimmi com’era».

«Che cosa?»

«Dimmi com’era la mamma. Descrivila!»

«Pronto? Elias? Non ti sento, pronto!»

La voce di zia Angela divenne distante. Corrosa dal gracchio delle interferenze. Interruppi la telefonata. Deluso, andai a posare il cordless e mi sedetti sul letto. La testa poggiata sui palmi e una gran voglia di spaccare tutto. Pazienza, conclusi sollevandomi e osservando dalla finestra il parco periferico che si snodava tra piccoli sentieri coperti di foglie.

L’alone del mio viso riflesso sul vetro mi fece sobbalzare. Nel pallore indistinto, scorsi una somiglianza. Un indizio per ricostruire e ricordare. Ma fu un’illusione che la veduta fosca del parco riassorbì in un istante.

Cercare su internet era fuori discussione. Mamma non era iscritta ai social.  Feci lo stesso un tentativo. Andai alla scrivania e accesi il computer. A volte i motori di ricerca raccoglievano istantanee scattate durante gli eventi pubblici. Lei gestiva un negozio di articoli per animali. Aveva promosso delle raccolte fondi con alcuni volontari. Avrebbe potuto esserci qualche traccia sul web.

Trovai due immagini.

Una fotografia mostrava l’entrata del negozio deformata in una convessità abnorme. L’altra era una ripresa sfocata di mia madre che, sullo sfondo di un negozio affollato, applaudiva concitata. Con la faccia appiccicata allo schermo, studiai la sfocatura. Mamma era un mezzo busto dietro il bancone del negozio. Impossibile indovinarne la costituzione o il colore dei capelli. Sembrava uno spettro rifulgente.

Fissai l’immagine così a lungo che il viso di lei serpeggiò e ascese, svelando, al di sotto del lucore, la cavità di una fauce oscura. Arretrai sulla sedia e per poco non caddi. Passai una mano sulla fronte, mi affrettai a uscire da internet e a spegnere il pc. Cazzo, cazzo, cazzo, mormorai marciando su e giù per la stanza.

Passò qualche giorno. Durante l’intervallo, interrogai un compagno di prima media: uno con cui fingevo di fare i compiti di matematica guardando i trailer della Marvel.

«Senti Francesco, tu te la ricordi mia madre?»

«Boh, più o meno», borbottò il mio amico, levando gli occhi dal cellulare con aria scazzata.

«Che significa più o meno?»

«Che cazzo ne so, te la ricordi meglio tu di sicuro».

«No, e non ho neppure una sua foto. La psicologa dice che ho dimenticato tutto per difendermi e non soffrire».

Francesco fece spallucce: «E allora, cazzo chiedi?»

Gli avrei staccato la mano a morsi.

«Voglio sapere come era mia madre, porca troia! Perché nessuno vuol dirmelo?»

Francesco mi guardò in tralice, passò lo schermo dello smartphone sulla tuta in pile e sbuffò: «Neanch’io mi ricordo mai un cazzo, a meno che non somiglino a Scarlett Joahanson».

«Vaffanculo, Fra!»

«Fanculo tu!», ribatté, mentre la campanella trillava stridula.

Ero stanco. Mi convinsi fosse meglio lasciar perdere, almeno per un po’.

Poi, arrivò lei.

Era trascorso meno di un anno e, nonostante continuassi a non sognare e a non ricordare mia madre, mi sentivo meglio. Avevo cominciato il corso di fumetto a scuola e non frequentavo Francesco da un pezzo.

Le prime volte andavamo tutti e tre a cena fuori. A lei piacevano i rotolini di riso giapponese e la pizza al farro. Non mi faceva domande, ma sembrava incuriosita dal corso che frequentavo. Raccontava che da piccola anche lei disegnava, ma che poi aveva scelto altre strade: «Però tutto è utile, – sosteneva – anche le cose che abbandoniamo».

«Soprattutto quelle», faceva eco mio padre.

Una notte si fermò a dormire da noi e non se ne andò più. Ero euforico. Mi piaceva stare con lei e vederla al mattino, in pigiama, mentre preparava il caffè. Aveva un’aria familiare e un odore di cose stabili. Mi abituai a lei talmente in fretta che abbandonai la mia ricerca fotografica.

Una sera, mentre mi aiutava a preparare lo zaino per la scuola, le dissi: «Mi sento al sicuro con te».

Facendo scorrere la cerniera, lei mi sorrise compiaciuta: «È una cosa normale».

Arricciai le labbra.

«Non fraintendermi, – riprese seria – la normalità è una cosa bellissima. Dà uno scopo alle nostre vite. Una traccia da seguire».

Sospirai. Il suo corpo, piegato sullo zaino, mi faceva bene e male al contempo. Per un momento, guardandola, ebbi l’impressione che l’intera sua figura sfumasse in una fiammata pronta a incendiare e sciogliere ciò che avevamo intorno. Percepii sulle braccia il calore pungente del fuoco. Nelle orecchie echeggiò il suono distorto e crepitante della parola normale. L’armadio divenne una sagoma dai contorni tremolanti che si accartocciarono e annerirono come fogli di giornale in un camino acceso. Il letto fu lambito da fiamme pallide. C’era una vibrazione cupa che risaliva dal pavimento, accompagnando il riverbero di una voce sfrangiata. La voce divenne un grido e poi un tonfo improvviso. Svenni. Quando mi riebbi, la compagna di mio padre mi abbracciò con trasporto.

L’indomani, ricevetti un messaggio da mia cugina Adele: Ciao Elias, ho faticato un casino e alla fine l’ho trovata nella galleria. L’avevo scattata a sorpresa, ma per fortuna non è mossa.

Mi ci volle un momento per comprendere a che cosa si riferisse. Stavo mangiando del cioccolato fondente. Avevo appena perso una partita alla Play. Sospirando, digitai: Ok, mandamela, allora.

La compagna di papà, intanto, era tornata dal lavoro e si stava lavando. Il picchiettio dell’acqua, sul piatto doccia, giungeva attutito dal bagno.

Solo se mi prometti che non mi prendi più in giro perché sono bassa. Spazientito, digitai una risposta d’impeto e indugiai sul simbolo dell’invio. Riflettei, cancellai la risposta e scrissi: Ok, va bene, promesso.

Dopo qualche minuto, il segnale di arrivo accelerò il battito cardiaco. Non ero più sicuro di voler vedere e ricordare. Mi era rimasta solo una curiosità infantile.

Agguantai lo smartphone e mi decisi. Stavo per visualizzare.

Un grido, proveniente dalla cucina, mi fece trasalire. Con il telefono stretto in pugno mi avvicinai alla porta socchiusa e tesi l’orecchio. Ricordai il fuoco, la tettoia in lamiera e la durezza nuova di tutte le cose.

«Maledetta bestiaccia, sei uscita finalmente! Via di qui!».

Immaginando la compagna di papà scacciare via un insetto, trassi un sospiro di sollievo.

Tornai al messaggio e trattenendo il respiro mi preparai di nuovo.

Quello che apparve mi terrorizzò al punto che il cellulare scivolò di mano, cadendo con un tonfo sul palchetto. Le pareti della stanza si restrinsero e si curvarono, come per circondarmi. Avevo caldo, sudavo. Il letto oscillava in un pulviscolo erubescente.

Sotto i piedi, il palchetto divenne incandescente. Per non scottarmi, saltellavo e vacillavo come fossi su un vascello nella tempesta. All’orecchio giungevano rallentate le parole: «Maaaaledeeettaaaaa bestiacciiiiaaaaaa!».

A un tratto, un richiamo potente, proveniente dal tinello, smorzò il mio terrore e dissolse l’allucinazione.

«Elias, non vieni? C’è la merenda!».

Voltandomi verso la porta, trangugiai un nodo di saliva e mi trascinai fuori dalla stanza.

Arrivato in tinello, la vidi sbiancare, inerme. Teneva il viso tra le mani.

Si avvicinò cauta e mi poggiò il palmo sulla fronte. Profumava di torta al limone con i pinoli.

«Elias, ma che succede? Sei pallidissimo! Mio Dio, ti senti bene? Hai l’influenza?»

Rinfrancato dal tocco familiare, esitai.

«Tu così mi fai preoccupare, Elias. Dimmi qualcosa».

«Sto bene, mamma», replicai.

«Meno male, – sospirò lei senza scomporsi – hai voglia di fare merenda?».

Inclinai la testa, la scossi. Portai le mani alle tempie. Che cosa avevo detto? Mamma, mamma. Lei era mia madre! C’era la foto, sì la foto. Ma c’erano stati il salto, i corvi, la moto. Le ossa che si rompevano, la carne maciullata. C’erano stati i ricordi che se ne andavano. L’eco del grido, prima del salto. Il sangue aveva un colore e un odore. E le cose avevano fatto male, tanto male. Il buio era diventato duro, il mondo si era fatto duro. Però c’era la foto, sì la foto. Mio Dio, Gesù Santo!

Con un gesto secco la respinsi e mi scansai: «Tu non sei mia madre!»

«Elias, ma che cosa stai dicendo?».

«Mia madre è morta un anno fa! Si è buttata dal quel maledetto balcone!».

Lei si nascose il volto tra le mani e scosse il capo con foga.

«Ma che cosa stai dicendo? Tu sai che io sono tua madre! Ci deve essere qualche foto in giro. Di sicuro».

Adele, Adele, che cazzo di scherzo mi hai fatto, brutta nana di merda!

«Bello lo scherzetto, ma io non sono pazzo. La pazza sei tu!».

«Smettila, – sbraitò – smettila!».

«Tu non sei mia madre!», ribadii.

La compagna di mio padre sbatté le palpebre come un piccione incredulo. Scoppiò in un pianto isterico, si calmò, si avvicinò e mi afferrò per le braccia: «Elias, credevo che un anno di terapia ti avrebbe aiutato. Che le cose sarebbero migliorate. Che cosa dobbiamo fare con te, che cosa?», frignò, strattonandomi.

«Per la disperazione, sono stata in casa di cura per mesi e mesi. Ho avuto un esaurimento. Non riuscivo più a sopportare il tuo disagio. Non ce la facevo più. Tu mi odi, Elias. Mi odi!»

Che stai dicendo? Pazza, sei pazza! Ho visto tutto, ho sentito tutto!

Sconvolto, mi svincolai e le sputai in faccia

«Io ti odio, sì, ti odio! Tu non sei mia madre. Tu devi morire!», ringhiai accecato dalla rabbia e dalla confusione.

Poi, accadde tutto in un lasso di tempo breve. Guidata da un impulso cieco, la compagna di mio padre si precipitò verso la porta che dava sul balcone, fece forza sulla maniglia e uscì sul ballatoio, gemendo. Nel freddo di novembre, i capelli le vorticarono intorno al viso. La guardai arrampicarsi sul davanzale facendo leva sui palmi. Non si voltò neppure una volta e quando fu in piedi, si lasciò cadere nel cortile, sfracellandosi accanto a una moto coperta da un telo.