Il Dio del Male di Biagio Proietti [ALlibri]

A cura di Angelo Marenzana

 

L’ospite d’eccezione per l’ultimo appuntamento del 2019 con ALlibri è Biagio Proietti, romano, classe 1940, autore di cinema e televisione. In questo mondo, Proietti  ha legato il proprio nome ad alcune storiche serie della domenica sera quando ancora si chiamavano sceneggiati e l’intera famiglia si sedeva sul divano per viaggiare di settimana in settimana sulle ali del mistero fino alla conclusione del caso criminoso proposto. Basti ricordare gli indimenticabili Coralba (1970), Un certo Harry Brant (1970), Lungo il fiume e sull’acqua (1973), Ho incontrato un’ombra (1974) e Dov’è Anna? (1976) oltre alla miniserie dedicata all’investigatore Philo Vance interpretata da Giorgio Albertazzi. Sono stati quelli gli anni e i testi con cui si è formata un’intera generazione di giallisti di oggi, riconoscente a Biagio Proietti come modello e come maestro.

Con le Edizioni Oltre, Biagio Proietti ha recentemente pubblicato Il Dio del Male in cui racconta di Franco Verzini, un industriale farmaceutico a rischio di bancarotta che riceve una strana telefonata: una voce chiaramente contraffatta gli annuncia che il prossimo 28 settembre, giorno del suo compleanno, sarà ucciso. Il giorno dopo, mentre si trova in azienda, in compagnia solo del guardiano della stessa, salta la corrente mentre lui si trova chiuso in ascensore. Ci vorrà del tempo per liberarlo. Un nuovo, angoscioso avvertimento. Non l’unico. Altre telefonate minacciose che lo riguardano raggiungono la moglie e il figlio. A questo punto l’imprenditore avverte la polizia, che manda il commissario Daniela Brondi che darà avvio a misure di sicurezza, inutili a salvare la vita all’imprenditore, il cui corpo sparirà in fondo al lago…

Buon fine anno con una lettura da brivido.

 

 

Primo giorno, lunedì 22 settembre

 

La voce è sgradevole.

Anche per quello che dice: – Ti ucciderò, Verzini. Il giorno del tuo compleanno, il 28 settembre, fra sei giorni. Goditi la vita, se ti riesce.

Franco Verzini non fa in tempo a replicare che l’altro chiude la telefonata.

Sul display del cellulare non appare il numero. Tende bianche filtrano la luce violenta di un caldo pomeriggio romano.

Occhi verdi nella penombra. Il corpo nudo di Rossella, sul letto, è una macchia morbida di colore. Colpita dalla sua espressione, lo guarda.

Franco sorride. O meglio, prova a sorridere: – Qualcuno ha sbagliato numero. – Cerca di ritrovare la calma, persa per un attimo più di fastidio che di paura. Si distende accanto a lei.

Rossella gli si stringe addosso, lentamente bacia il corpo massiccio dell’uomo, reso asciutto da anni di sauna e di tennis. Tutto per annullare una realtà non piacevole: i sessanta anni.

Lo squillo del telefono li fa sobbalzare. È quello fisso della casa, il cordless è sul comodino. Decidono di ignorarlo ma continua a suonare, ossessivo e interminabile.

Di scatto, Rossella si divincola dall’abbraccio, prende il telefono. Biascica un – Pronto – non cordiale.

Dall’altra parte, silenzio. Rossella ripete un paio di volte un – Pronto – sempre più irritato.

Finalmente una voce d’uomo soffia: – Dammi Verzini, so che è lì con te, non mi raccontare storie.

Rossella guarda smarrita Franco, che si avvicina per ascoltare, poi chiede: – Che cosa vuole?

– Verzini e non dirmi che è già andato via. Fino alle cinque è sempre con te. –  La voce si perde in un sorriso cattivo, ancora più sgradevole. – So che cosa state facendo. Mi dispiace avervi interrotto.

Franco toglie di mano a Rossella il cordless. – Chi sei? Che cosa vuoi?

– Te l’ho già detto, il 28 settembre tu morirai e sarò io a ucciderti. – Franco rimane in silenzio, colpito dal tono gelido della voce che continua a parlare: – Il 28 settembre è il giorno del tuo compleanno, sarà anche quello della tua morte. –

– Perché hai scelto quel giorno per farmi morire?

– Sono un uomo dotato di molto umorismo, io. – La voce ha un tono metallico, sembra contraffatta. – Quel giorno, darai una festa nella tua villa di Bracciano, vero? Oltre che spiritoso sono anche bene informato.

– Va bene, tu sei spiritoso e ben informato, io darò una festa e allora? – A Franco non piace ascoltare, è abituato a guidare lui i suoi incontri. Sempre.

L’uomo ride: – Ci sarò anch’io e ti ucciderò.

Ancora una volta, silenzio. Rossella ha sentito, con la paura negli occhi guarda Franco che le sorride, per rassicurarla. – Perché vuoi uccidermi? – chiede con voce tranquilla, una domanda senza importanza.

– Il 28 settembre lo capirai. E mi sarai grato. Grato di morire. Mi ringrazierai, amico, anche se adesso credi che io stia scherzando. Sarai felice di morire. Felice che qualcuno stia risolvendo il problema per te.

Non c’è rabbia nella voce: una minaccia di morte resa inumana dall’assenza di odio. Una voce fredda che emette parole di minaccia come slogan.

Franco, anche se turbato, ride: – Ti diverte fare paura alla gente?

Non c’è risposta. L’uomo non ha riattaccato il telefono, è in silenziosa attesa.

Franco chiude lui di scatto. – Uno scherzo, uno stupido scherzo – dice a Rossella, rannicchiata vicino a lui. – Quello stronzo è riuscito a farmi passare la voglia. – Si alza dal letto, si dirige verso il bagno. – Vado a farmi una doccia. –

Rossella fissa il telefono, con la paura di dover ascoltare un nuovo squillo, grida: – Era lui anche al cellulare? – Franco, sotto la doccia, non risponde, a Rossella risposte non servono.

La paura è entrata nella stanza e in lei.

 

***

La Farmaceutici Latina è un edificio massiccio circondato da un alto muro di cinta, di colore grigio sporco. Si trova vicino a Prima Porta, là dove il Tevere fa una curva molto ampia. Franco Verzini ricorda che spesso il fiume straripava, prima che fosse costruita la chiusa: inondava campi melmosi sui quali, come funghi, continuavano a nascere baracche e case.

Suona il clacson per attirare l’attenzione del custode all’ingresso principale. Quello, riconosciuta la Maserati del proprietario, si affretta ad aprire il cancello elettrico. L’automobile entra nei viali fioriti, che circondano il cupo edificio, in stile anni trenta, dei laboratori, si dirige verso la palazzina degli uffici, costruita di recente, vetro e cemento. Le luci della direzione, al terzo piano, sono ancora accese.

Franco ferma l’auto di fronte all’ingresso, dal quale esce di corsa, nonostante la mole e l’età, il portiere, dal nome autenticamente romano di Romoli. Purtroppo per lui, non arriva in tempo ad aprire lo sportello a Franco, saltato giù con agilità. Romoli si prende la rivincita: spalanca tutte le porte sul loro cammino, fino all’ascensore privato. Verzini lo invita a salire con lui, per prendere la posta da spedire.

L’ascensore si mette in moto, fra il primo e il secondo piano, si blocca, le luci si spengono.

  • E’ andata via la corrente – constata nel buio, con proletaria saggezza, il

portiere che si mette a premere tutti i pulsanti. Soprattutto quello rosso dell’allarme.

  • Hai paura?

Romoli è alto un metro e novanta, massiccio in proporzione, ha due mani che sembrano mattoni. – Paura, no, dotto’, ma restà intrappolato nell’ascensore non me piace, me pare d’essere un sorcio.

La parola intrappolato fa ricordare a Franco la telefonata ricevuta prima. Prende il cellulare, anche se è sicuro che lì dentro non ci sia campo. – Chi è rimasto in ufficio? –

  • Solo il dottor Ralli.
  • Non c’è Livi?
  • Oggi il commendatore non è venuto, forse non sta bene.
  • Ralli potrebbe farci uscire.
  • C’è la manovra d’emergenza, si tira su a mano, non so se da solo il dottor

Ralli ce la fa, non è tanto robusto e poi chissà se il custode l’ha avvisato, quello avverte solo me.

  • Prova a urlare – ordina Franco, che comincia a innervosirsi. Il caldo sta

diventando insopportabile, l’aria irrespirabile. Quanti minuti sono passati?

Il portiere comincia a urlare, con voce stentorea. Batte le sue enormi mani, chiuse a pugno, sulla porta d’acciaio. Franco si toglie la giacca, allenta la cravatta, apre il colletto della camicia: riemergono antichi incubi di un ragazzo che aveva paura del buio. – Fa un caldo terribile. – mormora.

  • La luce non è mai mancata a quest’ora – comunica il portiere, cessando per

un attimo di urlare. Anche lui è bagnato di sudore, per rispetto non si toglie la giacca della divisa.

  • Ralli si accorgerà della mia auto.
  • Speriamo che non sia uscito, quello non ha orari – Romoli ora ha paura. Di

restare chiuso lì dentro, per tutta la notte. Paura di morire. Il terrore gli infonde nuove forze, riprende a battere sulla porta e a gridare.

Franco sente mancare il respiro. Cristo, perché Ralli non viene a liberarlo? Lui è un perfetto segretario, fedele al suo padrone: disponibile, ammaestrato, avido, ruffiano. Verrà a farlo uscire da lì, deve venire.

Romoli emette uno stridulo: – Aiuto – tira fuori un fazzoletto enorme, si asciuga il viso, paonazzo, grondante sudore.

All’improvviso, la luce violenta ferisce i loro occhi, abituati al buio. Con un sussulto, l’ascensore si muove verso l’alto. Si arresta al terzo piano, la porta automatica si apre nel corridoio deserto, Franco e il portiere corrono verso la finestra. Respirano aria che a loro sembra fresca. Alle loro spalle, il rumore dell’altro ascensore in arrivo: la porta si apre, appare Carlo Ralli. – Come stai? – chiede a Franco, accorrendo al suo fianco.

  • Bene, adesso bene, andiamo nel mio ufficio, vorrei bere qualcosa – Romoli

non si muove, Franco si rivolge a lui: – Vieni, hai bisogno di bere, più di me per quanto hai strillato.

I tre uomini entrano nell’ufficio di Franco, ampio come piazza di Spagna.

  • Meno male che si è accorto di noi, dottò. – Romoli ha ripreso fiato e coraggio,

galvanizzato dall’invito. Verso Ralli il suo atteggiamento è di una deferenza meno accentuata: – Ha visto la macchina?

Ralli prende dal frigorifero una bottiglia d’acqua minerale. – Sì, ho visto la Maserati e, dato che non arrivavate, ho pensato di dare una occhiata, così ho notato che l’ascensore privato era bloccato. – Versa in un bicchiere l’acqua per Franco, a Romoli porge la bottiglia. – Ho sentito anche la tua voce, Romoli, mentre scendevo in cabina per attivare la manovra d’emergenza.

  • Come ha fatto a muoversi nel buio? Aveva una torcia? La corrente doveva

mancare in tutta la palazzina.

Ralli lo interrompe: – La luce non è mai mancata. – Fa una leggera pausa teatrale, Ralli ha fatto tante cose nella vita, anche l’attore. – Non ho avuto bisogno di mettere in funzione il sistema d’emergenza.

È Franco a chiedere: – Allora perché l’ascensore …

Ralli non lo fa finire: – Qualcuno ha staccato la corrente dell’ascensore.

  • Per bloccarlo, con noi due dentro – conclude Franco.

Romoli, dopo aver svuotato fino all’ultima goccia la bottiglia, chiede stupito: – Ma perché ce voleva fa ‘sto scherzo?

Ralli guarda Franco: – Forse sperava che non ci fosse nessuno in ufficio.

Romoli è fuori della grazia di Dio: – Nessuno che potesse venire a salvarci, ma allora ce voleva fa’ morì lì dentro come sorci quel porco?

Franco si rivolge a Ralli: – Doveva essere nascosto nella cabina, ad aspettarmi.

Ralli annuisce: – Quando ti ha visto entrare in ascensore, ha tolto la corrente ed è fuggito. Il custode, all’ingresso, non si sarebbe preoccupato, la luce nella palazzina continuava a esserci.

  • Potrebbe averlo visto.

Ralli indica fuori: – Non è passato da lì, potrebbe essere ancora nello stabilimento. O è saltato dal muro di cinta, non è così insuperabile.

Romoli ora è impressionato, si sente protagonista di una storia più grande di lui. – Che facciamo dottò, chiamiamo la polizia?

Franco aspetta un attimo, prima di rispondere: gli sembra impossibile che l’uomo della telefonata abbia già tentato di colpire. Poi dice. – No, forse qualcuno voleva solo fare uno scherzo. – Nel dirlo, sente un brivido nella schiena. La gente sta scherzando eccessivamente con lui.

Due volte in un solo giorno.

***

Daniela rientra nel residence quando sono, da poco, passate le undici di sera. Non le fa piacere tornare, perché non considera casa quel buco che continua ad abitare per pigrizia. Anche le altre case che ha abitato non sono mai state un modello di organizzazione famigliare. Questa rassomiglia a quello che è: un posto dove ci si appoggia per alcuni giorni, al massimo per un mese.

Invece, ne sono passati due da quando lei si è trasferita da Mantova a Roma. Dopo aver accettato l’incarico di dirigere la Sezione Omicidi della Squadra Mobile. Ancora non ha trovato il tempo per pensare a se stessa. Forse non ha voluto trovarlo.

Le viene da piangere nel guardarsi intorno: tutto è perfetto e anonimo. In modo desolante. Così, quando rientra dopo dodici ore di servizio, si butta sul letto, si addormenta all’istante. Pronta però a svegliarsi rapidamente, se il telefono squilla e la sala operativa richiede il suo intervento. Un capo come lei non ha diritto a dormire nel suo letto tutte le notti. Non in una città come Roma.

Passano i giorni senza che lei si preoccupi di cosa fare il giorno dopo, per cambiare. È inutile mettersi a piangere, se non riesce a trovare due minuti per sé. Non può andare avanti solo con il lavoro e avere rapporti soltanto con quelli della sua squadra. E con Cantini, brava persona, ottimo dirigente, che mai sarebbe diventato un amico. Per lei, Cantini resta il suo capo, il responsabile della Squadra Mobile, niente li avrebbe legati di più. Fra loro, solo un rapporto di fiducia e di lealtà. Uno che ti fa piacere avere vicino, quando sei in mezzo ad un’azione pericolosa.

Daniela sorride, mentre si scalda il solito bicchiere di latte che costituisce la sua cena. Una donna ha pure diritto a uno straccio di vita privata. Anche semplice, ma deve averla. Da quando è morto Salinari, lei non ha più amici. Anzi ne ha uno solo, quello che tutti chiamano la sua ombra: Ferri. Pronto a tutto per lei, senza chiedere niente. Sempre presente, in silenzio. Disponibile, sul lavoro e fuori.

Squilla il cellulare, il nome di Ferri appare sul display. Lei si affretta a rispondere: – Che succede?

  • Dalla sala nessuna novità, mi scuso per averla chiamata a quest’ora.
  • Ci siamo lasciati da dieci minuti, sono ancora sveglia.
  • Starà mangiando, spero.
  • Lo confesso, sto bevendo il solito latte – dice, ridendo.

Anche Ferri ride: – Non avevo dubbi, però deve cambiare, altrimenti non reggerà il ritmo di questa città.

  • Hai chiamato per una cosa precisa, Ferri?
  • Chiederle se domani potrà incontrarsi con una persona.
  • Per lavoro?
  • La signora Ada vuole incontrarla, dottoressa.
  • La signora Ada – ripete Daniela, che si sente colpevole: non la vede dal giorno

del funerale di Salinari. Non resiste alla curiosità: – Sai di cosa vuole parlarmi?

  • Sì, però non le dirò niente, è giusto che sia la signora a parlarle. Domani

andremo dalla signora Ada, così le cose si sistemeranno.

  • Quali cose?
  • Buonanotte, dottoressa, tanto dovrebbe sapere che io non parlo. Neanche

sotto tortura. – Chiude la telefonata, di colpo.

La lascia con una curiosità addosso che non le crea ansia: da Ferri e dalla signora Ada possono venire soltanto sorprese piacevoli. Beve il latte, prima che si freddi del tutto. Va a dormire, con la speranza di fare tutta una tirata fino all’alba.

A Roma spesso è una pia illusione.