Sitges, Jacinto Molina e Maniac [Il Superstite 448]

ATO6: "Crisi idrica, i cittadini siano più parsimoniosi con l'acqua" CorriereAl 1di Danilo Arona

 

C’è stato un (lungo) momento della mia vita in cui frequentai da invitato alcuni prestigiosi festival di cinema di genere. Tra la fine degli anni Settanta e l’inizio del decennio successivo fui accreditato a Parigi, Avoriaz e Sitges, né mi feci mancare più d’una edizione del Mystfest di Cattolica. Altri tempi, altra età e certo una maggior disponibilità personale nel potersi assentare dal lavoro per periodi non inferiori a una settimana. Verrebbe da dire: “Bei tempi”, e in effetti non mi astengo dal sottolinearlo.

A Sitges, in Spagna, nel 1980 feci pure il giurato in rappresentanza dell’Italia. La superstar della giuria era Jacinto Molina, noto agli appassionati come “Paul Naschy”, interprete e regista di una lunga serie di film iberici dell’horror, parecchi dei quali arrivati anche in Italia, e purtroppo mancato nel 2009. A dispetto della sua napoleonica statura, Molina era una personalità carismatica che dominava, complice anche la babelica commistione linguistica vigente tra i componenti della giuria, sui gusti della gente che lo affiancava.. Al cospetto di tre spagnoli – preponderanti sul piano “territoriale” -, ci ritrovavamo a essere: una giornalista polacca dal cognome impronunciabile, un sottosegretario politico della Repubblica Popolare Cinese e, appunto, io.

L’elemento stridente, tra il buffo e il grottesco, era che Molina faceva da tramite e traduttore in catalano stretto tra la tipa polacca, il cinese e il sottoscritto, con la conseguenza immediata che riuscivo a decodificare i concetti soltanto dall’intensità e dal tono di voce del nostro presidente.

Le riunioni della giuria erano quotidiane e mattutine (e per questo già odiatissime da tutti sin dal secondo giorno perché le notti a Sitges, anche a metà ottobre, erano un vero sballo…) e sin da subito Molina aveva fatto capire che, al di là dei meriti oggettivi, occorreva premiare il film cinese e qualche film dell’Est: i sorrisini e gli ammiccamenti della polacca e del cinese nei confronti di Jacinto mi suggerivano un po’ maliziosamente che forse c’era già stato qualche accordo a monte (dico “forse” perché si trattava solo di sensazioni).

Per contrappeso speravo di dire la mia, quanto meno di “spingere” il mio film preferito (che avevo già preventivamente individuato), ma quando qualche giorno dopo si arrivò al dunque, si scatenò una bagarre: in quella lista di film, tutti abbastanza dimenticabili, spiccava un morboso e malato gioiellino che s’intitolava Maniac, diretto da William Lustig e interpretato da Joe Spinell, nomi e volti noti agli addetti ai lavori e con i quali mi ero intrattenuto la sera prima a cena a “Los Cuatro Gatos”.

 

Di Lustig e di Spinell si potrebbe scrivere a lungo (e di sicuro un giorno lo farò), ma dalla frequentazione di qualche ora (e ovviamente dal film) ne ricavai che si trattava di due simpatici fuori di testa, in anticipo di mezzo secolo sulle tematiche in divenire di un certo cinema e purtroppo penalizzati come tanti dalle penurie produttive che spesso affliggono i veri pionieri. Quando in giuria iniziai a tessere le lodi di Maniac, fui assalito da Molina di cui capii il disaccordo unicamente dal fervore verbale, puntualizzato dal sottofondo babelico in cinese e in polacco. A un certo punto, e questo resta il passaggio più incredibile, Molina fece mettere  a verbale che il film veniva escluso dalla valutazione perché del tutto carente, a suo dire,  dei requisiti richiesti in un festival “de cine fantastico y de terror”. Così vinsero alla fine un film jugoslavo di cui non c’è traccia nella storia del cinema e il brutto film cinese venne gratificato con una medaglia per gli effetti speciali.

Io mi presi una metaforica rivincita un paio d’anni dopo ad Alessandria, quando mi occupavo della programmazione cinematografica del Teatro Comunale: ovvero presentai Maniac di William Lustig in proiezione festiva in sala grande, provocando sconcerti e svenimenti tra le fila del perbenista pubblico domenicale. Allora il cinema aveva questo potere trasgressivo e intimamente devastante. Pure io allora mi sentivo molto antagonista di un certo tipo di pubblico da cinepanettone… Beh, chi conosce Maniac forse capisce più di altri. Però quegli altri che non lo conoscono potrebbero colmare la lacuna.

Maniac, come dicevo, è uno sporco gioellino malato, per certi versi insuperabile sul piano della provocazione scenica. Un abisso di follia nella cui profondità nemmeno più Lustig avrà il coraggio di ridiscendere. Autore di una manciata di film da riscoprire (Vigilante, la serie di Maniac Cop, Uncle Sam), l’uomo ha prodotto nel 2012 il remake del suo capostipte del 1980, scritto da Alexandre Aja e nientemeno interpretato, nella parte del serial killer, da Elijah “Frodo” Wood. I paragoni non si fanno mai, ma in questo caso c’è una ragione di più: come ha scritto Gabriele Capolino,  la sceneggiatura di Aja capovolge la filigrana originale e al posto della rozzezza e della cupezza malata di Lustig,  troviamo una elegantissima patina formale – possibile grazie ai pianisequenza e alla formidabile fotografia di Maxime Alexandre – e una cupezza malata diversa, che entra direttamente nel cervello del suo serial killer, filtrando le immagini attraverso il punto di vista dei suoi occhi. E anche della sua mente. Insomma, due film diversi che raccontano la stessa storia.Va da sé che io rimango fedele all’opera prima per questioni puramente sentimentali: avevo trent’anni, che altro c’è da aggiungere?