Tre partite di Dino Meneghin [Lettera 32]

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di Beppe Giuliano

Gara-2. Mosca, 30 luglio 1980

Jugoslavia-Italia 86-77

 

Ci giocavamo per la prima volta la vittoria in una Olimpiade. Certo, a Mosca del 1980 per via del boicottaggio non c’erano gli statunitensi sempre campioni, sola eccezione la famosa finale di Monaco 1972, quella vinta 51-50 dai sovietici con un canestro sulla sirena, molto controverso, di Alexander Belov.

Prima di Monaco gli americani avevano un record olimpico incredibile: 63-0. Sessantatre vittorie e zero sconfitte! Fu una partita dal punteggio bassissimo coi sovietici sempre avanti fino al vantaggio USA quasi allo scadere con due tiri liberi del futuro 76ers Doug Collins. Da lì iniziò un interminabile finale, durato un secondo ma rigiocato varie volte e, a referto, concluso con il canestro della vittoria appunto di Alexander Belov, che in breve passerà da eroe olimpico a incarcerato per contrabbando di jeans (sic!) a morto nemmeno trentenne per un tumore cardiaco, questa almeno la versione ufficiale ma quando un ragazzo moriva in un carcere sovietico i dubbi venivano almeno sussurrati.

In quella Olimpiade, in cui gli statunitensi per protesta non andarono sul podio a ritirare l’argento, noi con Dino Meneghin perdemmo la “finalina” contro Cuba. Il nostro medagliere olimpico della pallacanestro restava a zero.

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Nell’estate del 1980 Meneghin arrivò a Mosca carico di trofei, vinti tutti a Varese, prima Ignis poi Mobilgirgi: sette scudetti, cinque Coppe dei Campioni più due Intercontinentali, e due Coppe delle Coppe, l’ultima appena conquistata battendo in finale i grandi rivali brianzoli di Cantù, con sulle maglie il logo Emerson e in campo della grande armata gialloblù insieme a lui solo più Bob Morse, e Aldo Ossola che dopo l’incontro si sarebbe ritirato.

Dino aveva da poco compiuto trent’anni, di cui metà giocati nella serie A della pallacanestro, era il giocatore italiano più conosciuto e il più temuto, forse perfino dagli slavi che essendo fortissimi sul campo ma soprattutto sicuri di sé fin oltre l’arroganza, mediamente non temevano nessuno, mai.

Quel torneo olimpico fu per noi pieno di alti e bassi, tra gli alti la clamorosa vittoria 87-85 contro i padroni di casa sovietici che ci portò in finale.

Quattro giorni dopo la vittoria contro l’URSS scendevamo sul parquet dell’Olimpijskij con un quintetto titolare dove, insieme a Meneghin, erano Renato Villalta, il nostro miglior realizzatore, razza Piave ma pallacanestro bolognese sponda Virtus, il suo compagno di club Pietro Generali, naturalmente l’ingegner Marzorati, Pierluigi detto Pierlo, mito del basket canturino, e Mike Sylvester, americano di nascita dal tiro anomalo che appena naturalizzato era diventato Michele Silvestri, come l’altro mitico canturino Bob Lienhard era ormai Roberto Linardi.

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Anche loro avevano un quintetto da mitologia della palla a spicchi a partire da Kreso Cosic, l’unico slavo che era andato a fare il college in America e lì a Brigham Young era diventato mormone immediatamente guadagnandosi il soprannome di “vescovo”, in una squadra dove c’era pure un Re.

Affidiamoci al racconto di Sergio Tavčar, la ormai leggendaria voce della pallacanestro jugoslava il sabato su Telecapodistria: “Delibašić diventò “Kinđe”, leggi Chingie, vocativo dell’inglese King, a fare da contraltare all’idolo per eccellenza degli sportivi di Sarajevo, il calciatore Safet Sušić (quello che poi in puro stile balcanico firmò due contratti in contemporanea con due squadre italiane) che era per antonomasia il “Pape”, vocativo di Papa (essendo a maggioranza musulmana i bosniaci con ciò non intendevano nulla di blasfemo, ma indicavano semplicemente un potere da loro percepito come assoluto).”

Mirza Delibasic, grande giocatore, aveva qualche problema comportamentale e questo influenzò indubbiamente la sua tragica, breve vita. Ancora Tavčar: “il problema stava nel fatto che non era proprio un modello di vita sportiva. Durante una delle sue prime convocazioni nelle nazionali giovanili lo avevano per esempio scoperto che di mattina, prima di colazione, si scolava tranquillamente un decimo di rakija, la micidiale grappa jugoslava, ed alle rimostranze sconcertate dello staff tecnico aveva candidamente risposto che a casa sua era abituato così da sempre. Per non parlare del fatto che fumava come un turco”.

C’era lo straordinario Dražen “Praja” Dalipagić, baffuto tiratore serbo in un quintetto dove stavano pure due croati (il già citato Cosic e Jerkov) e un bosniaco, appunto Mirza.

L’altro serbo era Dragan Kićanović, “peraltro non proprio il giocatore più simpatico in partita” per ammissione dello stesso Tavčar.

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Ho un ricordo personale anche divertente di quella partita.

La vedemmo su in montagna, nell’albergo dei miei amici valsesiani.

C’era un ospite, educato signore di mezz’età, novarese di residenza ma uno dei tanti profughi istriani scappati dalle violenze del dopoguerra.

Quando il divario tra le due squadre iniziò ad aprirsi, nonostante le molte segnature di Renato Villalta, anche lui si aprì, e potè finalmente rivendicare le proprie radici.

Pla-vi.

Pla-vi.

Pla-vi pla-vi pla-vi…

Iniziò così, prima sottovoce, poi in modo ritmato sempre più incalzante, nel silenzio a intonare il suo solitario, personale tifo.

Plavi vuol dire azzurri, il colore della maglia della nazionale della Jugoslavia, così come della nostra ovviamente.

Ora. I plavi ci hanno battuto quasi sempre a pallacanestro. E quasi sempre hanno trovato modo di manifestare la loro arroganza, con minuti finali delle partite trasformati in festival dello sfottò.

Stavo, onestamente, per esplodere con quel plavi nelle orecchie e alla televisione gli azzurri, quelli nostri, ormai chiaramente sconfitti. Ci pensò, una volta di più, Dino Meneghin a rimettere a posto le cose se non nel risultato almeno nei rapporti personali (ehm) in particolare con l’insopportabile Kićanović.

Per non sembrare di parte, perché a me pare che quello tra i due sia stato un normale scontro di gioco, con perdipiù Dino subito a scusarsi, ricorro nuovamente al racconto di Sergio Tavčar:

“Purtroppo la partita finì con un brutto episodio che ebbe conseguenze di lunga durata e che può essere il motore primo dello spettacolare incidente di Limoges tre anni dopo. Sull’ultima azione della partita infatti, a risultato ovviamente ampiamente acquisito, Meneghin colpì con una ginocchiata del tutto gratuita, per quanto parzialmente fortuita, Kićanović (peraltro non proprio il giocatore più simpatico in partita) lacerandogli il quadricipite femorale, infortunio che appiedò Kićanović per tutta l’estate e che amareggiò moltissimo il giocatore serbo che cominciò a covare nei confronti di Meneghin e dei giocatori italiani in generale un rancore che, come detto, esplose violentemente a Limoges.”

Già, Limoges, europei, tre anni dopo. Quella volta, dopo un’altra gigantesca rissa in cui nuovamente Dino Meneghin fece, eccome, la sua parte, ecco quella volta la vincemmo noi.

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(in Gara-3 di “Tre partite di Dino Meneghin” si andrà avanti di un altro decennio)