Nonno Pasquale e i “ciainìsi” d’America [Un tuffo nel passato]

frisina_caldi Tony Frisina

 

 

Fino da quando ero bambino avevo sentito mia mamma raccontare cose strane ed interessanti riguardo il periodo di vita trascorso da suo padre, mio nonno Pasquale, in America e precisamente nella città di New York.

Ciò che più mi colpiva erano i racconti riguardanti i cinesi e le loro attività.

In America mio nonno ci è stato circa 12 anni e da quello che so mi risulta ci sia stato veramente bene. Si è sempre adeguato alla vita americana in maniera perfetta prima di tornare nella sua amata Calabria con qualche dollaro e incominciare – o meglio, ricominciare nel suo paese, Staiti, alle pendici Aspromonte – la sua vita di semplice contadino.

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Inoltre ricordo che da bambino, in diverse occasioni, mi avesse parlato di gente dal nome strano che in America gestiva negozi delle più svariate attività. I Ciainìsi.

Soltanto dopo molto tempo sono riuscito a capire che i Ciainìsi non erano altro che i cinesi. Italianizzando in questo modo un termine della parlata americana. Per gli americani la parola Cina si pronuncia “Ciàina” e di conseguenza è facile comprendere perché i cinesi venissero appellati in questo modo.

Nei racconti del nonno, riportati soprattutto da mia mamma, i cinesi in America erano riconosciuti come infaticabili e precisi lavoratori. Mio nonno indossava sempre camicie bianche anche quando si recava al lavoro. Le camicie erano lavate e stirate presso un negozio gestito da cinesi. A suo dire – e a detta di chiunque – non esisteva niente di meglio in questo campo. Ogni camicia veniva riconsegnata perfettamente stirata e non mostrava la benché minima pieghetta. Era come nuova.

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Un altro racconto interessante riguarda l’alimentazione.

Il sabato sera, prima di tornare a casa, si recava presso una polleria gestita da cinesi e lì comprava il necessario per il suo pranzo domenicale. Si potevano scegliere polli già pronti o, eventualmente, sceglierne uno tra quelli ancora vivi. I cinesi avrebbero provveduto all’istante a tirare il collo e spiumare il pennuto scelto. Per l’eliminazione del piumaggio era sempre pronto un calderone contenente acqua bollente nel quale l’animale – già morto o appena ucciso – veniva immerso mediante una ingegnosa carrucola per il tempo sufficiente affinché l’operazione di spiumatura potesse avvenire nel migliore dei modi. Il racconto ci dice che in pochissimi secondi il pollo era perfettamente pulito e non vi fosse la benché minima traccia di penne o piume.

Voglio ancora citare un aneddoto che si conclude con un punto interrogativo. Il nonno raccontava che chi gli aveva suggerito di recarsi presso i cinesi, gli avesse anche raccomandato di fermarsi sempre sulla strada per effettuare le operazioni necessarie e mai entrare nel retro, anche se invitato a farlo. Di questa stranezza non sono mai riuscito a dare una spiegazione logica. Mi dispiace di non aver chiesto chiarimenti riguardo a questi dubbi direttamente a mio nonno Pasquale.

Personalmente ho sempre ammirato i cinesi per la loro cortesia e per l’impegno che mettono nelle loro attività, quali che siano.

Ancora oggi vediamo anche ad Alessandria – da almeno un paio di decenni o più – attività gestite da queste persone. Lavoratori corretti e silenziosi che dedicano tutto il loro tempo al lavoro senza dimostrare segni di stanchezza e senza un solo momento di riposo o di ozio. Passo sovente davanti alle vetrine di un laboratorio per piccole riparazioni di sartoria. Marito e moglie, sempre col sorriso sul volto, lavorano instancabilmente tutto il tempo. Mai visti una sola volta con le mani in mano o a parlare tra di loro.

Una domanda sorge spontanea.

Perché, fra tutte le etnie che ormai abitano la nostra città, quella dei cinesi sembra essere la sola capace di vivere di lavoro e con dignità e a saper convivere con la gente e con il luogo che l’accoglie?