Arte viva di Roberto Masini [ALlibri]

A cura di Angelo Marenzanza

 

Una delle voci emergenti nel panorama letterario alessandrino è quella di Roberto Masini, oggi ospite della rubrica di ALlibri. Il suo nome è legato a un gran numero di concorsi in cui lo stesso Masini (a volte anche con lo pseudnimo di Robert Mass) è risultato o vincitore o finalista. Altrettanto assidua è la sua presenza su antologie legate al mondo del giallo, della science fiction e del fantastico (tra le quali, giusto per ricordarlo come compagno di viaggio, Le maledizioni di Bassavilla e Il Re in Giallo di Delmiglio Editore). Per questa domenica proponiamo il suo lungo racconto Arte Viva, tratto dall’antologia Horror storytelling del 2018 pubblicata dall’editore romano Watson, un appuntamento annuale in volume che, come ricorda stesso editore, non lascerà deluso il lettore appassionato grazie alla presenza nei 16 racconti di fantasmi, spaventose città sotterrane, statue viventi, “sorprese” inaspettate. E anche dove c’è lo zampino del Diavolo in persona, l’essere più malvagio dal quale guardarsi le spalle resta sempre l’uomo.

Buoni brividi e buona lettura con Arte Viva, un racconto tutto alessandrino e dintorni.

 

In bocca al lupo [ALlibri] CorriereAl

 Arte Viva

di Roberto Masini

 

Al bar di Valle San Bartolomeo, Angelo Arlandi e Felice Borgatta, i due scalpellini del paese, una frazione di Alessandria, nel Basso Piemonte, discutevano animatamente.

«È ora di finirla: quelle merde hanno spaccato gli specchietti di dieci auto e due parabrezza! La polizia non fa niente, il Comune non fa niente!» gridava paonazzo Borgatta, sbattendo i pugni sul tavolo.

«È vero, sono atti vandalici ma sono senz’altro ragazzini. Sono molto più preoccupato per i furti nelle abitazioni. Hanno svaligiato cinque ville e malmenato due anziani. Anche noi cittadini dovremmo fare la nostra parte!» rispondeva, pacato, Arlandi.

I vecchi del paese si divertivano un mondo ad assistere ai battibecchi tra i due scalpellini, così diversi tra loro per carattere: Borgatta sanguigno e volgare e Arlandi pacifico ed educato. E proprio la calma serafica di quest’ultimo aizzava ancor di più l’aggressività del primo.

Mentre continuava la discussione, entrò don Luca, il prete, a prendere una bibita in quell’assolato agosto del 2003. Quando se ne uscì, Giovanni, il vecchio pensionato ex ferroviere, domandò, rivolto a tutti: «Ma poi che ne è stato della Galatea?»

Molti dei presenti si precipitarono verso di lui, intimandogli di tacere; da anni nel paese quel nome veniva pronunciato a mezza bocca e solo quando proprio si era costretti. Apparteneva, infatti, a quella che tutti consideravano una strega.

Galatea Pozzi era nata nel paese nel 1929; era l’ultima di tredici figli che la signora Elide aveva avuto con Aristide, il falegname.

La signora Elide era una settimina. Per tutta la sua esistenza fu un punto di riferimento per la popolazione del suo paese e non solo, era infatti una guaritrice e una rabdomante; incarnava insomma quella che oggi gli antropologi avrebbero definito “sciamana”. Secondo la credenza popolare, molti uomini, ma anche alcune donne, potevano ricevere il loro dono attraverso eventi particolari o straordinari, come nascere appunto dopo solo sette mesi di gravidanza, guarire da una malattia mortale, ricevere in sogno o tramite visione messaggi dall’aldilà, e altro.

Elide, appunto settimina, era per tutto il paese una miracolata, se si tiene conto che all’epoca le incubatrici non esistevano e la mortalità infantile era altissima. Possedeva quindi poteri speciali come la capacità di trovare l’acqua, di guarire il prossimo, di prevedere eventi, di essere in contatto con la divinità.

Le cronache del tempo raccontano che Elide si sposò col falegname del paese, ebbe tredici tra figli e figlie, e divise la sua esistenza tra le cure della famiglia e le richieste del prossimo. I compaesani la interpellavano non solo per problemi di salute personale, ma anche per le malattie degli animali, la cui guarigione era di vitale importanza nella realtà contadina del tempo; le chiedevano anche consigli riguardanti sia le questioni familiari che gli affari. Per guarire utilizzava il suo fluido, il suo pensiero e la preghiera, e, per i più scettici, elargiva rimedi a base di erbe o semi di crusca diluiti con l’acqua salsa che sgorgava al centro del paese. Qui, in un luogo aperto ma coperto, uno di quei gazebi in muratura dove nei posti termali famosi strimpellavano le orchestrine con il compito di allietare i pazienti, circondato da una balaustra ingraziosita da colonnine, a cui si accedeva con una piccola scalinata, era possibile spillare da appositi rubinetti la fons vitae per consumarla sul posto, previo bicchiere personale portato da casa, o meglio per raccoglierla in una qualche bottiglia e portarsela via per un utilizzo più meditativo. Molte volte Elide indicava, a chi aveva problemi digestivi, di bere quell’acqua, che i ragazzi del posto avevano sempre dichiarato imbevibile; lei invece citava continuamente Marco Polo il quale affermava che l’acqua salsa fa andare a sella.

Per i suoi aiuti, la settimina di Valle S. Bartolomeo non ebbe mai a pretendere niente; quello che riceveva lo dava in beneficenza alla chiesetta del paese o direttamente a chi ne aveva bisogno.

Quando si sentì vicina alla fine, decise che doveva trasmettere ad altri le sue capacità. La sua infelice scelta cadde sull’ultima figlia, Galatea, una bellissima ragazza che faceva girare la testa a tutti i giovani del paese e non, ma che si dimostrava scostante con tutti. La mamma non riuscì a scoprire che dietro quello sguardo sfuggente si celava un essere malvagio. E così un giorno poggiò la mano sulla sua spalla e le disse, senza troppe cerimonie: «Adesso anche tu hai i miei poteri…»

Alla sua morte, dapprima molti, anche dai paesi vicini, si recarono sulla sua tomba per richieder guarigioni, confermate dalle cronache del tempo. Poi la fonte d’acqua salsa si inaridì, il grande gazebo sulla piazza rimase deserto; i rubinetti chiusi spuntavano dalla parete sulla vasca, penduli ammennicoli di un padiglione abbandonato che esaltava un passato ormai dimenticato. Perciò alla fine si rivolsero a Galatea Pozzi.

La donna scopriva vene d’acqua, guariva le mucche e i cani, ma faceva anche altro.

Tutto cominciò nel 1950 quando Giuseppe Rivera fu travolto da un’auto pirata. Il contadino era da anni in lite per ragioni di confine con Benito Straneo, il quale era stato visto recarsi, il giorno prima dell’incidente, da Galatea che abitava in una catapecchia al di fuori del paese. I valligiani unificarono i due eventi e da quel giorno cominciò a circolare la voce che Galatea fosse una strega. Prove concrete da presentare a un tribunale naturalmente non ce n’erano, ma le persone che si fermavano da lei non erano più solo compaesani sfortunati. Giungevano auto di lusso con targhe di tutta l’Italia dalle quali scendevano uomini pingui e donne ingioiellate.

Le voci si fecero più insistenti dieci anni dopo perché riguardavano incidenti capitati a persone che risiedevano ad Alessandria.

La prima fu Carla, una diciottenne che precipitò dalle scale; l’autopsia scoprì che era incinta. Di chi non si scoprì mai, ma Giuanìn, l’alcolizzato del paese, al bar, tra un bicchiere di barbera e l’altro, guardando la foto sul giornale, affermò che lui quella ragazza l’aveva vista entrare da Galatea accompagnata da un aitante giovanotto in divisa. Che divisa? Giuanìn non lo seppe spiegare mai neanche a chi gli offriva da bere.

Alla questura giunse una lettera anonima che descriveva sommariamente ciò che Giuanìn diceva di aver visto il giorno prima della tragedia. Non fu subito cestinata ma dopo pochi giorni si rivelò inutilizzabile per la scarsità di elementi identificativi del presunto amante. L’esame del DNA non esisteva ancora e, anche se ci fosse stato, sarebbe stato inutile perché non si riuscì a scoprire nessun amante nella vita, apparentemente morigerata, di Carla.

Il secondo invece fu un bimbo che morì cadendo dalla bicicletta e sbattendo il capo sul selciato. Era l’unico figlio di un ricchissimo notaio di Alessandria, morto l’anno precedente, e quindi l’unico erede di milioni di euro. Tutto il denaro passò alla vedova che da tutrice diventò erede universale. In molti l’avevano vista, il mese prima della tragedia, visitare il tugurio di Galatea.

Ormai per tutti era una strega e tutto quello che accadeva di poco chiaro nel circondario era opera sua.

L’ultimo episodio, che costrinse la popolazione di Valle San Bartolomeo a non nominare il suo nome, fu quello della spedizione punitiva. Nel 1970, in piena contestazione giovanile, un gruppo di cinque giovinastri proveniente da Genova, conosciuta la storia da parte di avventati coetanei del posto, decisero che era tempo di far conoscere alla strega, come dissero loro, la musica dei loro bastoni.

Ci andarono di notte, mentre alcuni contadini del luogo cercarono di farli desistere. Il tentativo sortì l’effetto contrario e tutto il gruppo si diresse verso la misera residenza di Galatea.

Tutto il paese era sveglio e tutti videro e ascoltarono. Dapprima si udì uno strano rumore, sembrava un motorino in lontananza; poi tutti sentirono suoni molto alti seguiti da battiti di ali e rumori di becchi. Subito dopo, grida allucinanti come se stessero sgozzando qualcuno; infine si levarono dalla casupola di Galatea alte lingue di fuoco. Tutto il paese a quel punto, scacciata la paura, corse verso l’incendio. Ma giunti a pochi metri, i compaesani scoprirono che il fuoco si era spento. Entrarono. Galatea era ancora a letto e si alzò tutta assonnata, chiedendo: «Che è successo? Che volete tutti qui?»

«Ci sembrava che fosse scoppiato un incendio!» rispose il più coraggioso dei compaesani.

«Come potete vedere qui non c’è stato nessun incendio!»

Era vero: non c’era cenere né odor di fumo. Pensarono a un’allucinazione collettiva ma qualcuno, non dandosi ancora per vinto, domandò: «Scusa, Galatea, non sono venuti a cercarti dei giovanotti? A noi avevano detto che volevano conoscerti!»

«Giovanni, vedi qualcuno qui davanti a casa?»

Non c’era nessuno ma non c’erano neppure impronte di qualcuno che fosse arrivato e poi andato via, né schizzi di sangue di persone sgozzate. Se ne andarono via tutti a capo chino. Il giorno dopo al bar molti si scambiarono le loro perplessità. Allora non avevano visto né udito niente. Eppure il fuoco, eppure le grida…

«E quei versi dei succiacapre, uccelli che da noi non si sono mai sentiti!» concluse Pietro, il cacciatore.

«Succia che?» domandò il barista.

«Caprimulgi, uccelli notturni che portano sfiga!» urlò dal fondo del locale Gigi, il figlio del farmacista che studiava Ornitologia all’Università degli Studi di Milano.

Da quel giorno nessuno nominò più il nome di Galatea.

 

Era morta il mese precedente all’età di settantaquattro anni per un attacco cardiaco; così aveva sentenziato il medico che gli abitanti avevano mandato a chiamare perché qualcuno, passando accanto alla casa, aveva avvertito uno strano fetore. Il dottor Passalacqua aveva affermato che lo stato iniziale di putrefazione non aveva minimamente alterato l’espressione del volto che appariva contratto da un terrore inspiegabile.

Nessuno andò al funerale ma tutti videro una carrozza tirata da quattro cavalli neri arrancare sulla salita che porta al cimitero del paese. Terminata la sepoltura, il custode si precipitò in paese e costrinse tutti a visitarne la tomba.

Vicina a quella della madre Elide, in granito nero con i caratteri incisi in oro, era vegliata da una strana statua in polvere di marmo bianco. A prima vista sembrava un angelo ma. guardando meglio le sue ali, si poteva notare che erano enormi ali di pipistrello; quindi quel giovane uomo dalla bellezza classica, seduto, incatenato, nudo se non per un drappo sulle cosce, con il corpo intero racchiuso dalla mandorla delle sue ali, non poteva che rappresentare Lucifero.

Alla fine di agosto giunse l’ultima notizia che riguardava Galatea: il custode del cimitero raccontò che era stato compiuto un atto vandalico sulla sua tomba. Erano state rotte le mani di Lucifero che però erano scomparse; di sicuro non erano state abbandonate in qualche parte del cimitero, che era stato setacciato tomba a tomba.

I due scalpellini non lo ascoltavano: stavano ancora discutendo della partita di ritorno di Champions finita 1-1. A Felice Borgatta ancora bruciava.

«Se quel cazzone di Kallon… se Cordoba…!»

«Mi dispiace, siamo stati più bravi e la Champions l’abbiamo anche vinta!» replicava Angelo Arlandi che se ne andò tra l’ovazione dei milanisti presenti che erano in maggioranza.

Giunse a casa, dove incontrò il postino che gli consegnò un pacco voluminoso sul quale era incollata una busta. Lo appoggiò sul tavolo della cucina, ne staccò la busta e la aprì. Conteneva una lettera.

 

Prot. n. 666/2012                                   Milano, 31 agosto 2003

                              

  Al Sig. Angelo Arlandi

                                Via della Vecchia Fontana, 4

                                15122 Valle S. Bartolomeo (AL)

 

Egregio Sig. Arlandi,

quella che sta leggendo non è una semplice lettera ma una vera e propria proposta di contratto.

All’interno della scatola troverà le mani mozzate dell’angelo che sovrasta la tomba della Sig.ra Galatea Pozzi, mia carissima amica.

Scoprirà che molte dita sono state spezzate e alcune addirittura sbriciolate. Il Suo compito non è di riattaccarle alla statua: ci penseremo noi. Lei dovrà semplicemente ricostruirle usando tutto ed esclusivamente il materiale contenuto nella scatola. Non dovrà utilizzare nessun altro marmo. Naturalmente tutte le ricostruzioni dovranno essere così perfette da non permettere a nessun visitatore (escludiamo gli esperti come lei!) di pensare che siano state rifatte. Per aiutarla nella ricostruzione troverà dieci foto che riproducono le due mani ancora integre. Avrà tempo fino alla mezzanotte del 31 ottobre. Anche se Le sembrerà strano, Lei è stato già pagato in anticipo. Sul Suo conto corrente bancario troverà la somma di €50.000,00. L’ultima clausola che dovrà rispettare è l’assoluta riservatezza su questo lavoro che non dovrà essere conosciuto da nessuno.

Quando avrà completato il restauro, dovrà comunicarmelo tramite lettera inviata al seguente indirizzo:

UFFICIO POSTALE DI MERONE

CASELLA POSTALE 666

LOCALITA’ 22046

Se Lei utilizzerà dell’altro marmo o se, in generale, rivelerà a chicchessia i termini del nostro accordo, o se il 31 di Ottobre non avrà completato l’opera, non solo dovrà restituire l’intera somma già accreditata sul Suo conto, ma potranno esserci altre spiacevoli conseguenze non solo per la Sua vita, ma anche per quella di coloro che Lei avesse incautamente informato. Non la prenda come una minaccia, ma semplicemente come un avvertimento che deriva dall’assoluta necessità di riservatezza per tutto ciò che riguarda direttamente o indirettamente la persona di Galatea Pozzi, ingiustamente ostracizzata dai suoi compaesani per presunte pratiche magiche che la stessa, peraltro, non ha mai esercitato.

Se non volesse accettare interamente questa mia proposta, dovrà versare l’intera somma di €50.000 presso Ufficio Postale succitato. 

Con osservanza

                   Avv. Filologo Albatros Di Re

 

Rilesse due volte la lettera senza afferrarne pienamente il significato, ad esempio ostracizzata non sapeva che cosa volesse dire. Aprì il pacco: avvolti nel pluriball c’erano due mani di marmo bianco. La destra mancava del medio e del pollice, staccati di netto e avvolti in un pacchetto a parte. La sinistra era più malconcia: mancava dell’indice e del medio dei quali era rimasta solo una parte perché l’altra era completamente ridotta in polvere. Comunque non c’erano dubbi: quelle erano le mani dell’angelo diabolico che proteggeva la tomba di Galatea.

Il nome assurdo dell’avvocato gli aveva fatto venire l’idea che nascondesse un anagramma. Quando scoprì parole come tifoso e rigore, fu sicuro si trattasse di uno scherzo, orchestrato da quell’imbecille interista di Felice.

Prima di organizzare un contro-scherzo, Angelo Arlandi telefonò alla sua banca; il suo amico vicedirettore gli confermò che sul suo conto erano stati versati con assegno circolare non trasferibile 50.000 Euro dall’Avv. Filologo Albatros Di Re, residente a Merano, un paesino in provincia di Como. Tutto controllato, tutto regolare. Lo scalpellino spense il cellulare e si lasciò cadere sulla poltrona del suo salottino. Non c’erano testimoni del suo stato confusionale: era celibe, figlio unico e non aveva più i genitori. O meglio un testimone c’era, Macchia, il suo gatto tricolore, bianco, rosso e nero. Ma non poteva certo chiedere consiglio a lui, né tantomeno a qualcun altro. Per un istante pensò a don Luca, poi scartò l’ipotesi. Si domandò ancora una volta chi potesse essere quel pazzo che pagava per due mani il prezzo di un’intera tomba di famiglia. Non c’era una risposta plausibile. Decise di dormirci su.

All’inizio del sogno si trovava nella catapecchia di Galatea. Fuori si vedeva la luna piena. La strega lo prese per mano e incominciò a parlare: «Ora brucerò foglie e scorza di limone insieme a una miscela di olibano, mirra, legno di sandalo e loto, e poi accenderò una candela bianca che metterò vicino a questo pentacolo.»

Lui chiese spiegazioni sulla parola pentacolo e la strega gli disse che era quel cerchio magico disegnato sul pavimento con una stella a cinque punte; nessun demone avrebbe potuto toccarli se fossero stati all’interno di quel cerchio.

Dopo aver acceso una candela blu e una nera, gli ordinò di chiudere gli occhi, di concentrarsi e di rilassarsi il più possibile; quando si fosse sentito pronto, avrebbe dovuto riaprirli. Trascorso qualche minuto, Galatea si spogliò completamente sotto gli occhi nuovamente aperti ed esterrefatti dello scalpellino che fu invitato a fare altrettanto. Mentre, nudo ed eccitato all’interno del cerchio insieme alla bellissima strega nuda, stava per possederla, risuonarono strane parole gutturali dalla gola della donna

«Asmodeus, Asmodaios, Ashmadia, Asmodee, Asmodei, Ashmodei, Asmodeo, Asmoden, Asmodi, Chammaday, Sydonai, Occulte detrahit ego te!»

Ripeté quelle parole per tre volte, poi aggiunse: «Asmonay, Korum, Xanay!»

Improvvisamente la luna si oscurò, cominciò a diluviare e, all’interno della catapecchia, dal nulla apparve una nuvola grigia che pian piano si dissolse, per lasciare il posto a un orribile demone con una testa d’uomo, una di toro e una d’ariete; i piedi erano di un’oca a cavallo di un drago; aveva un serpente come coda e dalla sua bocca eruttava fiamme. Non aveva mani, solo due moncherini che perdevano sangue e che rivolse verso lo scalpellino, dicendo con voce baritonale: «Tu che sei un angelo, riattaccami le mani!»

Si risvegliò alle tre di notte, urlando per ciò che aveva sognato.

Per molti giorni non riuscì a lavorare poi decise che quello, in fondo, era un lavoro come un altro per il quale, oltretutto, era già stato pagato. Ritornò alla vita di tutti i giorni, frequentando il bar e bisticciando con Felice che gli faceva insistenti domande su che cosa avesse fatto la settimana precedente nella quale nessuno l’aveva più visto in giro. Si guardò bene dal rivelargli il suo nuovo lavoro, non tanto per la paura della rescissione del contratto con conseguente sparizione dei 50.000 Euro, quanto per dover spiegare di come fosse entrato in possesso delle mani di quella statua diabolica.

Cominciò a lavorare duramente sulla mano destra e, alla fine di settembre, con perni, colle e levigature era riuscito ad attaccare il pollice e il medio. L’operazione gli sembrava perfettamente riuscita: forse nel paese solo Felice Borgatta avrebbe saputo scoprire il restauro.

Più complesso si rivelava il restauro della mano sinistra perché delle due dita, l’indice e il medio, erano rimasti solo piccolissimi frammenti misti a polvere di marmo. Dopo alcuni infruttuosi tentativi, si risolse a fissare un appuntamento con il professor Mariano Lucchini, docente di Anatomia Artistica presso l’Accademia delle Belle Arti di Torino e vecchio amico del suo defunto padre.

Durante l’incontro Angelo Arlandi non scese naturalmente nei particolari, ma gli domandò solo come poteva realizzare il restauro a fronte di elementi frantumati in minutissime parti.

«Per ottenere un risultato efficace» rispose il luminare, «dovrai usare come consolidante il Paraloid B72 all’1% che applicherai in quantità variabile a seconda del grado di decoesione e di penetrazione del consolidante stesso. Ti consiglio una stesura prevalentemente a pennello, con velina temporanea. Userei anche impregnazioni a rifiuto con fleboclisi o siringhe. I frammenti combacianti delle dita li dovrai incollare con resina epossidica. Direi che per la particolare posizione del dito indice dovrai praticare un foro per inserirvi un perno in vetroresina. A causa della collocazione in esterno di queste mani, dovrai stendere un protettivo.»

Alla fine dei consigli, il professore universitario utilizzò il suo computer per mostrargli concretamente l’uso delle particolari tecniche suggerite, attraverso vari filmati sui restauri di statue di marmo.

Lo scalpellino rincasò rinfrancato, anche se sapeva che avrebbe dovuto sborsare molto denaro per procurarsi consolidante, resine e veline. I soldi non gli mancavano: sarebbe ricorso al suo conto corrente bancario diventato così cospicuo.

All’inizio di ottobre incominciò il complicato lavoro di restauro della mano sinistra; il materiale consigliatogli dal professor Lucchini gli era costato caro ma era risultato molto efficace.

A metà ottobre il lavoro era quasi ultimato, occorreva solo aspettare un po’ di tempo per il definitivo consolidamento dei materiali.

* * *

 

Si era alzato presto per vedere il Gran Premio di Suzuka; lui, ferrarista sfegatato sperava nella vittoria finale di Schumacher, anche se la situazione era molto tesa: 92 punti per Schumacher, Räikkönen con 83 e a seguire Montoya con 82, che però non poteva più aggiudicarsi il titolo in quanto aveva vinto soltanto due Gran Premi contro i sei di Schumacher.

Mentre Michael Schumacher stava tornando ai box, avendo danneggiato la vettura in un sorpasso nei confronti del giapponese Sato, bussarono alla sua porta.

«Chi può essere a quest’ora di mattina?» pensò.

Guardando attraverso i vetri della finestra scoprì trattarsi di Felice Borgatta. Dopo aver riflettuto un attimo sul da farsi, decise che non poteva lasciarlo fuori ma nello stesso tempo non voleva si accorgesse del lavoro che stava facendo. Quindi con un balzo chiuse a doppia mandata la porta del laboratorio e poi aprì allo scalpellino.

«Ehilà, ti ha buttato giù dal letto quella simpatica di tua moglie?» lo apostrofò Angelo, utilizzando una battuta che era patrimonio dell’intero paese, dato che la donna, che si chiamava Maria, veniva chiamata da tutti Santippe, come la bisbetica moglie di Socrate.

«No… è che… » balbettò Felice.

«Su, vieni dentro e dimmi ciò che devi!»

«Ti ho mica disturbato? Ma no: sei già in piedi!» si diede da solo la risposta per rincuorarsi.

«E invece mi stai proprio, come diresti tu, rompendo i coglioni perché, come puoi capire da solo se guardi verso il televisore, stavo guardando il Gran Premio!»

«Ecco, siccome non ti si vede più in giro, volevo chiederti se avevi per le mani un lavoro grosso, e siccome io in questo momento sono disoccupato, volevo chiederti se avevi qualcosa anche per me.»

Angelo era sicuro che quella non era altro che una scusa banale: la curiosità insaziabile di Felice, unita a una certa qual misura d’invidia, l’aveva spinto fino là, non certo il bisogno di denaro, dato che il paese si era diviso equamente da anni tra i clienti dei due scalpellini che venivano contattati, quasi ogni settimana, ora dall’uno ora dall’altro dei compaesani. Così mentì spudoratamente.

«Mi avrebbe fatto piacere aiutarti ma purtroppo per le mani non ho altro che i soliti lavoretti che sono anche quelli che fai tu in questo mese. Se mi capiterà qualcosa che non riuscirò a gestire da solo, ti chiamerò; sta’ sicuro!»

La risposta suonò clamorosamente falsa alle sue stesse orecchie: non era un attore consumato né un mentitore professionista. Nello stesso tempo, dicendo che non aveva nulla per le mani, si accorse che la sua risposta avrebbe potuto suonare addirittura spiritosa, se solo Felice avesse saputo la verità. Comunque gli sembrò che quelle parole ipocrite avessero concluso la discussione, consentendogli di congedare l’intruso e riprendere la visione del Gran Premio.

Invece, proprio mentre se ne stava andando, Felice si bloccò a osservare un sacco di Paraloid B72 che Angelo aveva accostato alla porta del laboratorio.

«Ma allora non è vero che non hai un cazzo da fare: hai tanto da fare, se devi usare tutto quel carissimo consolidante!» gridò paonazzo Felice che con un balzo raggiunse la porta del laboratorio, tentando di aprirla. La trovò chiusa e, mentre la scuoteva inutilmente, fu afferrato alle spalle da Angelo che lo cacciò di casa con un calcio, urlandogli: «E non farti più vedere da queste parti: non vorrei essere costretto a usare la doppietta di mio padre!»

 

Angelo non esultò quando Schumacher, pur giungendo solo ottavo, ottenne il sesto titolo iridato con due punti in più di Räikkönen: l’intrusione di Felice l’aveva scombussolato e, anche se non ci voleva credere, era stato sul punto di ammazzarlo, pur di conservare il segreto di quel lavoro.

Giunse la sera e poi la notte. Angelo non riusciva a prendere sonno; si rigirava nel letto pensando non solo alla lettera dell’avvocato ma anche a quella strega di Galatea. Com’era possibile che prima di morire avesse dato istruzioni di conservazione della sua tomba, scegliendo proprio lui?

Quando era più giovane, era stato avventato. Era stato proprio lui a indirizzare alla questura quella lettera anonima che indicava in un abitante di Valle S. Bartolomeo, tal Giovanni Ferrari, il testimone oculare della visita di Carla, la diciottenne incinta precipitata dalle scale, alla catapecchia della signorina Galatea Pozzi, accompagnata da un ragazzo in uniforme. Dopo che l’ebbe spedita, si pentì perché, anche se non credeva nella magia, pensava che in qualche modo la strega gliel’avrebbe fatta pagare. Invece non successe nulla. Ma ora pensava che  quella donna avesse aspettato tutti questi anni per proporgli dall’aldilà una prova che però non si poteva superare e che perciò l’avrebbe condotto a chissà quali situazioni pericolose. Si domandava ancora perché invece a quella prova così difficile non fosse stato sottoposto Felice, anche lui oggetto di rancore da parte di Galatea per aver abbandonato quasi sull’altare sua sorella Eufemia.

Si alzò, tutto sudato, e andò al bagno per lavarsi. Mentre si asciugava la faccia, sentì uno strano rumore, come di qualcuno che cercava di forzare la serratura. Lasciò cadere l’asciugamano, pronto a precipitarsi nell’ingresso, ma si bloccò. Sullo specchio erano apparse delle lettere che sembravano scritte con il sangue e che dicevano: AGGIUSTA QUELLA MANO, IMBECILLE!

Ancora inorridito, fu distolto dalla lettura dal miagolio del suo gatto. Si precipitò in cucina e vide Macchia con il dorso inarcato, il pelo dritto, le orecchie all’indietro, che emetteva un ringhio sommesso seguito da sibili e che guardava verso la porta dell’ingresso. Angelo andò a prendere il fucile e poi molto lentamente aprì la porta. Fuori era buio pesto ma all’improvviso apparve una specie di nebbia bianca che si condensò in una piccola nuvola che cominciò a roteare su se stessa creando un vortice. A quel punto Macchia attaccò, soffiando, in direzione della nuvola. Fu risucchiato dal vortice; si sentì un miagolio altissimo e poi lo stesso vortice lo risputò con il pelo bruciacchiato e ricoperto da una viscida sostanza verde. Angelo lo lavò ripetutamente ma gli rimase attaccato uno strano odore come di carne putrescente.

Il giorno dopo, quando si svegliò, era una bella giornata di sole, piena dei colori dell’autunno. Si stiracchiò nel suo cortile, pensando che tutto quello che gli era successo la notte prima fosse solo un sogno. Non c’erano vortici né scritte di sangue né odori di morte. A tal proposito si guardò intorno alla ricerca di Macchia; lo chiamò più volte ma non si fece vedere. Tentò di allettarlo con la solita ciotola di latte e ci riuscì. Macchia spuntò fuori dalla legnaia e corse verso il latte. Ma quando Angelo cercò di accarezzarlo, gli soffiò contro e lo graffiò alla mano sinistra. Da quel giorno Macchia non si fece più accarezzare da lui né entrò più in casa.

«Non sei più il mio gatto!» gli urlava. «Vattene da qui!»

La ferita non era profonda e così fu sufficiente lavarsi bene la mano con acqua calda e sapone, risciacquando sotto l’acqua corrente, asciugandola con cura e applicando una pomata antibiotica che aveva in casa. L’aria fresca poi la cicatrizzò velocemente.

Aveva perso il gatto ma aveva riacquistato l’uso di entrambe le mani che gli servivano per completare la sinistra del diavolo, come avrebbe detto don Luca.

 

* * *

 

Il 30 di ottobre, il giorno prima della fatidica scadenza, Angelo ammirava, soddisfatto di sé, entrambe le mani perfettamente rifatte. Si concesse un grappino, brindando al suo successo, e poi ritornò nel laboratorio. Mentre stava per riporre le mani in due appositi contenitori, sentì un miagolio; si girò e vide Macchia che trotterellava verso di lui e raggiuntolo cominciò a fare le fusa, strofinandosi contro le sue gambe.

«È di nuovo il mio Macchia!» pensò.

L’aveva già sollevato tra le sue braccia, quando il gatto scartò, si divincolò, balzò sul tavolo, fece cadere la mano sinistra che invano Angelo cercò di afferrare al volo. Ma nel momento in cui la mano cadde a terra, Angelo pensò che non lo avrebbe ammazzato: era il giorno fortunato per entrambi perché la mano era atterrata sopra un mucchietto di sabbia. Chinato per riprendersela, Angelo s’immobilizzò, impietrito: non sapeva bene come, ma una piccola scheggia si era staccata da un dito; il gatto se l’era presa in bocca ed era sparito nella notte.

Mise la mano controluce; all’unghia del mignolo mancava un minuscolo frammento. Che fare? L’opera non poteva certo dirsi perfetta e, d’altro canto, per ripararla doveva ricorrere a un materiale non presente nel pacco. Poteva il suo contratto essere rescisso per un frammento quasi invisibile? Ci pensò tutta la notte senza poter dormire. A mezzanotte si alzò e con una quantità infinitesimale di polvere di marmo aggiustò l’unghia. Il collante avrebbe fatto subito presa e la mattina l’opera sarebbe stata perfetta. L’avvocato non avrebbe potuto scoprire niente.

 

* * *

 

La sera di Halloween anche Valle S. Bartolomeo risuonava delle grida dei bambini che bussavano alle porte, proponendo:

«Dolcetto o scherzetto?».

Sembrava di essere in pieno New England.

Angelo Arlandi non si curava di quel chiasso: stava vergando la lettera che comunicava all’Avvocato Filologo Albatros Di Re che il lavoro era stato ultimato. Poi senti picchiettare alla finestra; si affacciò e si trovò di fronte a Galatea completamente avvolta dalle fiamme che allungando mani adunche, gli gridava: «Hai fallito! Ora vieni da me!»

Richiuse la finestra, portandosi le mani davanti agli occhi; quando le scostò per guardare nuovamente fuori, non vide più nulla. Si domandò se soffrisse di allucinazioni e si rispose di sì.

Ritornò al tavolo della cucina per completare la lettera. Scoccò la mezzanotte e la lettera dell’avvocato che Angelo aveva riposto sulla credenza all’improvviso prese fuoco.

Non si fece domande sull’irrazionalità dell’evento ma si precipitò a spegnere quel principio d’incendio. Ci riuscì ma della lettera non rimaneva che cenere.

Non credeva ai suoi occhi: era scomparso l’intero suo contratto. Non aveva segnato l’indirizzo dell’avvocato da nessuna parte ed essendo venerdì, fino a lunedì non avrebbe potuto recarsi in banca per verificare se c’erano ancora i suoi soldi.

Con un moto di stizza si avvicinò ai contenitori nei quali aveva riposto le mani dell’angelo diabolico e li estrasse, ammirando il restauro perfettamente compiuto. Li teneva strette vicino alla faccia e fu a quel punto che quelle mani di marmo si strinsero intorno alla gola dello scalpellino. Anche se in un primo momento era paralizzato dal terrore, subito dopo l’istinto di conservazione lo spinse ad allontanare da sé quella stretta mortale con tutta la forza delle sue braccia, ma tutto era inutile: le mani non si spostavano di un millimetro, anzi si stringevano sempre di più. Gli sembrava che la sinistra avesse più forza della destra e quindi si concentrò su quest’ultima. Tirò, tirò senza risultato apprezzabile; poi, roteando gli occhi, vide il martello con il quale, il giorno prima, aveva attaccato una bruttissima stampa che riproduceva una spiaggia tropicale. Lo afferrò e cominciò a colpire, a colpire, mentre si sentiva svenire. Strabuzzò gli occhi: il martello non riusciva a scalfire la mano. Tentò di gridare ma non uscì nulla dalla sua bocca spalancata; la stretta continuò fino all’ultimo affannoso respiro.

 

* * *

 

La polizia fece indagini velocissime che portarono all’incriminazione di Felice Borgatta: la maggior pressione sulla parte destra del collo aveva indotto gli inquirenti a ipotizzare che l’aggressore, posto di fronte, fosse mancino e Borgatta lo era ma, soprattutto, la polvere di marmo intorno al collo di Angelo Arlandi aveva lasciato impronte parziali delle mani che lo avevano strozzato. Quelle di Borgatta. Tutti in paese conoscevano la loro rivalità. Il GIP concesse i domiciliari per le sue condizioni di salute, chiudendo il caso.

Qualche settimana dopo il custode del cimitero rivelò che le mani dell’angelo satanico di Galatea risultavano perfettamente al loro posto.

 

* * *

 

Il vice ispettore Bagliani bussò alla porta del commissario.

«Entra, entra, Bagliani, accomodati. Dimmi!»

«Commissario, ho qui alcuni oggetti che abbiamo repertato nella casa di Angelo Arlandi. Sembrano tutti senza importanza. L’unico elemento strano è questo foglietto, dove lo scalpellino si è divertito ad anagrammare uno strano nome: Avv. Filologo Albatros Di Re. Aveva scritto dapprima parole banali come tifoso e rigore e poi nomi oscuri come Belfagor e Ilvastor.»

«A cosa corrisponderebbero questi nomi?»

«Belfagor è uno dei sette principi dell’inferno, secondo la demonologia cristiana, e Ilvastor è il demonio della carne. Oltre a questi due nomi in fondo al biglietto c’è un’annotazione che dice che Albatros è il nome di un demonio della gola e del torace. Per tentare di scoprire il movente di Felice Borgatta forse sarebbe il caso d’indagare sulla figura di Galatea Pozzi che molti in paese consideravano una strega!»

«Parce sepulto; lascia stare. Sono tutte minchiate. Archivia tutto. Arrivederci.»

Il vice ispettore tornò alla scrivania e, prima di buttare il foglietto, volle cimentarsi con l’anagramma. Anche lui utilizzò le parole Belfagor e Ilvastor. Cancellandole gli rimasero sette lettere:

V  O  O  L  A  D  I.

Aggrottò la fronte e poi bruciò il biglietto.