Tre partite di Dino Meneghin [Lettera 32]

di Beppe Giuliano

 

Gara-1

Bologna, 25 aprile 1973

Ignis – Simmenthal 74-70

 

Hanno ritirato a metà novembre la maglia numero 11 di Dino Meneghin, tuttora il più grande campione della storia della pallacanestro italiana. A Milano.

Lui che per metà carriera era stato il rivale. Era quello che faceva a botte sotto canestro con il “rosso” Arthur Kenney, quando lo scudetto nei primi anni settanta era una questione privata tra la Ignis di Varese in cui giocava “Super-Dino” e le “scarpette rosse”, l’Olimpia Milano ancora Simmenthal.

Quando nessuno aveva mai visto in tivù giocare i professionisti americani e la partita dell’anno, per tre stagioni di fila, era stato lo spareggio, e proprio Meneghin con la maschera a proteggere il naso rotto in quello del 1973 ne era stato il simbolo. Naso rotto, naturalmente, in un caldissimo scontro – come scrivevano i giornali – con Arturo il “rosso”, e chi sennò: “Al 17’30” il fattaccio: Meneghin si avventa su un pallone in zona di attacco, anche Kenney si lancia verso la sfera e i due rotolano a terra. Parte qualche colpo proibito, la scena si svolge proprio davanti alla panchina dell’Ignis e i giocatori gialloblù accusano Kenney di aver tirato una ginocchiata all’avversario.”

I due combattevano ferocemente in campo ma si stimavano molto, bisogna dire. E se Zanatta raccontò divertito della volta in cui a forza di darsele, ciucchi di fatica sembravano due che tentavano di prendere le mosche, sono significative le dichiarazioni che rilasciarono in occasione di un ritrovo tra i vecchi duellanti, che coincideva con i settant’anni del “rosso”, nelle foto ricordo con un papillon dai colori della bandiera americana, a dire il vero abbastanza imbarazzante.

Mi infastidisce quando Kenney viene etichettato come un boxeur prestato al basket – disse Meneghin, come riporta il sito dell’Olimpia – perché poteva giocare in due ruoli, aveva tiro, era atletico, prendeva i rimbalzi ed era soprattutto un giocatore di squadra. Non lo conoscevo prima che arrivasse al Simmenthal ma ho impiegato poco a capire com’era”. E Kenney, che era in realtà un campione di quelli che lasciavano per ultimi il palazzetto, di nuovo a tirare dopo la fine degli allenamenti: “Per me è stato come trovarmi in Paradiso a Milano. Io e Meneghin avevamo lo stesso DNA vincente. Gli invidio solo i due spareggi vinti soprattutto quello di Bologna 1973. Feci due falli stupidi, uno su un tiro da fuori di Bob Morse. Non si fa mai fallo su un tiro da fuori. Ho ancora gli incubi. Ogni tanto la sogno, mi agito e mia moglie la mattina dopo confessa a mia figlia che “sì, ho avuto ancora quell’incubo”. So che sono passati più di 40 anni ma mi dà ancora fastidio”. “La gente vede i tabellini di quelle sfide, legge Kenney 24 e si sorprende – aggiunse Meneghin – secondo la narrativa era un lottatore, ma era molto più di questo”.

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Quell’anno le sfide tra le grandi squadre della pallacanestro italiane erano state due in più. Oltre alle partite di campionato avevano giocato infatti l’una contro l’altra le semifinali di Coppa dei Campioni. Venivano da due campionati consecutivi risolti allo spareggio, e ne avevano vinto uno ciascuno. Soprattutto, stava per cambiare quasi tutto. Erano le ultime sfide in panchina tra i due allenatori già leggendari: lo slavo Aza Nikolic, quello delle battute implacabili e dei pacchetti di sigarette infilati perfino tra le alette parasole e il tetto dell’auto, avrebbe lasciato a fine stagione la panchina della Ignis. E avrebbe smesso di allenare Milano il suo grande rivale, il “principe” Cesare Rubini, l’unico italiano a stare nella Hall of Fame – mondiale, sia chiaro – di due sport, perché oltre alla pallacanestro è in quella della pallanuoto, da campione olimpico (di Londra 1948). Oltretutto, stava per finire dopo quasi vent’anni l’epoca del marchio Simmenthal sulle maglie dell’Olimpia, diventato così famoso che i pubblicitari fecero un’indagine di mercato e scoprirono che più persone lo associavano appunto alla pallacanestro, non alla carne in scatola.

Giocarono una prima volta a Milano, in gennaio, e vinse il Simmenthal 76-72, pareggiando così i conti in classifica, recuperando la sconfitta sorprendente subita a Venezia contro la Reyer sponsorizzata Splügen. Anche l’andata delle semifinali di Coppa dei Campioni fu al palazzetto di piazza Stuparich. Finì in un trionfo per Varese. Palalido espugnato, venticinque punti di scarto, finale di fatto conquistata, il ritorno la settimana successiva una passerella terminata con un punteggio per l’epoca anomalo, 115-100, sugli scudi i due stranieri della Ignis, l’americano Bob Morse che aveva appena relegato il mitico messicano Manuel Raga al ruolo di secondo straniero, all’epoca utilizzabile appunto solo in Coppa.

I varesini pagarono lo sforzo di quella trionfale partita d’andata. Tre giorni dopo a Cagliari persero di un punto contro la Brill. Vantaggio dunque che passò al Simmenthal, annullato alla penultima della stagione regolare nella famosa partita del naso rotto di Meneghin.

Appuntamento, una settimana dopo, allo spareggio di Bologna, in un altro degli impianti storici del nostro basket. Fu la sfida finale, come detto, tra le due grandissime squadre, una specie di spareggio degli spareggi. E la vinse Varese, 76-72 dopo essere stata a lungo in svantaggio, partita decisa anche dalla famosa uscita per falli di Kenney e dalle mosse tattiche di Nikolic, l’unico coach che  Rubini, come dichiarò, “subiva maledettamente”. Meneghin giocò, appunto, con la maschera a proteggere il naso rotto, fu meno dominante del solito ma la sua sola presenza sul parquet, come sempre, spostò gli equilibri della sfida.

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(in Gara-2 di “Tre partite di Dino Meneghin” si giocherà con la maglia della nazionale)