Da Vuarnet a Mario Cotelli, nacque la leggenda della valanga azzurra [Lettera 32]

di Beppe Giuliano

 

 

Jean Vuarnet era uno molto sveglio. Aveva vinto la discesa libera alle Olimpiadi del 1960 inventando la posizione a uovo, aveva creato Avoriaz, la località sciistica sopra la sua residenza di Morzine (era invece nato in Tunisia, probabilmente un unicum tra i vincitori delle Olimpiadi invernali), era imprenditore di occhiali che all’inizio degli anni ottanta andavano assai di moda e che si sono visti indossati in parecchi film, da Delon in ‘La piscina’ al grande Lebowski fino allo 007 recente di ‘Spectre’.

A lui, commissario tecnico (e come da sua indole “padre padrone”) dal 1968 al 1972 della nazionale italiana si deve la prima nascita della “valanga azzurra” ma nessuno più lo ricorda, tutti associano la nostra stagione d’oro dello sci, infatti, a Mario Cotelli che già era il responsabile della squadra e che divenne il numero uno quando la federazione poco cerimoniosamente congedò il francese.

Mario Cotelli, scomparso nei giorni scorsi, era lui pure uno molto sveglio. Contrariamente a Vuarnet da ragazzo le Olimpiadi della neve le aveva al massimo viste in televisione, ammesso che allora le trasmettessero. Valtellinese, maestro di sci e studente di economia e commercio, divenne responsabile della nostra squadra neanche trentenne, e la guidò praticamente per tutto il decennio delle grandi vittorie.

Erano anni in cui le grandi competizioni erano appannaggio quasi esclusivo degli atleti delle nazioni dell’arco alpino, con austriaci e svizzeri a dominare e noi, a parte i lontani successi di Zeno Colò, comprimari. Erano gli anni in cui, come si diceva con amici albergatori alpini, “venivano a fare la settimana bianca” gli operai di Busto Arsizio. Un benessere inedito, passeggero, e che oggi sembra irripetibile accompagnava il boom popolare dello sci, sport che scoprimmo anche grazie alle vittorie di un ragazzo che parlava più facilmente il tedesco che l’italiano, anche se sicuramente si sarebbe risparmiato pure quelle poche parole che gli toccava pronunciare.

Si chiama Gustav Thöni, è stato uno dei più grandi atleti dello sport italiano, e l’anti-personaggio per eccellenza tanto che oggi di lui non si parla praticamente più.

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Fu davvero un periodo irripetibile. A rivaleggiare con Thöni ecco l’ascesa del più giovane Pierino Gros, un guascone, l’esatto contrario nel carattere e pure nello stile tra i paletti dello slalom rispetto al campione silenzioso di Trafoi. Possiamo finalmente alimentare una rivalità sportiva che, come ben si sa, amplifica e di molto le vicende delle competizioni: lo abbiamo visto ai massimi livelli con Coppi e Bartali, poi negli anni sessanta appena terminati di nuovo nel ciclismo con Gimondi e Motta, nella boxe con Benvenuti e Mazzinghi, nel fútbol con Mazzola e Rivera.

Intorno a loro crescono altri ottimi atleti capaci di risultati importanti fino al culmine del gennaio del 1974 quando l’ordine di arrivo dello slalom gigante di Berchtesgaden allinea cinque italiani al comando: nasce quel giorno anche nell’immaginario la “valanga azzurra”.

Mario Cotelli oltre che ottimo gestore di uomini era un comunicatore straordinario. In quel periodo di sci si scrive almeno quanto di calcio, e l’Italia siede come per la finale dei mondiali davanti alla tivù nella giornata più epica, quella dello slalom parallelo che consegna a Gustav l’ultima grande vittoria contro un altro rivale più giovane e fortissimo, lo svedese Ingemar Stenmark.

(l’abbiamo già raccontato su Lettera 32: La classe di Stenmark)

Fu il massimo colpo di genio di Mario Cotelli, che restò alla guida della nazionale in tempo per contribuire alla crescita del nostro nuovo grande campione, il povero Leo David cui come sappiamo il destino fu terribilmente crudele, cosa che Cotelli ricordava sempre parlandone col groppo in gola.

Anche lui, come Vuarnet prima, se ne andò sbattendo la porta dalla nazionale che gli anni settanta non erano ancora finiti, e dopo seppe raccontare anche in televisione il suo sport con una passione magnifica.

Fino alla malattia renale che gli è costata la fine a 76 anni.