Il pesce elettrico di Enrico Fovanna [ALlibri]

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La sinistra alessandrina strumentalizza Umberto Eco...e intanto dimentica Delmo Maestri CorriereAl 1a cura di Angelo Marenzana

 

Dopo ventitrè anni torna in libreria ripubblicato dall’editore Giunti Enrico Fovanna con il romanzo Il pesce elettrico, e torna carico di tutta l’attualità imposta dal recente conflitto tra l’esercito turco e il popolo curdo. Un conflitto tanto antico quanto offuscato dai suoi contorni incerti, attorno al quale si intrecciano gli interessi delle grandi potenze e l’ambiguità della politica europea.

L’autore vive a Milano, dove si occupa di temi sociali, immigrazione, diritti umani e come giornalista de «Il Giorno».  Con Il pesce elettrico, suo romanzo d’esordio ha vinto il Premio Stresa 1996 e il premio Festival del Primo romanzo, al Salone del libro di Torino 1997. Ha pubblicato anche per E/L e Utet e realizzato reportage da Paesi in guerra all’estero, tra cui Iraq e Afghanistan.

Il romanzo racconta di tre giornalisti, Stefano, Alfredo e Barbara, davanti al mare della Turchia meridionale, all’inizio degli anni ’90. È agosto e sono venuti a prendere Pietro, inviato speciale del loro quotidiano, rimesso in libertà dopo cinque anni nella cella di un ospedale psichiatrico, dove era stato rinchiuso con l’accusa di avere fiancheggiato il Pkk, organizzazione paramilitare curda. Cinque anni durante i quali Pietro non ha mai dato notizie di sé e che hanno creato, attorno alla sua figura, un alone di mistero. Ma perché proprio Stefano, Alfredo e Barbara sono andati a prenderlo? E chi stanno davvero cercando? L’amico d’infanzia? Il grande reporter? O l’uomo mai amato? Nel cuore del Kurdistan – la più grande nazione del mondo senza Stato, smembrata da governi che l’assediano con i loro corpi speciali e le loro polizie segrete – i tre protagonisti iniziano a intravedere il drammatico puzzle della seconda vita di Pietro. Un enigma da decifrare e al contempo una pista che si dipana tra paesaggi sconosciuti, anche interiori. Vi prendono posto infiniti dettagli e folgoranti ricordi: un piccolo pesce e una brocca di vetro, un venditore di tappeti che ha studiato Jung, una donna che nasconde il passato dietro il chador. Un pastore che sogna deserti mai visti. Pagine illuminate dall’aria bianca dell’Egeo, dai bagliori dei fuochi notturni, dai profumi del mare, dei cibi e della vegetazione, che trasformano i sentimenti in energia vitale e passione civile, sullo sfondo della guerra dimenticata che anticipò l’odierno, drammatico conflitto tra il popolo curdo e la Turchia, anche fuori dai suoi confini.

 

19 agosto, Turchia meridionale

Da poco meno di un’ora ci eravamo lasciati alle spalle Bodrum, l’antica Alicarnasso, diecimila abitanti d’inverno, il doppio in estate. La provinciale aveva superato dapprima paesaggi costieri, per allontanarsi poi dall’acqua e diventare una pista d’asfalto piuttosto stretta, in un entroterra irriconoscibile, tra le pieghe di una vegetazione secca e selvatica. Al punto che cominciavo a temere di essermi lasciato sfuggire qualche indicazione.

Poi all’improvviso, a sinistra della portiera, di nuovo il mare, subito dopo una curva: l’aria bianca, la luce abbagliante, i profumi selvaggi, proprio quando mi ero rassegnato ormai a guidare ancora a lungo in collina.

Faceva un gran caldo, era quasi l’una del pomeriggio e fin dal risveglio a tutti e tre non era venuta una gran voglia di fare conversazione.

 

Infilai una mano nel taschino della camicia. Il cablogramma con il recapito del console era ancora lì. Mi rilassai. Al volante, ripensavo a frammenti di episodi appena accaduti. Che dire per esempio dell’albergatore di Bodrum, l’uomo che mi aveva salutato mettendomi in mano uno strano regalo e guardandomi fisso negli occhi, con un’espressione di riconoscenza.

La sera precedente, poco prima della cena, mentre in piedi aspettavo gli altri due nel cortile dell’hotel, guardavo distratto la tivù, piazzata sotto un albero, su un treppiede. Anche il giovane gestore, con alcuni amici, seguiva il notiziario da un tavolo vicino, sorseggiando insieme a loro una bevanda alcolica dal profumo di anice.

Kurdish terrorists, aveva detto a un certo punto la speaker del telegiornale, trasmesso nell’edizione in inglese per turisti. Sullo schermo scorrevano immagini di cadaveri, ammonticchiati dai riservisti dell’esercito regolare turco.

Kurdish partisans!, aveva replicato a voce alta l’albergatore, alzandosi in piedi all’angolo del cortile. E i suoi occhi si erano fatti piccole fessure, pregni di sentimenti contrastanti. Barbara e Alfredo tardavano, si doveva andare a cena in qualche locale, vicino al porto. Lei era sempre piuttosto lenta nel prepararsi, lui indeciso.

Guardai l’albergatore, e poi ancora il video, i corpi senza vita dei separatisti curdi. Gli uomini del Pkk, il partito dei lavoratori messo da tempo fuori legge. E poi guardai ancora il filo della corrente elettrica, che da sotto l’albero, attraverso una finestra, raggiungeva la presa all’interno di un locale.

Terroristi, partigiani. Che dire dunque di quell’uomo, di quel piccolo curdo che il giorno successivo, dopo avere firmato la ricevuta dell’American Express, avevo salutato con le prime parole che mi erano venute in mente (Long life to the Kurdish people), nel mio inglese scolastico e quasi stentato?

Lui aveva sorriso, e nel suo inglese da turco mi aveva replicato “Long life to you too“, spiegandomi poi che il suo era un governo fascista. E che io, da italiano, avrei dovuto capire.

– E’ tardi, avevo detto io, devo andare, ma mi ha fatto piacere conoscerla, e fermarmi nel suo albergo. E’ certo che ci tornerò, dovessi ripassare da queste parti.

– Ci conto, mi era sembrato di sentirmi replicare. Tenga questo, non lo consideri un regalo, anzi, lo regali a sua volta a qualcuno che le è simpatico.

– Che cos’è?

– E’ un gioco, aveva detto il curdo, un giochino inutile, di quelli che si trovano nei bazar per turisti. Un giorno capirà, credo.

– Grazie, avevo risposto. Io… ecco, tenga la mia penna.

– Non occorre.

– Tenga, la prego. Non ha nessun valore. Ma ci ho scritto tante cose, cose importanti, per me. La tenga. E la regali a qualcuno che le piace.

– Addio signore.

– Arrivederla.

 

Poi avevo preso le valigie e con gli altri due avevo caricato i bagagli sull’auto, una Renault Toros bianca noleggiata quattro giorni prima a Izmir, o Smirne che dir si voglia. Il Toros è una catena montuosa della Turchia, a Sud dell’Anatolia, davanti alla costa mediterranea che guarda Cipro, la zona verso la quale ci stavamo avviando. E quella macchina, lenta ma decisa a non perdere colpi, mi sembrò fin dall’inizio molto simile al paesaggio e alla gente del luogo, quieta, prudente, e tuttavia capace di sorprese.

Mancavano quattro giorni all’appuntamento e di tanto in tanto, quando mi figuravo la scena dell’incontro, avvertivo una leggera tensione, come un misto di paura e desiderio. Gli altri no, mi pareva: per loro c’erano comunque davanti quattro giorni di mare, luce, bagni, aperitivi. Una breve vacanza. Io, se avessi potuto, avrei accelerato il tempo e annullato l’attesa.

 

Avevamo fatto quattro passi al porto, prima di colazione, verso le nove del mattino. Davanti alle barche fastose, i cabinati, i piccoli panfili e i dodici metri, roba di gente che forse dormiva ancora. Dai balconi delle case gravavano sulle strade file di panni stesi al sole. Mi piaceva, mi dava una leggera euforia essere lì fuori, davanti all’acqua, in quell’aria chiara dall’odore di salnitro, alla mattina presto.

All’estero.

 

Seduta sulla valigia, Barbara leggeva da una guida la storia della città.

– Da queste parti una volta c’erano i Dori, i primi abitanti della baia, nell’XI secolo.

E ancora:

– Erodoto qui descrisse le guerre persiane. Attorno al 400 dopo Cristo la città divenne bizantina. Ma guarda…, gli emiri fortificarono le mura contro gli Ottomani…

– Davvero?, Alfredo ascoltava all’ombra e pareva sinceramente coinvolto.

Barbara parlò ancora delle pietre rubate dal mausoleo per costruire il castello dopo la dominazione di Gerusalemme, della città sommersa che avremmo proprio dovuto visitare (“A costo di andarci da sola”), e altro di cui persi il filo. Perché io guardavo il mare. E non sapevo più a cosa pensavo, se a Pietro, il mio amico perduto, o all’albergatore curdo, e alla sua tristezza di partigiano in clandestinità, se a quel sole che mi vedevo riflesso nell’acqua tra i legni, se a quel viaggio e a come ci ero precipitato dentro, a come già mi sentivo lontano dal giornale, dal passato e dalle cose, insomma, proprio non sapevo, e ogni tanto facevo cenno di sì con la testa, come per dire: sì, certo, ci sono, e anche per non essere scortese. E poi pensavo al mio disagio tutto dell’anima, chiamiamolo così, o forse sarebbe più corretto dire della coscienza, a quell’incapacità insomma, che mi sentivo addosso come un peso, di distinguere il sogno dalla realtà, gli eventi vissuti da quelli immaginati, i ricordi dalle fantasie.

Barbara continuava a parlare a voce alta. Alfredo leggeva le stesse informazioni, credo, ma su un’altra guida dalla copertina nera, e ogni tanto si sforzava di aggiungere qualcosa, un particolare, un piatto tipico del posto (era avanti di qualche pagina), una ricetta, un itinerario per le ore a venire.

– Scusate dissi, forse non è in tema, ma io andrei a fare colazione, che so, pane e miele, una tazza di tè, o della macedonia di frutta, un succo d’arancia. Là per esempio, quella casa bianca con la tenda azzurra, dove c’è scritto pansiyon, la vedete?, Asiyan pansiyon.

– Sì Stefano, mi aveva detto lei, che stupida. Io continuo a leggere e a parlare e invece potremmo farlo anche seduti a un tavolo. Meglio mangiare qualcosa adesso, prima di partire.

 

Il mare, dunque. Eccolo di nuovo e all’improvviso, come una visione, a meno di un’ora da Bodrum, quando invece credevo di andare verso le colline, sotto il sole del primo pomeriggio.

– Io ho fame, disse finalmente Alfredo.

E Barbara:

– Cerchiamo una bettola sul mare.

– Certo dissi, sul mare, se la troviamo. Fa molto, molto caldo, e io mi farei un raki allungato con ghiaccio.

Il raki, già. Subito dopo il telegiornale avevo chiesto al curdo cosa stesse bevendo e lui mi aveva versato il liquido biancastro in un bicchiere, mettendomi accanto una piccola brocca di acqua gelata. Un sorso di raki, aveva spiegato, e uno d’acqua. Così fa il maestro e chi impara a bere il raki non si ubriaca e tiene lontano ogni malanno.

Barbara disse: certo, hm… che sete, anch’io voglio un aperitivo ghiacciato.

Alfredo sorrise e mugugnò qualcosa di indistinto che interpretai come un assenso:

– Non è un aperitivo, tenne a precisare, non solo almeno. Si può bere anche dopo pranzo. A proposito di pranzo: dopo il raki io mi faccio un bel kebap, un sis kebap, ben condito e insaporito con spezie piccanti, in modo – lesse ancora sulla guida – da stimolare la secrezione di succhi gastrici e uccidere i batteri. E poi ancora del pilav.

Sete, fame, caldo. A un certo punto chiusi gli occhi e mi parve di essere in quei luoghi da molto tempo, anni intendo dire. Anzi, di averci proprio abitato.

Faceva certo caldo sì, proprio un gran caldo e incominciavo ad avere sonno. Eppure avevo quasi paura di dormire, di sognare ancora, di confondermi.

In basso a sinistra, tra il mare e la strada, ad Alfredo sembrò di vedere qualcosa.

– C’è una costruzione disse, un’insegna bianca. Vai piano, forse c’è anche un telefono, devo chiamare il consolato.

– Mi fermo anche se vuoi, dissi, ma non vedo niente.

– Sì, obiettò Barbara al mio fianco. Lì sotto, rallenta un attimo dai. Eccola, laggiù. Sembra una specie di trattoria, lokanta c’è scritto, non vedi? Vuol dire che ci danno da mangiare.

– Già.

Scendemmo a chiedere.

L’uomo, abbronzato e con i lunghi baffi scuri, era vestito di bianco, una camicia aperta e dei pantaloni corti. Pochi capelli, un po’ grassoccio, lo sguardo complice e solare.

– Eating?

– Mangiare sì, fece cenno Alfredo, portandosi alla bocca il pugno chiuso a carciofo. Sis, sis kebap.

– Sis Kebap?, Salata, ehr… tomatoes sir, sogan… onions, pilav… rice if you want, … as you like sir.

– Is there a phone, sir?, chiese Alfredo.

– Of course, mister.

– Okay, okay ragazzi, siamo in paradiso, disse Alfredo prendendo Barbara per un braccio e io li seguii per i gradini in cemento che scendevano la scogliera, dopo avere chiuso a chiave la Renault Toros bianca posteggiata sotto il sole. E per fortuna che è bianca, pensai.