Il fantasma di un grande treno passa per Washington [Lettera 32]

di Beppe Giuliano

 

C’è una fotografia che ha più di cent’anni, molto famosa tra gli appassionati della storia del gioco del baseball, e che oggi è quotata circa 1000 dollari nel florido nostalgico mercato delle “memorabilia” legato al “passatempo americano”. La pallina non è più piccola del normale, nell’immagine del 1914 di Paul Thompson, fotografo che ci ha lasciato moltissimi scatti dei campioni di un’era ormai lontanissima. È la mano a essere enorme.

 

È la mano di Walter Johnson che è stato uno dei più grandi lanciatori di sempre nel gioco del baseball, anche se ha vinto molto poco perché ha giocato tutta la carriera a Washington, la città “prima in pace, prima in guerra, ultima nella lega Americana” come si diceva all’epoca, e come si è continuato a dire in seguito. Infatti l’unico titolo delle Serie Mondiali della lega professionistica del baseball vinto nella capitale risaliva al 1924. Almeno fino alla settimana scorsa.

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Walter Johnson era un galantuomo. Chi consigliò di ingaggiarlo scrisse in una lettera: “Sa dove sta lanciando perché se così non fosse ci sarebbero cadaveri sparsi per tutto l’Idaho.” Aveva infatti una potenza devastante nei lanci, unita a una superiorità fisica che all’epoca faceva colpo, a partire dalle braccia incredibilmente lunghe, ma era contemporaneamente una delle persone più gentili fra i giocatori (e allora non era proprio la caratteristica per cui si distinguevano).

Ed era il più corretto quando molti lanciatori si facevano invece una reputazione malvagia, intimidendo i battitori in un’era in cui era ancora consentita la cosiddetta “spitball” cioè l’abitudine di danneggiare la pallina con diverse sostanze, soprattutto sputandoci la saliva scura da tabacco masticato, rendendola così poco visibile e imprevedibile nelle traiettorie (è del 1920 l’unico giocatore ucciso da un lancio durante una partita della lega professionistica, infatti).

Nei ventuno anni di carriera con i Washington Senators, fra il 1907 e il 1927, il suo fenomenale record fu di 413 vittorie e 277 sconfitte, una percentuale di .599; il record della squadra fu di 1559 vittorie e 1609 sconfitte, una percentuale di oltre cento punti inferiore, a .492.

Nel 1913 ebbe probabilmente la migliore stagione di sempre per un lanciatore: vinse 36 partite perdendone solo 7, con una media di punti concessi appena sopra all’uno per gara (1.14) e 243 strikeouts, le eliminazioni del battitore al piatto. Per 12 volte completò la partita senza subire punti e a un certo momento fece una striscia consecutiva di 56 inning senza permettere agli avversari di segnare. E come se non bastasse batté .261, compreso il 2 su 3 dell’ultimo giorno della stagione, quando giocò esterno centro. Chi sa qualcosa del gioco del baseball sa che sono numeri straordinari.

Quell’anno il titolo, però, andò ai Giants di New York dove giocava l’altro grande lanciatore dell’epoca, Christy Mathewson. “Branch Rickey diceva che era in grado di imparare ogni lancio all’istante e in più, con la sua impareggiabile mente da giocatore, sapeva immediatamente combinarlo con gli altri… Inoltre sembrava un Apollo – non una brutta cosa” scrisse di Mathewson il grande scrittore e giornalista Roger Kahn.

Mathewson tornò dalla Prima Guerra Mondiale, combattuta in Europa, avendo contratto la tubercolosi. Morì la notte del 7 ottobre 1925, a soli 45 anni. Quel giorno i Senators di Washington batterono i Pittsburgh Pirates 4-1 nella prima partita delle World Series. Il vincente fu proprio Walter Johnson. Dicono che quando seppe della scomparsa di Matty, divenne pallido e ammutolì.

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I Senators di Washington, che avevano una lunga storia come una delle squadre più perdenti, si giocarono il titolo mondiale un paio di volte negli anni venti. In quel 1925 erano i campioni uscenti e l’anno prima proprio Johnson, trentasettenne e verso la fine di una gloriosa carriera, fu l’eroe della decisiva gara-7, vinta solo al dodicesimo inning (una partita di baseball ne dura nove, se è in pareggio si va avanti finché non c’è un vincitore). E quello resta l’unico titolo mondiale vinto dai Senators, che all’inizio degli anni sessanta furono trasferiti nel Minnesota.

A spostarli fu il presidente, figlioccio del mitico Clark Griffith, uno con una storia da romanzo americano che era stato giocatore, poi manager, poi proprietario della squadra. Fu proprio il vecchio Griffith a coinvolgere i Presidenti nel lancio celebrativo all’inizio della stagione, una tradizione tuttora in voga, e fu lui che convinse Woodrow Wilson e Franklin Delano Roosevelt a non sospendere i campionati durante le due Guerre Mondiali.

La squadra attuale di Washington, quella che ha vinto il titolo interrompendo un digiuno di 95 anni, è figlia di un’altra rilocalizzazione, gli Expos da Montreal si sono spostati nella capitale una quindicina di anni fa, e gioca nell’altra divisione in cui è divisa la lega professionistica, quella Nazionale.

I Nationals hanno vinto delle finali particolari, in cui il vantaggio di campo è stato spazzato via: hanno infatti perso tutte e tre le partite in casa e hanno sempre battuto in Texas gli Houston, compresa la decisiva gara-7 che ha chiuso la serie.

Mi piace pensare che mentre veniva festeggiata la vittoria, nella notte di Washington il silenzio sia stato interrotto dal rumore del passare del fantasma di un grande treno, come “Big Train” era il soprannome di Walter Johnson, il più leggendario giocatore delle squadre della capitale.