Il Principio di Kirchhoff di Giorgio Merega [ALlibri]

A cura di Angelo Marenzana

 

 

Ospite per questo appuntamento di ALlibri è Giorgio Merega, autore con il quale ho avuto il piacere di condividere nel 2013 la presenza sull’antologia Novecento dell’editore genovese Cordero. Oggi, Giorgio Merega (ex ricercatore nel settore delle biotecnologie vegetali, attualmente insegnante di Scienze Naturali e curatore di corsi di introduzione alla lingua giapponese) ha dato alle stampe con Le Edizioni della Goccia di Davide Indalezio Il Principio di Kirchhoff, romanzo dove si racconta di Bruno Leone, commissario di polizia in pensione che riceve la notizia di sua nipote Cristina, giornalista d’inchiesta, rimasta uccisa in quello che sembra a prima vista un tentativo di rapina finito male. Deciso a fare luce sulla vicenda, l’uomo ritorna a Genova, dove il fatto è accaduto, incontrando una certa ostilità negli inquirenti incaricati dell’indagine. Potendo contare soltanto sull’aiuto dei pochi amici rimasti e sui documenti che la nipote gli aveva fatto pervenire, Leone riesce a ricostruire gli eventi, portando allo scoperto un complotto internazionale che coinvolge settori deviati dello Stato e del Clero e facendo anche luce su un caso rimasto per vent’anni senza risposte.

Buona lettura.

 

 

Il Principio di Kirchhoff

di Giorgio Merega

  1. Un brutto risveglio

 

29 marzo 2012, giovedì.

Richiuso il portone a doppia mandata, Bruno Leone alzò lo sguardo e osservò il cielo, azzurro e terso come non accadeva da parecchie settimane, lasciandosi avvolgere da un venticello leggero e carico di profumi che giungendo da qualche campo non ancora aggredito dalla speculazione edilizia, oltre Via del Forno Saraceno, spandeva in tutto il quartiere l’odore dell’imminente primavera. L’ex poliziotto calò i Ray-Ban a goccia sugli occhi e con passo lento si diresse verso la fontanella, posta in un angolo proprio dall’altra parte della piazza, ombreggiata da una quinta di arbusti spontanei, davanti a dove aveva posteggiato la sua macchina: una vecchia Peugeot 504 versione argentina del 1990 color grigio scuro.

I rumori del traffico giungevano ovattati, creando l’illusione di trovarsi molto distanti dalla città, anche se il Vaticano era in realtà a soli venti minuti – semafori permettendo – e la bolgia del GRA a meno di cinque.

Mentre attraversava la piazza in diagonale, l’uomo finse di ignorare lo stuolo di felini che gli si era fatto intorno. Era soprattutto Minou, una femmina tricolore, a cercare di attirare l’attenzione strusciandosi sulle sue gambe. Bruno si arrestò a mezza strada e accovacciandosi lasciò che la gattina, miagolando, gli venisse in braccio, piantando gli artigli nella spessa stoffa dei jeans. «Buon giorno, Minou,» disse il commissario accarezzando l’animale. Questa sembrava davvero soddisfatta dalle coccole ricevute e cominciò a fare le fusa, mentre anche gli altri si facevano sotto reclamando rumorosamente la loro dose di carezze. Poi, depositata delicatamente la gattina, Bruno si rialzò e parlando agli animali – che sembravano molto interessati – tirò fuori da una tasca del giaccone un sacchetto pieno di leccornie. Era un gioco al quale i gatti che popolavano la piazza del castello di Porcareccia, un microscopico agglomerato di case risalenti alla fine del cinquecento situato su un piccolo sperone di roccia nella borgata di Casalotti, erano ormai abituati.

Terminata la distribuzione del cibo, facendo bene attenzione che a Minou toccassero i bocconi migliori, Bruno andò alla fontanella per sciacquarsi le mani. Sorrise pensando ai suoi rituali del mattino. Consuetudini che molti avrebbero considerato sciocche, ma che per un attimo alimentavano l’illusione che nel caos generalizzato del mondo ci fosse ancora spazio per un po’ d’ordine.

Bruno Leone, commissario in pensione della Polizia di Stato, ex responsabile della Sezione Omicidi della Squadra Mobile di Genova, si era ritirato nel settembre del 2002, quando aveva capito che di morti e orrori ne aveva abbastanza. E così, con qualche mese d’anticipo aveva deciso di presentare domanda di pensionamento.

Leone pensava spesso al passato. E come se la sua vita fosse un film, amava riavvolgerne la bobina e rivederlo infinite volte: ora accelerando per coglierne lo sviluppo complessivo, ora rallentando per soffermarsi con la mente su qualche passaggio chiave. L’infanzia trascorsa a Primavalle, il tempo in cui tutto sembrava andare bene: un’esistenza modesta ma dignitosa, nella quale era persino possibile concedersi le vacanze estive, immancabilmente trascorse vicino a Fiuggi, al paese di mamma. Bruno ancora ricordava quando il nonno lo portava con sé nei campi, quelle levatacce quando è ancora notte e poi via, a dorso di mulo uscire dal paese e poi addormentarsi con la testa poggiata sulla giacca del nonno, circondato dal profumo del grano appena tagliato. E si ricordava anche quando tutto era cambiato, quando la sorella Paola, più grande di sei anni, gli aveva detto che i genitori erano morti, travolti da un camionista ubriaco che andava contromano sulla Pontina. La zia Virginia, sorella maggiore del padre, una vedova benestante senza figli che possedeva un paio di negozi e numerosi appartamenti, aveva preso con sé i due orfani garantendo che la loro esistenza si svolgesse senza eccessivi cambiamenti. Ma con il passare dei giorni, Bruno avvertiva crescere dentro di sé la presenza di un vuoto che niente e nessuno sarebbe riuscito a colmare, un dolore costante che solo a tratti e per brevissimi istanti riusciva ad anestetizzare.

I primi anni furono i più difficili, soprattutto quando la sorella trovò lavoro come impiegata presso una società petrolifera a Genova. Non che la zia Virginia, che adorava i nipoti – e in modo particolare il più piccolo – gli facesse mancare qualcosa. Ma perché Bruno non riusciva proprio a farsi una ragione dello svanire della propria famiglia. Tuttavia il giovane Leone decise di stringere i denti e andare avanti, mettendo tra sé e il mondo una corazza invisibile.

Subito dopo l’esame di maturità, Bruno decise di arruolarsi in Polizia, per seguire le orme paterne. Terminato il periodo di addestramento e grazie all’interessamento di qualche vecchio amico del padre, riuscì a farsi trasferire a Genova, raggiungendo così la sorella che nel frattempo s’era sposata con un dentista del posto.

Il primo incarico, in archivio, gli lasciava un sacco di tempo libero, così Bruno riprese gli studi, per la gioia della zia Virginia e anche dell’amministrazione: erano anni in cui avere un giovane sveglio e ambizioso che si muovesse nel milieu dell’ambiente universitario poteva essere molto utile. E così i superiori chiusero un occhio quando Leone si fece crescere barba e capelli, quando partecipò a occupazioni e nelle manifestazioni si trovava sempre in prima linea. Bruno aveva stoffa anche se era impossibile tenerlo sotto controllo, e questo gli evitò parecchi guai. Quando conseguì la laurea in Scienze Politiche venne chiamato dal Questore in persona, che pur non amando quel ribelle insolente e sempre al limite dell’insubordinazione, ne apprezzava le qualità professionali. E ciò era tutto quello di cui davvero gli importasse.

«Lei è sprecato in un ufficio. Fra due mesi ci sarà un concorso interno. E se lo passa, potrà accedere ai ruoli investigativi. Abbiamo bisogno di funzionari come lei».

E così fu. Bruno superò la prova – secondo su duecentoventi candidati – e dopo un periodo di addestramento teorico e pratico venne gettato nella mischia. Per circa quindici anni Bruno si spostò attraverso il paese, il che, se da un lato gli impedì di mettere radici da qualche parte – ma lui, in fondo, non ne voleva altre oltre a quelle che già possedeva –  dall’altro gli permise di accumulare una notevole esperienza e salire rapidamente la scala gerarchica diventando in poco tempo il più giovane primo dirigente del paese.

Poi, un giorno gli venne proposto direttamente dal capo della Polizia un incarico di prestigio presso la Questura di Genova: guidare la Sezione Omicidi della Squadra Mobile. L’occasione di una vita. Avrebbe finalmente guidato una squadra tutta sua. E visto che non gli spiaceva l’idea di ritornare e nel frattempo la sorella Paola aveva avuto una figlia, Bruno decise di accettare con entusiasmo.

Ma dopo vent’anni non ce la faceva più. A un certo punto, decise di fermarsi. Bruno era convinto che un viaggio in India – fatto durante un lungo periodo di convalescenza per causa di servizio – avesse giocato un ruolo fondamentale nella sua decisione. Non poteva affermare di avere raggiunto uno stato di illuminazione, così come non poteva dire di avere compreso al meglio il ciclone emotivo che lo aveva attraversato sin dall’arrivo all’aeroporto di Mumbai, anzi, che lo aveva posseduto per tutta la durata della sua permanenza nel subcontinente, stimolandone in continuazione i cinque sensi, rivoltandolo come un calzino, demolendo in modo spietato certezze vanamente costruite nel corso degli anni e costringendolo a guardare veramente dentro di sé, senza ipocrisie o paure. Tuttavia qualcosa gli era sembrato infine di capire: che niente sarebbe più stato come prima e che era finalmente giunta l’ora di prendere in mano la propria vita.

E poi era stanco: stanco di orrori, di sangue, di una geografia criminale che stava rapidamente mutando, assai più velocemente della sua capacità di adattamento. Il commissario Leone aveva vissuto troppo tempo frugando negli angoli oscuri, fiutando il puzzo del male e si era convinto che se non avesse mollato la presa, un po’ di quel male avrebbe finito per restargli attaccato addosso, dannandolo per sempre.

Fortunatamente Bruno aveva maturato anni a sufficienza per chiedere il pensionamento con un leggero anticipo senza rimetterci eccessivamente. D’altra parte, non aveva problemi economici grazie a quanto la Zia Virginia gli aveva lasciato in eredità. Nel lascito v’era compreso anche un appartamento nell’area del Castello di Porcareccia. E così Bruno, pur non tagliando completamente i ponti con la sua vita genovese, si disse che era ormai tempo di rientrare a casa. Sorrise. Chissà se i suoi, da lassù, potevano vederlo. Certo, invecchiato e appesantito, ma alla fine era tornato.

I gatti si erano stesi pigramente al sole. Difficile immaginare qualcosa di più profondamente romano. Pensò a sua nipote Cristina, cronista di nera. che amava i gatti ed avrebbe apprezzato la scena. Bruno rimuginò sull’ultima telefonata: si era dovuto arrendere alla determinazione della giovane, ma continuava a non sentirsi tranquillo. Forse avrebbe dovuto insistere, ma le donne, anche le giovani nipoti, sanno come metterti a perdere. Ma Bruno era determinato – una caratteristica di famiglia – e avrebbe trovato il modo di convincere Cristina a prendersi una pausa, magari a trasferirsi a Roma e cambiare genere di lavoro. Qualcosa di più tranquillo che non la costringesse a occuparsi dei lati oscuri.

Era questo il momento della prima pipata della giornata e della solita passeggiata che, scendendo verso Via Boccea, lo avrebbe portato prima all’edicola e poi al Bar Gualtieri per la colazione: caffè americano in tazza grande e maritozzo con la panna, come d’abitudine. Tornando, si sarebbe fermato al supermercato per la spesa. Doveva ricordarsi i croccantini per i mici.

Quella mattina, Bruno aveva scelto di accompagnarsi con una Butz Choquin Mirage e, tenendola ben salda tra i denti, stava accendendo con un fiammifero la mistura inglese con la quale l’aveva caricata, quando un’Alfa 156 di colore bianco si accostò. Anche se priva di insegne, Bruno riconobbe immediatamente un’auto di servizio. Dal lato passeggero scese un tizio baffuto che chiunque avrebbe subito individuato come sbirro. L’uomo si avvicinò.

«Commissario Leone?» chiese conoscendo già la risposta.

«Sono io» disse Bruno, avvolto da una densa nuvoletta di fumo azzurro.

«Dovrebbe seguirci in Questura per delle comunicazioni urgenti» disse l’uomo, mostrando il tesserino.

Bruno fissò perplesso il poliziotto, mentre nella sua mente stava facendosi strada un timore che non riusciva a impedirsi di pensare.

«Andiamo» disse salendo sulla vettura.

Lungo il tragitto, nessuno dei presenti disse una parola, ma la tensione che si avvertiva in quel silenzio innaturale aveva il sapore delle cattive notizie. Arrivati a destinazione, l’agente con i baffi lo accompagnò negli uffici della Squadra Mobile, dove gli si fece incontro il dottor De Nicola, dirigente della Sezione Omicidi.

Anni di mestiere avevano insegnato a Bruno a leggere anche nelle pause, nelle posture e persino nell’imbarazzo delle persone. Dentro di sé, sapeva perfettamente il motivo della convocazione e niente di quello stava per sentire avrebbe costituito una sorpresa. La sola cosa che gli interessava conoscere era il “come”.

Leone abbozzò un saluto e si accomodò su una poltrona davanti alla scrivania del funzionario. Questi si accomodò a sua volta e per un breve istante i due poliziotti si guardarono negli occhi. Poi, Bruno abbassò leggermente il capo, attendendo il colpo della mannaia.

«Non c’è mai il modo giusto per dire certe cose, come sapete» esordì De Nicola, che evidentemente aveva scelto il modo più diretto per informare il collega. «Dunque, abbiamo ricevuto una comunicazione dalla Questura di Genova. Mi duole informarla che sua nipote, Cristina Fabbri, è stata trovata cadavere l’altra notte nel suo appartamento. Assassinata. Non abbiamo molte notizie, al momento, ma si sospetta possa trattarsi di una rapina finita male».

Il dirigente sembrava spiazzato dal silenzio di Bruno, che sembrava non avere reazione. Possibile che il collega rimanesse così imperturbabile di fronte alla notizia? Certo che se davvero tanti anni trascorsi in Polizia ti rendono così algido, si tratta veramente – come spesso gli diceva la moglie – di un lavoro di merda.

In realtà Bruno sentiva ribollire un vulcano di emozioni dentro di sé, ma sapeva per esperienza – e fin da ragazzo – che non bisognava lasciarle uscire davanti agli estranei. Ma occorreva reagire, lucidamente e fare la cosa giusta. E la cosa giusta per Bruno, in quel momento, non era rimanere lì dove si trovava. Il commissario Leone si alzò di scatto e fissando dritto negli occhi il funzionario disse: «Se non c’è altro, io andrei. Devo preparare la valigia e andare da Cristina».

«Certo, mi rendo conto. Da Genova i suoi ex colleghi le hanno riservato un posto sul volo delle 13.00. Se permette, l’ispettore Marendino» questo il nome del poliziotto baffuto «l’accompagnerà a casa e poi a Fiumicino. Di qualunque cosa avesse bisogno, non si faccia scrupolo a chiedere. Se non ci si aiuta tra di noi…» disse De Nicola, e tendendogli la mano aggiunse: «Mi dispiace davvero».

«Lo so, la ringrazio» rispose il commissario stringendo la mano del funzionario e, facendo un cenno all’ispettore che era rimasto un po’ in disparte, aggiunse: «Andiamo, Marendino, sbrighiamoci».