Per i tanti Senzabrera. Come me [Lettera 32]

di Beppe Giuliano

 

 

Han fatto cento anni dalla nascita di Gianni Brera, che è stata giustamente molto ricordata, e molto si è tornato a raccontarlo, nella sua straordinaria unicità.

D’altronde, come scrive Gianni Mura sapeva rendere epica “anche la nascita settembrina col fatto che nella Bassa pavese le donne non potevano uscire a lavarsi, d’inverno, per il freddo, post coitum”.

Figurarsi quando scriveva di sport, o meglio “attorno allo sport”, perché in ogni suo articolo c’erano così tante diverse cose che la semplice cronaca dell’avvenimento sportivo era molto spesso un contorno, soprattutto da quando era passato a Repubblica nell’ultimo decennio della vita, e il giornale rispettava l’iniziale scelta di non uscire il lunedì, cioè non gli dava la possibilità di scrivere delle partite che ancora si giocavano rigorosamente la domenica.

La Padanìa

Era bassaiolo, ancor prima che lombardo, molto orgoglioso delle sue origini, della bellezza delle sue terre lungo il grande fiume così come della vita, frugale per necessità, che i suoi vecchi avevano vissuto. Rivendicava quell’essere della Padanìa (con l’accento sulla i), ben diversa dalla Padània che già quando lui morì nel 1992 era diventata pretesto per il consenso elettorale, uso che non gli piaceva.

Ne cantava la gente, i vini (chi conoscerebbe altrimenti il Barbacarlo di Lino Maga?), i cibi compresi quelli poveri, di nuovo per necessità, causa dei suoi femori corti scriveva (i femori si allungano a mangiare tanta carne, un lusso che di certo a San Zenone Po non ci si poteva consentire).

Vale la pena rileggere, perché spiega il concetto meglio di ogni parola, quello che scrisse di uno dei calciatori che più aveva, da ragazzo, ammirato:

“L’Inter alleva nelle sue file un plebeo di genio, brutto quanto può esserlo un lombardo del quarto o quinto stato, certo Giuseppe Meazza.”

Così come ammirava un altro campione degli anni venti/trenta, e con questo ci avviciniamo a “Mandrolandia” (altro magnificente neologismo breriano):

“Meazza, per il quale tutti erano discreti ma troppo lenti (l’è brao ma lento, diceva). Al mondo esistevano solo Meazza e pochi altri: fra questi pochi, l’ungherese Giorgio Sarosi, un mediano tedesco a nome Kupfer e il mio caro maestro Baloncieri.”

Fra i più belli d’Italia

Questa, proprio dal “coccodrillo” (genere che gli piaceva frequentare) di Adolfo Baloncieri da Castelceriolo, la ricopio così come la scrisse, con gran vanità ma senza altro aggiungere:

“Gli alessandrini sono gli australiani dell’antica Lombardia: i leghisti lombardi hanno fondato Alessandria nel 1161 per contenere il Conte di Biandrate, fedele suddito del Barbarossa: a popolare Alessandria erano stati mandati galeotti e puttane (cioè le donne più desiderabili): non per altro gli alessandrini sono fra i più belli d’Italia.”

 

Vino, pallino e bocce d’amore

Perfino una serata trascorsa ai Campionati mondiali di bocce, subito definito insieme al canottaggio lo sport più congeniale agli italiani, consente a Brera di legare il racconto della sua terra amatissima con la reinvenzione della storia delle discipline sportive:

“Il gioco è diventato sport quando gli uomini hanno deciso di ripeterlo a piacimento secondo regole precise. Questo processo evolutivo è alla base della civiltà umana e senza dubbio ha influito sullo sviluppo e la formazione di individui che pure stentavano a nutrirsi in modo e misura superiore a quelli dei cani bracchi.” 

Ed ecco la Bassa, la terra nei pressi del Po in cui si cresceva, fino alla generazione di suo padre, con poco niente. “In questa vezzosa Arcadia di denutriti ereditari i giovani crescevano bradi, esercitandosi nei ludi più naturali e antiqui: il nuoto, la sghiaroeula (dallo scandinavo skien), la corsa e – raffinato fra tutti i giochi rustici – le bocce.”

 

Ti sia lieve la terra

Gianni Brera scriveva pure splendidi “coccodrilli” (genere letterario che qui si adora), celeberrimo quello per Giuseppe (Pipinoeu) Viola: “batteva con impegno la carta in osteria e delirava per un cavallo modicamente impostato nella corsa; tirava il mezzo litro e improvvisava battute che sovente esprimevano il sale della vita… La sua romantica incontinenza era di una patetica follia.”

Occasione per lui di confronto con la mortalità. Così, in ricordo di Fulvio Bernardini:Gli eroi non dovrebbero mai sopravvivere a se stessi: e facevano benissimo gli antichi a toglierli di mezzo, raccontando puntualmente che erano stati rapiti in cielo.” 

“Invecchiava anche lui, come un mortale qualsiasi, e questo gli doveva dispiacere moltissimo.” (nel ricordo di Baloncieri).

Li chiudeva sempre con quelle cinque parole, traduzione del latino Sit tibi terra levis, talvolta aggiungendo un riconoscimento dei propri umani limiti: “Senza pregare, perché proprio non so, invoco che la terra ti sia lieve.”

 

Come ignobili rape

Gli umani limiti di Brera, e il suo rapporto con la mortalità, mai furono espressi meglio dell’articolo che scrisse quando, inopinatamente, esplose lo shuttle Challenger. Un pezzo che a rileggerlo oggi dà, una volta di più la misura del suo esser grande scrittore, altro che!

“La solita innata viltà – scrisse in quella occasione – giungeva a farmi rimpiangere di non esserci stato anch’io. La morte aveva fulmineamente ghermito gli astronauti non infliggendo loro la minima sofferenza: una fiammata, un’esplosione, un dissolversi di tutti alle soglie del cosmo presuntuosamente sognato: l’esaltazione li aveva a lungo illusi, convincendoli di essere tanto più bravi e belli di noi: tuttavia, nessun rimpianto era loro consentito dalla consapevolezza di perdere la vita. Era quella una fortuna che francamente si poteva invidiare, e infatti il filisteo l’ha invidiata con puntuale insolenza… I sette che sono periti per raggiungere un’orbita celeste avevano espressamente voluto esplorare il cosmo: è quindi facile e giusto ipotizzare che i nobili elementi dai quali erano composti torneranno più rapidi e puri dei nostri nelle sfere sublimi del caos. Noi marciremo sotterra, come ignobili rape dimenticate dall’ortolano. Se questo vi piace, allegri. A me non piace.”

I tanti Senzabrera

L’espressione è di Gianni Mura, il solo giornalista ad avere avuto in dono dalla famiglia una delle quattro macchine da scrivere (Lettera 22 o 32) che Brera usò fino all’ultimo articolo, le tre altre destinate a musei.

“Gioannbrerafucarlo se n’è andato, sulla strada tra Maleo e Casalpusterlengo” una sera di dicembre del 1992 ammazzato insieme ai suoi due compagni di viaggio da uno che ha preso ai centosessanta una curva stretta, che già a farla a cento chilometri all’ora in meno si rischiava di sbandare.

Proprio Mura, che tutti considerano il suo unico erede, scrisse il più toccante coccodrillo del collega, maestro e amico.

Sei morto come avresti sperato, ammesso che si possa sperare di morire, il come se non il quando… hai evitato l’orrida vecchiezza, dicevi tu, l’infermità, il bussare insistente della signora dai denti verdi… Se mi ammalo farò come il cinghiale solengo, che si apparta e non vuole vedere più nessuno, dicevi.”

Un ricordo, dovuto. Per i tanti Senzabrera come me.