24 a Mezzanotte. Storie Italiane dell’Orrore [ALlibri]

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A cura di Angelo Marenzana

 

Una ricca pattuglia di autori della nostra provincia (composta da il sottoscritto, da il maestro Danilo Arona, Antonella Ferraris, Giuseppe Maresca e dall’acquese Roberto Grenna) ha contribuito con i propri racconti alla realizzazione dell’antologia 24 a Mezzanotte edita da Officina Milena e curata da Giuseppe Maresca e Luca Raimondi, registi indiscussi di una raccolta di racconti horror d’ambientazione italiana, ognuno illustrato dalla china di Fabio Lastrucci.

Vecchi cinema infestati, terrificanti nottate di Halloween, vampiri del passato con tutto il loro carico di fascino e morte, antichi sortilegi, strani riti africani, demoniache vendette, una droga che trasforma in zombi cannibali, sinistri B&B del profondo sud e inquietanti FAQ aziendali. Questi gli ingredienti al sangue di “24 a mezzanotte”, un’antologia dove vecchie e nuove tematiche horror si incrociano e si rinnovano tra presente e passato, tra realtà e leggenda, tra sole e tenebre.

Oltre ai già citati autori, sono presenti anche racconti di Stefano Amato, Corrado Artale, Vincenzo Barone Lumaga, Andrea Carlo Cappi, Fabio Celoni, Maurizio Cometto, Antonio Ferrara, Pietro Gandolfi, Andrea Guglielmino, Nicola Lombardi, Angelo Orlando Meloni, Gianluca Morozzi, Massimo Padua, Barbara Panetta, Biagio Proietti, Lea Valti, Daniele Zito.

 

 

La proposta in lettura è il racconto Tenebre dalla Cittadella di Roberto Grenna

 

Esistono creature particolari, chiamate vampiri. Qualcuno di noi ha prove della loro esistenza.

Nonostante noi non abbiamo assoluta certezza riguardo alla nostra triste esperienza, gli insegnamenti e le testimonianze del passato sono prova sufficiente per persone con occhi ben aperti.

Dracula, Bram Stoker

 

Prologo

Cittadella di Alessandria, 30 ottobre 2018, ore 14.07.

 

«Avanti con quell’alianto, voi due! Non possiamo mica rimanere qui fino a domani!»

La voce della guardia carceraria stava spronando Michele, detto Mike, e Giacomo, detto Jack, a portare a termine il loro lavoro con quella maledetta pianta infestante.

Minava le fondamenta di quel monumento militare da troppi anni. Da qualche tempo, finalmente, si stava provvedendo a una pulizia accurata della zona, grazie ai detenuti del carcere di San Michele.

Non ladruncoli e truffatori. Assassini, stupratori. Collusi. Pentiti. Gente con un passato di violenza e un futuro sancito spesso dal “fine pena mai”.

«Ahia! Cazzo! Mi sono aperto il palmo della mano contro questo mattone rotto!» esclamò Mike.

Jack, cinque metri alla sua sinistra, lo raggiunse per vedere cosa si fosse fatto: «Agente! Mike s’è fatto male di brutto! Sanguina tantissimo!»

La guardia, la stessa che li aveva apostrofati pochi secondi prima, si avvicinò loro: «Scendete, così vediamo cosa fare. Chiamo il collega» disse, mettendo mano alla radio e comunicando al collega più vicino di raggiungerlo.

Fecero sedere Mike a terra, schiena contro la parete della controguardia, mano sinistra tenuta dalla destra e grondante sangue, che gocciolava proprio ai piedi dei mattoni.

Giunto il secondo agente (i “ragazzi”, come li chiamavano loro, non erano tipi da far scherzi, ma era meglio non fidarsi) e constatata la profondità del taglio, sospesero i lavori, dirigendosi verso la porta reale, l’accesso dalla parte del ponte Meyer.

A terra, parecchio sangue. Proprio in prossimità di una fessura tra la terra e i mattoni del muro. Accostando l’orecchio, si sarebbe potuto ascoltare il ticchettio sordo delle gocce su qualcosa di simile al terreno. Comunque, di assorbente.

«Andiamo, sta già arrivando l’ambulanza per medicarti e portarti alla clinica del carcere.»

 

***

 

Cittadella di Alessandria, 30 ottobre 2018, ore 22.43.

 

Dalla fessura all’interno della quale era colato il sangue del detenuto poche ore prima, ora pareva arrivare un soffio d’aria gelida, ben più fredda rispetto a quella che si poteva percepire lì intorno.

D’improvviso, nel silenzio rotto solo dal fruscio delle piante, un grido acuto, quasi come il verso di uno tra i tanti animali della notte, squarciò il buio. Dalla controguardia della mezzaluna di santa Barbara, un’ombra si allontanò velocemente.

 

***

 

All’alba di quel trentun ottobre, il centralino del centododici ricevette una telefonata molto strana.

«Centododici, dica pure.»

«Sì, ecco, credo di aver trovato un morto.»

«Un morto? Dove si trova?»

«Sono in via Lumelli, circa a metà. C’è un corpo sdraiato a terra. Non si muove.»

«Vede il viso?»

«No, è coricato sulla pancia. Non ho avuto il coraggio di toccarlo e non mi chieda di farlo!»

«Non si preoccupi. Mando subito qualcuno! Lei come si chiama?»

Dall’altra parte, più nessuna risposta.

La pattuglia arrivò in meno di cinque minuti. Era proprio lì, a pochi metri dalla porta della succursale dello Scientifico. Immobile. Rigido. I due carabinieri, prendendo tutte le precauzioni del caso, si avvicinarono per girarlo.

«Oh, Cristo!» esclamò quello che vide per primo il viso.

«Cazzo! Ma cosa gli è successo?»

Sconvolti, si allontanarono dalla vittima, circoscrissero il perimetro, di fatto chiudendo la via all’accesso di auto e pedoni, iniziando i rilievi lì intorno in attesa dell’arrivo del magistrato di turno e del medico legale, che non tardarono più di una decina di minuti.

Il corpo fu caricato velocemente sul furgone mortuario e portato all’obitorio. Negli occhi di chi aveva visto quel povero sventurato, un terrore ancestrale.

Steso sul tavolaccio della sala autopsie, il corpo si presentava come quello di una persona colpita dalla peggior forma di anoressia mai esistita. Il viso, che tanto aveva turbato chi l’aveva visto, presentava due incavi di pelle e carne al posto delle guance, una pelle ruvida come la cartapecora, gli zigomi e i bulbi oculari molto prominenti, le palpebre aperte e gli occhi rovesciati all’indietro.

Il medico iniziò l’esame autoptico, sia pure con un certo disagio: «La vittima è un uomo. A un’analisi di tipo visuale, il corpo si presenta come mummificato, caratteristica difficilmente compatibile con il luogo del ritrovamento. Il viso si presenta integro e non vi sono segni di urti o di violenza. Scendendo, sul collo sono visibili due piccole ferite circolari, del diametro di circa tre millimetri.»

L’uomo sbiancò e sospese la registrazione. Si sedette su uno degli sgabelli, fissando il vuoto.

Al comando di piazza Vittorio Veneto, rientrati i carabinieri che avevano ricevuto la chiamata e i colleghi giunti a dar loro manforte, il maresciallo incaricato delle indagini stava raccogliendo il materiale rinvenuto sul luogo del ritrovamento, oltre alle foto scattate dai suoi ragazzi e i verbali che stavano terminando di redigere.

«Giulio Secchi, trentacinque anni, corso Virginia Marini. Avete già avvisato la famiglia?»

«Siamo andati sul luogo di residenza ma in casa non c’era nessuno. Stiamo cercando informazioni sui genitori e su eventuali fratelli e sorelle» rispose l’appuntato.

«Informatemi su quello che trovate» disse il maresciallo, cominciando a lavorare sulle fotografie scattate.

«Mamma mia! Avevate ragione! Il suo viso è semplicemente terribile! A parte il fatto che somiglia a un vecchio di duecento anni appena estratto da un sarcofago egizio, sembra che gli sia stata risucchiata la vita dal corpo. Ma siamo sicuri che i documenti siano proprio i suoi?»

«La sicurezza ce la potrà dare solo il medico legale. L’unico riscontro che abbiamo a farci propendere per il sì è il colore dei capelli: quel tipo di rosso non è così diffuso.»

Il maresciallo unì i palmi delle mani, appoggiando il naso sugli indici, lo sguardo fisso sul monitor del suo computer.

«Maresciallo?»

Fu come risvegliarsi da un cattivo pensiero: «Cosa c’è, brigadiere?»

«Hanno trovato un altro corpo, in via Galvani. Ci sono due uomini, ma purtroppo c’era già molta gente intorno. Adesso sono stati allontanati, ma temo che la scena del ritrovamento sia stata pesantemente contaminata.»

«Va bene, va bene, grazie. Quando rientrano i colleghi, me li mandi.»

«Certo!»

Salutò e uscì dall’ufficio. Il maresciallo riprese l’analisi delle foto, continuando a domandarsi come fosse possibile un simile scempio.

«Maresciallo Balbi!»

«Comandi, tenente!»

«C’è qui il procuratore aggiunto Gelsi che vuole parlare con lei. Siamo già intesi che quello che le dirà lui potrà considerarlo come un mio ordine, d’accordo?»

«Certo, tenente! Procuratore!» disse, scattando sull’attenti per salutare l’ospite.

«Buon giorno, maresciallo. Finalmente ci incrociamo di nuovo per un’indagine. Le spiego subito in che casini stiamo navigando» fu l’esordio del dottor Gelsi, mentre spostava una poltrona per affiancarsi al maresciallo Balbi.

«Mi dica. Come mai parla di casini?»

«Vada su Facebook e cerchi questo profilo.»

Gli porse un foglietto di carta con un nominativo.

«Eccolo. Cosa vuole che… Oh, Cristo!»

«Ecco, appunto. E non è il solo ad aver postato foto di quel genere. Stanno proliferando in maniera esponenziale e stanno creando un clima di psicosi collettiva. D’altro canto, lo sanno tutti: quello che dice la rete è sicuramente vero!»

«Vedo che qui sotto parla del ritorno di un vampiro. Ma stiamo scherzando?»

«Questo dovrete scoprirlo voi. Io so soltanto che questa sera le strade saranno piene dapprima di bambini che giocheranno a dolcetto o scherzetto, poi di persone di qualsiasi età perlopiù in maschera che si concederanno una serata di trasgressione. Con due morti in una notte, mi dica come possiamo stare tranquilli.»

«Certo, capisco. Faccio subito convocare questo… Angelo Bellingeri. Sperando che non sia il solito pazzo mitomane!»

«Grazie, maresciallo! Mi tenga informato!» disse mentre si alzava per andarsene.

 

Una minaccia che arriva da lontano.

Angelo Bellingeri, trent’anni, fisico minuto, fece il suo ingresso al comando accompagnato da un carabiniere in borghese, il viso disteso, il passo sicuro di chi non ha nulla da temere. Salì ai piani superiori utilizzando l’ascensore e in pochi istanti fu nell’ufficio di Balbi.

«Si accomodi, Bellingeri. Sono il maresciallo Balbi, ci siamo sentiti al telefono. Grazie per essere arrivato subito.»

«Ci mancherebbe! Mi dica come possa io esserle utile.»

«Arrivo subito al dunque. Ho visto, sul suo profilo Facebook, un paio di foto di un cadavere che è stato rinvenuto stamattina, con una didascalia abbastanza inquietante: “Il vampiro di Gagliaudo è tornato!”. A cosa si riferisce, mi scusi?»

Bellingeri prese fiato e cominciò: «Maresciallo, so che mi prenderà per pazzo, ma non lo sono. Io discendo da una antica famiglia di questa zona, di un mio antenato si hanno notizie fin dal 1172, e ho raccolto le storie che si tramandano dalla nascita della città a oggi. Di alcune ho scritti dell’epoca che conservo e custodisco gelosamente in una cassaforte che ho a casa; di altre, invece, ho il ricordo tramandato, nello specifico, da mio nonno.»

Fece una pausa, poi riprese: «La storia del vampiro di Gagliaudo risale proprio alle origini di Alessandria. O, meglio, alla famosa battaglia contro il Barbarossa, che si protrasse dal 29 ottobre 1174 al 12 aprile 1175 e che fu vinta, per voce popolare, grazie all’ingegno di Gagliaudo Aulari e all’inganno della mucca. Beh, subito dopo l’arrivo delle truppe imperiali si ebbe notizia di strani accadimenti e di paurose uccisioni, che colpirono in maniera indiscriminata i contadini della Fraschetta e i soldati del Barbarossa. In una illustrazione dell’epoca è raffigurato il viso di uno degli uccisi, un giovane soldato, che sembrerebbe mummificato. Io dico sempre che mi ricorda il famoso quadro di Munch, “L’urlo”. In un altro scritto, del quale ho solo alcuni frammenti, si parla chiaramente di una creatura soprannaturale in grado di compiere balzi prodigiosi (addirittura si parla della capacità di volare) e con una forza straordinaria, che percorreva le campagne attorno al Bormida nottetempo in cerca di prede. A dire il vero, le prime segnalazioni sono ancora antecedenti l’assedio e parlano di, cito a memoria, “morie di animali cui viene risucchiata l’anima” verificatesi a seguito della caduta di un corpo dal cielo che “causò un enorme boato, prima di distruggersi in mille pezzi”.»

Si interruppe nuovamente: «Potrei avere un po’ d’acqua, per cortesia?»

Balbi, allibito dal racconto che stava ascoltando, fece cenno a un appuntato di provvedere. Dopo meno di un minuto, arrivò con una bottiglietta di acqua naturale e una di acqua gasata.

«Grazie» disse prima di bere un’abbondante metà della seconda.

Balbi, ritrovata la parola, abbozzò: «Dunque, lei mi sta dicendo che nel periodo nel quale Alessandria vedeva la luce per come la conosciamo oggi, in questa zona agiva un vampiro piovuto dal cielo? Siamo a Halloween, non a Carnevale!»

«Non lo dico io. Lo dicono i documenti che la mia famiglia tramanda da secoli e che io ho accettato da mio nonno, perché mio padre non ne volle sapere, e che consegnerò ai miei figli, quando ne avrò.»

«Sono basito, ma continui.»

«Sì, stavo dicendo delle prime notizie riguardo a questo vampiro. Inutile dire che la popolazione dell’epoca, molto superstiziosa, non conoscendo i motivi di quelle morti provvedeva a bruciare i corpi degli animali e delle persone che venivano ritrovate in quelle condizioni. Con il senno di poi, questo li ha salvati, forse, da una pandemia, considerando che l’esercito del Barbarossa avrebbe ancora girato mezza Europa.»

«Pandemia? Ma di cosa sta parlando?»

«Del fatto che il morso del vampiro vampirizzi la vittima e che questa, nel volgere di qualche giorno, incubi il vampirismo e rinasca a nuova vita. Ma non li ha mai visti i film dell’orrore? Bruciare un vampiro è, forse, l’unico modo quasi sicuro di non ritrovarselo più davanti. Anche il famoso paletto di frassino nel cuore non è poi così certo, perché basta veramente poco a farlo rivivere. Bruciarlo e spargerne le ceneri laddove non si possano più riaggregare, invece, dovrebbe lasciare più tranquilli.»

«Guardi, non le nascondo che mi sento abbastanza preso per i fondelli, ma vada avanti, perché ancora non ho capito cosa c’entri questo coso, questo vampiro, con i due omicidi dei quali stiamo parlando» disse Balbi con un filo di voce, lasciandosi cadere sullo schienale della sedia.

«Stia certo: non la sto prendendo in giro e, se mi darà ascolto, forse potremo trovare l’assassino in breve tempo. Non le racconto tutto quanto successo nel corso dei secoli, perché si tratta, semplicemente, di scorribande per il cibo, molto spesso nella boscaglia fuori dalla città, a volte lato Bormida, a volte lato Tanaro, o anche nelle zone più periferiche, come San Michele o, dall’altra parte, quello che adesso è il quartiere Cristo. Questo, più o meno, fino al 1700, anno più, anno meno. In quel periodo, nel quale Alessandria passò ai Savoia e la popolazione crebbe fino a circa quindicimila unità, vi sono notizie di attacchi sempre più frequenti e ripetuti all’interno delle mura cittadine, sempre di notte, prevalentemente ai danni di delinquenti e donne di malaffare. Fino a qui, anche le indagini della guardia del Governatore non andavano tanto più a fondo, considerando la tipologia delle vittime. Nel 1733, proprio mentre si stava lavorando alla costruzione della Cittadella, si verificò un delitto che cambiò radicalmente le priorità delle guardie. La giovane figlia di un notabile, arrivato in città su espresso ordine dei Savoia, fu assassinata al tramonto in una via centrale e lasciata a terra come prosciugata di quanto avesse in corpo. Risulta evidente come quel delitto fosse qualcosa di sconvolgente per la popolazione, anche per la giovane età della vittima, appena quindici anni. Il padre, intimo amico del Governatore, ebbe dalla sua tutte le forze armate delle quali la città disponeva per le indagini del caso, mentre il corpo della povera ragazza, coperto di un luminoso lenzuolo di lino bianco, giacque per tre giorni e tre notti nel suo letto, per la veglia funebre. Al termine della terza notte, il padre stava predisponendo con i becchini il funerale, con la cassa appena arrivata e pronta ad accogliere le ormai misere membra della sua figliola, quando notò un movimento sotto il lenzuolo. Spaventato, ma in cuor suo felice, si avvicinò al letto e lo sollevò. Ciò che vide lo lasciò pazzo per il resto della sua vita: la piccola era trasfigurata, gli occhi, lattiginosi in centro e iniettati di sangue ai lati, spalancati. Dalla bocca, tremende e paurose, due zanne facevano capolino. L’uomo urlò con quanto fiato aveva in corpo, mentre la giovane, animata da chissà quale spirito malvagio, stava facendo leva con le braccia per alzarsi dal suo giaciglio. Uno dei becchini, quello con più sangue freddo, uscì rapidamente a chiamare le guardie che erano di ronda intorno alla casa. Quando rientrò insieme a loro, lo spettacolo che vide fu terribile: il padre della giovane, gli occhi sbarrati, riverso sotto il letto. Uno dei suoi colleghi, un omone di quasi cento chili, a terra con il sangue che gli usciva a fiotti dalla gola. L’altro, ghermito dalla ragazza, stava subendo in quel momento lo stesso trattamento. Quando li vide entrare, quella creatura che ormai non aveva più nulla di umano, lanciò qualcosa di molto simile a un urlo, spalancando la bocca in maniera innaturale e lanciandosi verso di loro. Uno dei due, armato di un moderno, per allora, moschetto con pietra focaia, le sparò un colpo in faccia. La ragazza cadde a terra, come fulminata. Le sue braccia, però, non smettevano di muoversi, così come le sue gambe. Si alzò da terra, mentre la guardia stava ricaricando, con il viso sfigurato dalla pioggia di pallini che l’aveva colpita. Ma era in piedi. E stava avanzando verso di loro. Senza mettersi d’accordo, si diedero alla fuga. Tutti insieme fino alla porta, poi ciascuno in una direzione differente. Il sole non era ancora sorto e questo rendeva tutto più difficile.»

Balbi ascoltava immobile, lo sguardo sempre più incredulo. Bellingeri prese fiato, terminò la bottiglietta d’acqua frizzante che aveva iniziato poc’anzi e proseguì: «Mentre quell’essere inseguiva una delle due guardie, l’altra riuscì ad andare a chiamare rinforzi. Giunsero in trenta, armati fino ai denti. Si misero sulle tracce del loro collega, che era fuggito verso il Tanaro, sulle sponde del quale c’era ancora, allora, una fitta vegetazione. Mancava poco all’alba quando lo ritrovarono. O, meglio, ne ritrovarono il corpo. Completamente devastato, pieno di morsi e sangue ovunque, il volto irriconoscibile. Proseguirono, compatti per la paura che li attanagliava, verso la boscaglia. D’un tratto, alcuni fruscii in rapida successione. I cinque che portavano le lampade a olio si fecero coraggio e avanzarono, disponendosi a semicerchio. Altri fruscii, altro avanzamento di qualche metro. Poi, da dietro un grande tronco, con un balzo di parecchi metri, la ragazza aggredì il primo dei portalampade, buttandolo a terra. L’uomo, sorpreso, ma sicuramente non intenzionato a farsi uccidere, intraprese una lotta con chi l’aveva aggredito. Non riuscendo a togliersi di dosso quel mostro, con un rapido movimento della mano recuperò la lampada e lo colpì al volto con violenza inaudita, stordendolo e facendolo cadere a terra. I compagni, dietro di lui, inizialmente attoniti e incapaci d’intervenire, si avvicinarono e lo aiutarono a rialzarsi, contuso, ma vivo. La creatura, nel frattempo, si stava riavendo dal colpo. Due guardie si avvicinarono e le spararono in faccia e in pieno petto. Cadde, ma non morì. Anzi, stava tentando di rialzarsi per aggredirli un’altra volta. Proprio l’uomo che aveva lottato con lei e che dirà ai compagni che il suo alito era “l’alito della morte”, ebbe quello che si potrebbe considerare un colpo di genio. Si avvicinò a quella che un tempo era una splendida adolescente, aprì la lampada a olio e gliene versò il contenuto sui vestiti e sul viso, appiccando poi il fuoco. I suoni che provennero dalla sua bocca furono agghiaccianti. Nonostante fosse avvolto dalle fiamme, l’essere si alzò e cominciò a correre verso il fitto del bosco, seguito dall’intera squadra di guardie. Non aveva ancora percorso trenta metri quando, al suo fianco, praticamente dal nulla, apparve un’altra creatura, che agli uomini del Governatore parve una persona. L’uomo, dall’età indefinibile, si frappose tra la fuggitiva e gli inseguitori, avanzando verso di loro con passo deciso. Gli fu intimato di spostarsi, ma parve non ascoltarli. Quando fu a una distanza di pochi metri, d’improvviso, la trasformazione del suo viso: occhi neri, mandibola e mascella che si aprivano a formare una voragine all’interno della quale spiccavano quattro zanne lunghissime. Le dita, affusolate e molto lunghe, con unghie di pari lunghezza. Dalla sua gola, suoni molto simili a quelli emessi poco prima dall’altra creatura. Si arrestarono di colpo, anche perché durante quella trasformazione il loro avversario gli si era scagliato contro. A nulla valevano i colpi di moschetto, sparati a più riprese: uccisero prima un uomo, ruotandogli con forza la testa, poi un altro, piantandogli i lunghi artigli nel ventre ed estraendone parte delle viscere. Mentre i pallini di piombo continuavano a colpirlo, senza che una sola goccia di sangue uscisse dal suo corpo, due giovani armati di picca lo aggredirono alle spalle, piantando le loro armi nella schiena, uno all’altezza del rene destro, l’altro a pochi centimetri dal cuore. Il mostro sembrò desistere un momento dall’aggressione che stava costando la vita a un terzo soldato, così che i due provvidero a estrarre le due picche, con l’intento di colpirlo di nuovo. Appena tolte le due armi, l’aggressione ricominciò con violenza inaudita, coinvolgendo anche uno dei due giovani, scaraventato a parecchi metri di distanza. Mentre si stava avvicinando al secondo, questi lo passò da parte a parte con la sua piccola lancia, facendolo cadere a terra, per la prima volta da che era cominciata quella battaglia così cruenta. Ora, vi è da sapere che le picche, a quei tempi, avevano punte affilatissime in ferro, ma manico e asta in legno duro, per renderle più maneggevoli. In maniera assolutamente inconsapevole, il ragazzo lo aveva trafitto con il famoso “paletto conficcato nel cuore”, del quale tanto parlano le leggende sui vampiri.»

Aprì la seconda bottiglietta d’acqua e ne bevve un terzo circa. Balbi, fino a quel momento muto, squadrandolo dalla testa ai piedi, ruppe il proprio silenzio: «Cioè, lei mi sta dicendo che nel millesettecento e qualcosa, tra Bormida e Tanaro, c’erano i vampiri?»

Bellingeri non si scompose per il tono scettico del maresciallo, anzi. Riprese con la stessa naturalezza con la quale aveva raccontato quella che, al suo interlocutore, sembrava la trama di un horror anni Settanta: «Non solo nel Settecento. Come le ho detto prima, c’erano, anzi c’era, già dalla seconda metà del XII secolo. Solo che divenne evidente e pericoloso solo allora, avendo toccato chi non doveva toccare. Ma la storia non è finita qui!»

«A questo punto, vada avanti!»

«Il corpo di guardia che aveva affrontato le due creature condusse il cadavere del vampiro in città, dove s’era radunata una folla curiosa e terrorizzata al tempo stesso. Quando arrivarono e mostrarono loro il corpo, i vecchi, quelli delle famiglie storiche di Alessandria (i Marenco, i Bagliano, molto modestamente, anche i Bellingeri) esultarono come se fosse stata vinta una guerra. Fu uno di loro a suggerire di realizzare una pira in piazza per cremarlo, così che non potesse più nuocere a nessuno. Così fu fatto, in tempi brevissimi, e le ceneri furono conservate all’interno di un’anfora da olio, che ho scoperto, facendo ricerche accurate, essere stata sepolta in una cripta sotto la controguardia della mezzaluna di Santa Barbara, nella Cittadella ancora in costruzione. E lì sarebbe dovuto rimanere in eterno.»

«E, mi scusi, come avrebbe fatto a “risorgere”, dato che era cenere?»

«Questo, in senso assoluto, non posso saperlo. Ho un paio di ipotesi, ma credo sia opportuno rimandare questa parte a un momento successivo alla ricerca del nostro vampiro. Le chiedo solamente di andare a verificare nel punto che le ho indicato, perché sono convinto che lì abbia il suo nido.»

 

***

 

Era passato da poco mezzogiorno quando il maresciallo Balbi, Bellingeri, quattro carabinieri e tre operai muniti di pala e piccone arrivarono in prossimità della controguardia incriminata. Fecero un breve giro d’ispezione intorno alla base, identificando almeno quattro fessurazioni, di grandezza variabile, alla base della stessa.

Balbi diede ordine di scavare in prossimità della più grande delle quattro, attraverso la quale sarebbe potuto passare un piccione.

Mano a mano che lo scavo procedeva, si apriva sotto i loro occhi una finestra realizzata all’interno del fondamento in mattoni pieni. All’interno si vedevano tre fendenti di luce provenire dalle altre fessure. L’apertura, invece, rimaneva dalla parte in ombra del muro, non lasciando entrare alcun raggio di sole.

Ultimato lo scavo e portata alla luce la finestra nella sua interezza, il maresciallo illuminò la nicchia con una torcia. Si vedeva chiaramente un’anfora, di quelle una volta utilizzate per l’olio, spaccata di netto a metà. A fianco dei cocci, inginocchiata in una posizione innaturale, una figura, a prima vista d’un uomo, il viso infilato in una buca.

Dall’interno arrivava un vento ghiacciato, accompagnato da un odore acre di morte.

«Ragazzi, qui c’è un corpo. Scendiamo a vedere» disse Balbi.

I quattro che erano con lui scesero con molta circospezione in quella che si poteva definire una cripta. A causa dello scarso sviluppo verticale, erano costretti in posizione accucciata.

All’improvviso, fulmineo, un movimento del corpo che fino a quel momento era sembrato inanimato. Uno dei quattro, senza emettere un grido, cadde a terra, su un fianco, il petto squarciato da quattro fendenti, una bava mista di saliva e sangue che gli usciva dalla bocca. I suoi colleghi, dopo un attimo di smarrimento, estrassero le pistole d’ordinanza, mentre Balbi, da fuori, urlava, con la voce tremante: «Uscite! Uscite! Veloci, dai! Uscite!»

Il più vicino all’apertura uscì senza problemi, seguito un paio di secondi dopo dal suo collega più vicino. Il terzo, posizionato più indietro, offrì la mano al commilitone per farsi tirare su. All’improvviso, il carabiniere che lo stava aiutando si piegò bruscamente e in modo innaturale verso quel maledetto buco, tiratovi dal suo amico e collega, che fece in tempo a dire: «Qualcosa mi sta tirando giù! Aiutooooo!» per poi tacere. Balbi illuminò un’altra volta l’interno. I corpi dei due ragazzi erano distesi a terra, in un lago di sangue, in preda a qualcosa di simile a convulsioni che faceva muovere i loro arti e le loro teste in maniera innaturale. Di quello che avevano visto all’inizio non c’era traccia. Per lo meno, non era più nel punto in cui lo avevano visto.

Fece roteare la luce. Niente. Non c’era. Sparito.

«Ma dove cazzo è finito?» sbottò il maresciallo. Poi, rivolgendosi ai suoi uomini: «Voi come state?»

Evidentemente scossi, fecero un cenno assertivo con la testa. Bellingeri, intanto, fissava l’ingresso dell’antro. «Attentoooo!» urlò con voce roca all’indirizzo di Balbi. Il militare fece appena in tempo a ritrarsi, buttandosi di lato e rotolando a terra, mentre una mano, resa terrificante da lunghissimi artigli appuntiti e affilati, usciva con uno scatto fulmineo dal buio di quel buco.

«Mi ha salvato la vita! Grazie!» disse l’uomo, rialzandosi e puntando la torcia verso la creatura. Sgranò gli occhi dal terrore: un viso lungo, trasfigurato, con una bocca enorme, canini aguzzi, occhi senza alcuna luce e colorito olivastro lo fissò per un momento, per poi arretrare bruscamente, infastidito dalla torcia.

«Chiamate altri uomini, presto! E almeno due ambulanze! Dobbiamo cercare di recuperare Razzi e Marchetti e, magari, evitare di farci ammazzare da questo mostro!» urlò. Mise mano alla pistola, più per spirito di conservazione che perché convinto che potesse essergli utile, e aumentò l’intensità della torcia a led, allargandone il raggio d’azione per poter illuminare da una distanza maggiore: «Dove sei, maledetto figlio di puttana? Vieni fuori, che ti sistemo io!»

Bellingeri, avvicinandosi a lui, gli parlò quasi sottovoce: «Non uscirà mai in pieno giorno, questo è sicuro. Credo che rimarrà lì fino a quando il sole non sarà tramontato, quindi un po’ di tempo lo abbiamo. Dobbiamo stare molto attenti a non entrare nel suo raggio d’azione, perché può ucciderci con un gesto!»

«Quindi, secondo lei, cosa dobbiamo fare?»

«Sicuramente, attendiamo i rinforzi senza distogliere l’attenzione dalla finestra, sulla quale lascerei puntata la torcia. Se non le spiace, poi, chiamerei un mio amico che potrebbe esserci utile.»

«Chiami pure chi vuole, io continuo a tenerlo sotto tiro. O, almeno, a puntare la pistola e la torcia lì!»

Si allontanò con il cellulare in mano, per tornare a distanza di un minuto: «Meno di dieci minuti e sarà qui.»

Balbi non sembrò ascoltarlo, impegnato com’era a cercare di scorgere i suoi due uomini feriti. Mentre muoveva la torcia lungo il perimetro dell’apertura, vide nuovamente una mano di quell’essere, che fu ritratta verso il buio con un movimento più che repentino.

Il tempo sembrava non trascorrere. In capo a dieci minuti vi fu l’arrivo in massa dei rinforzi, delle ambulanze e dell’amico di Bellingeri.

«Ciao, Giorgio!»

«Ciao, Angelo!» rispose l’uomo.

«Maresciallo, le presento il mio amico fraterno: don Giorgio.»

Balbi lo guardò, gli strinse la mano e lo salutò, ormai rassegnato a ogni tipo di sorpresa.

«Giorgio ha portato un paio di cose che potrebbero esserci utili, secondo la storia e le leggende sui vampiri: croce e acqua santa.»

«La situazione è troppo rischiosa. Non posso farlo avvicinare! Credo sia meglio che li dia a me e che mi avvicini io.»

Il sacerdote seguì le indicazioni del maresciallo e gli consegnò l’acquasantiera e il crocifisso. Balbi passò la torcia a uno dei suoi colleghi, indicandogli dove illuminare, poi si avvicinò con cautela. Dai movimenti che aveva visto in precedenza e dal fatto che sul pavimento della nicchia fossero presenti solo i suoi due uomini, dedusse che quella cosa dovesse essere in qualche modo appesa alla parete superiore. Quando fu a mezzo metro dall’ingresso, si fermò e immerse l’aspersorio nell’acqua santa, per poi andare a spruzzare verso quella direzione. Una. Due. Cinque volte. Nessun movimento. Nessun suono. Nulla. Quiete assoluta. Fece qualche passo indietro, rivolgendosi a Bellingeri: «Cos’è che avrebbe dovuto fare, di preciso, l’acqua santa?»

Non fece a tempo a ultimare la frase, che una specie di palla da cannone con sembianze umanoidi schizzò fuori dal suo antro e lo aggredì quasi alle spalle.

Con una prontezza di riflessi fuori dal normale, uno dei due carabinieri che erano arrivati per primi sul posto estrasse la pistola e sparò in direzione della creatura. Questa non emise un gemito, ma frenò la sua aggressione, forse per il contraccolpo. Fu l’esitazione di un attimo, perché riprese ad avvinghiarsi al maresciallo che, abbandonata l’acquasantiera, stava tentando di recuperare la pistola. Don Giorgio, dopo un primo momento di smarrimento, ebbe un’idea “illuminante”: puntare la luce in faccia a quell’essere, come già pochi minuti prima aveva fatto Balbi. La reazione del mostro fu immediata: mollò la presa e si coprì gli occhi con le mani.

Il maresciallo, libero, mise mano all’arma e gli scaricò il caricatore addosso. Anche gli altri suoi colleghi fecero lo stesso, mentre Bellingeri recuperava la bottiglietta che aveva portato con sé quand’era uscito di casa. Tolse il tappo e ne cosparse il contenuto sul vampiro, tramortito dai molti colpi subiti, ma ancora vivo. Poi, con una serenità che stonava con la concitazione del momento, accese un fiammifero e glielo gettò addosso. Il corpo prese immediatamente fuoco e l’ambiente si saturò delle urla inumane di quella creatura che, per la seconda volta nella sua esistenza, provava quella sensazione. Un fumo nerissimo e un acre odore si sparsero in tutto lo spiazzo, mentre il fuoco faceva il suo dovere. I militi della Croce Rossa, nel frattempo, estrassero i due carabinieri dalla buca. Occhi rovesciati, respiro nullo, battito assente, sangue ovunque: li caricarono, comunque, sulle ambulanze, per portarli all’ospedale.

Balbi, scosso dalla vista dei corpi dei suoi ragazzi, si avvicinò a Bellingeri e a don Giorgio: «Vi ringrazio. Mi avete salvato entrambi la vita. E a lei, Bellingeri, devo delle scuse: quando si è presentato da me e mentre mi raccontava quell’arzigogolata storia, nella mia testa, le davo del matto. Ma non lo è affatto. Da oggi, la sua famiglia ha una storia in più da tramandare, su questa città.»

Poi, rivolto a uno dei suoi uomini, ordinò: «Scalise, per favore, chiami il medico legale e gli dica che gli stiamo portando dei resti da analizzare.»

«Comandi!» disse l’uomo, prendendo il telefono e componendo il numero dell’obitorio.

Dall’altra parte, un telefono che squillava, il corpo del medico legale, ridotto a un cencio, a terra, il tavolo delle autopsie vuoto.