Chernobyl, Alessandria [Il Superstite 436]

ATO6: "Crisi idrica, i cittadini siano più parsimoniosi con l'acqua" CorriereAl 1di Danilo Arona

 

 

Quando avvenne il disastro di Chernobyl, mi trovavo a Firenze con Fabiana e altri amici per un week end turistico “mordi e fuggi”, di quelli che allora ci potevamo ancora concedere approfittando di qualche fortunata combinazione di date favorevoli. Nello specifico, cadendo il 25 aprile di venerdì, non dico che fosse d’obbligo beneficiare del cosiddetto “ponte”, ma insomma, si lavorava tutto l’anno e noi eravamo giovani e, per quanto con la testa sul collo, spensierati al minimo sindacale. E comunque erano gli anni Ottanta, quando la vita lanciava segnali diversi da quelli contemporanei. Si respiravano ottimismo e progettualità. Soprattutto vedevi il futuro e lo potevi in minima parte modellare. Certo, a 36 anni ti permetti questo e altro.

Per un paio di giorni del disastro non se ne seppe nulla. Poi, rientrati in Alessandria, cominciarono a diffondersi in maniera a dir poco timida le notizie sull’incidente. Le fonti ufficiali sovietiche parlavano di due morti come conseguenza diretta, ma la censura imposta e applicata mi parve ancor più eloquente. Quando partì la nube radioattiva sospinta dai venti verso l’Europa del nord e il settentrione dell’Italia, la percezione collettiva in Alessandria  dell’evento fu di (insano) scetticismo padano. In tanti non ci credevano, altri speravano, parecchi se ne fregavano, complici anche la scarsità di concreti dati scientifici e le iniziali reazioni delle fonti ufficiali tesero a minimizzare il possibile impatto della nube sul territorio italiano.

Però l’impatto non era possibile, bensì garantito. Per di più nel fine settimana del 3-4 maggio, era prevista pioggia copiosa, determinante per appesantire e aggravare la ricaduta al suolo degli elementi radioattivi. La sera del 3 maggio, sabato, chiudemmo come sempre il negozio alle 19,30. Ci recavamo a casa di amici perché, tanto per non smentire la dimensione festaiola del decennio, avremmo partecipato a una cena numericamente significativa in un ristorante alle Cabanette. Sottolineo la quantità dei presenti perché per la maggior parte erano medici, tutti amici e /o conoscenti. L’unico “eretico” a tavola sarei stato io.

Peccato che una volta per  strada Fabiana e io scoprimmo che non avevamo un ombrello e neppure un cappello. Pioveva in modo fitto e lo stile del rovescio pareva autunnale e per niente primaverile. La strada da fare a piedi non era molta ma neppure poca. Insomma, eravamo destinati a bagnarci e pure consapevoli, giornali e TV lo avevano anticipato, che ci stava piovendo addosso  la merda radioattiva. Io lanciai al cielo la più classica delle scemenze: «Per i capelli ho già dato.»

Una volta a tavola, la cena si rivelò un autentico sollazzo. Gli amici dottori si lanciarono per tutto il tempo sulle ipotesi statistiche degli incrementi tumorali, con tanto di tipologie dei morbi, con cui si sarebbero dovuti fare i conti negli anni a venire. Confesso che la sensazione principale fu che loro, credo per dirette comunicazioni del Ministero della Sanità, ne sapessero ben di più di noi comuni mortali.

Che la situazione fosse alquanto più grave di quella che ci volevano raccontare lo si capì negli immediati giorni successivi quando diverse conferenze stampa di organismi non ufficiali ma non smentibili resero noto che in Italia e nel territorio piemontese si documentava una preoccupante presenza al suolo di radionuclidi. Le autorità vietarono perciò il consumo degli alimenti a rischio come latte e insalata, ma crollarono anche le vendite di uova e miele. In negozio riscontrammo un’impennata di vendite di alghe in tutte le forme perché il vegetale marino contiene l’acido alginico che ha proprietà chelanti, soprattutto per le sostanze radioattive e tossiche in genere. Noi le consigliammo a tutto spiano e molti ci diedero retta. Magari abbiamo salvato qualche vita; di certo ne ha salvate decine e decine  nel 1945 il dottor Akizuki, direttore del San Francesco Hospital di Nagasaki, che dopo la tremenda deflagrazione atomica in quella città trattò i suoi pazienti con un’alimentazione e base di alghe e riso integrale.

In verità volevo scrivere qualche riga sul miniserial Chernobyl dei Craig Mazin e Johan Renck, passato per Sky Atlantic a inizio mese, che è un fottuto capolavoro di cinque puntate e che dovreste recuperare, se ancora non l’avete visto. Ma il ricordo di quel decennio, tutt’altro che sfumato, ha prevalso. E con nostalgia. Perché in Alessandria, nel 1986, ci stavano un florilegio di altre belle storie: il John’s Pub in via Milazzo, King Willy e i Cattivoni, la prima edizione di Un brivido sulla Schiena del Drago e un Capodanno al Palomar di Valenza da regalare alla storia. E, con il senno del poi, anche le parole di una vecchia canzone dei Nomadi: È già troppo tardi ormai, sta piovendo sai, una pioggia d’atomi, per questo dobbiamo cercare un riparo per noi. Profetica. Magari strizzandosi un po’ le pudende…