La classifica del novembre 1965 – Il bar in piazza Mentana 2 [Il Superstite 434]

ATO6: "Crisi idrica, i cittadini siano più parsimoniosi con l'acqua" CorriereAl 1di Danilo Arona

 

Nel 1965 sul percorso da casa mia, via Stephenson, al Bar Nene, piazza Mentana, transitavo davanti all’edicola, ubicata sempre nella stessa piazza e ancora lì oggi. Una volta, era di pomeriggio e autunno avanzato, acquistai una copia di BIG, sottotitolo “Il settimanale giovane”, che m’interessava per l’ampio spazio che dedicava alla musica dei gruppi, quella che allora andava alla grande anche sotto il nome di musica “beat”.

La lettura al bar di qualsiasi foglio non era mai una faccenda in solitaria. Per di più BIG era un “formato rivista” e quel numero, il 23, recava in copertina il bellissimo volto dell’allora ventenne Catherine Spaak, cantante e attrice sulla cresta dell’onda con molti titoli importanti all’attivo sul grande schermo e geniali operazioni commerciali in campo musicale come le versioni italiche dei pezzi di Françoise Hardy, idolo dei teenager francesi, in patria battezzati “les copains”. Insomma, impossibile sfogliarlo in santa pace. Ordinata una consumazione al tavolo, già contavo sul fianco sinistro John (Giovanni) Rastelli, appassionato di musica quanto me e, credo, lo Smilzo su quello destro. Seduti di lato come angeli custodi. Il coro in piedi si sarebbe formato nel giro di pochi minuti.

(Perdonate i dubitativi, ma più di mezzo secolo mette alle corde una memoria sublime come la mia…)

Superata la copertina con un paio di commenti opportuni («Grande sgnacchera», «Sì, ma poche tette»), iniziai a sfogliare restando subito colpito dalla tipologia pubblicitaria dei 45 giri in uscita e sulla concordanza degli slogan, ovvero “finalmente li puoi ascoltare in italiano”. Nello specifico si lanciavano Good-Bye My Love dei Rokketti, Tu devi ritornare da me dei Delfini e La casa del Signore di Bobby Solo. Ovvero, cover, perché quello era l’andazzo detestabile degli italiani dell’epoca: la prima dell’omonimo pezzo dei Searchers, la seconda niente meno che Tell Me dei Rolling Stones e la terza del lentazzo liturgico di Elvis Presley in fase gospel. Comunque su un dato eravamo tutti d’accordo e qualcuno lo spiattellò ad alta voce: «In italiano fan cagare!». Concordavo; quella forma di autarchia mi stava assai sulle palle e poi molti non pagavano una cippa di diritti d’autore, facendosi belli con l’ingegno altrui.

Lavorato ai fianchi e pure alle spalle, fui invitato a sfogliare in fretta. Perché, già lo sentivo, la classifica dei 45 giri più venduti sembrava la pagina più ambita dal pubblico che si andava infoltendo. Sorpassai senza purtroppo soffermarmi quanto dovuto sui Beatles divenuti baronetti (perché, con le vendite dei loro dischi, avevano sanato il deficit della bilancia dei pagamenti britannica – ma che tempi…), sul film di Rita Pavone con i Rokes diretto da Piero Vivarelli, ancora la Spaak e  Jane Fonda che stava girando Cat Ballou, il matador El Cordobés che non c’entrava un piffero, la biografia di Bobby Solo dal ventre materno a Una lacrima sul viso.

E finalmente la classifica. Ci fu un “Porca puzzola” da qualche parte perché al primo posto si vedeva (ancora!) Gianni Morandi con Si fa sera. Ma al secondo incalzavano i Beatles con Help con nostro immane godimento. E via via tutte le altre, specchio di quell’epoca: Dalida, Celentano, Adamo, Jimmy Fontana. Ma grande e inaspettato sussulto al 6° posto; i Byrds con Mr. Tambourine Man, uno dei più enigmatici e visionari testi scritti da Bob Dylan. L’ottimo piazzamento fece commentare a John: «Bene, c’è speranza per l’umanità!», soddisfazione reciproca che trovò ulteriori conferme nel 10° posto di Satisfaction degli Stones e nel 13° di C’è una strana espressione nei tuoi occhi dei Rokes, altra cover peraltro ancora dei Searchers, When You Walk in the Room. Al 14° si scatenò proprio una discussione al riguardo tra le opposte fazioni: gli antichi contro i nuovi, gli italioti contro gli esterofili, quelli in piedi che ci sovrastavano contro noi seduti. Il perno della disputa era il pezzo intitolato La casa del sole, sacrilega versione dei Marcellos Ferial della celeberrima The House of the Rising Sun, canzone folk statunitense di artista anonimo che era stata lanciata poco tempo prima dagli Animals, un testo duro ambientato in un bordello per un giro ossessivo di chitarra e organo Hammond che nell’adattamento dei tipi di Sei diventata nera era divenuta una sciapa canzone d’amore. «Almeno si capiscono le parole!» urlò dalle retrovie Fantasmatik, un cliente anziano con asma che fumava come un turco. «Sì, queste canzoni in inglese non si capiscono!», «Dovrebbero proibirle!», «Capelloni zozzoni!» e, insomma, bastava poco per scatenare la furia degli attempati perbenisti. John Rastelli trovò la chiave per sedare gli animi: «Guardate che al primo posto c’è ancora Morandi e Dalida è terza. L’Italia vince sempre!».

Allora proseguii oltre, così si poteva uscire dalla modalità rissosa, e qualche pagina più in là, dopo un articolo dedicato alla convalescenza di Piero Focaccia, Big proponeva una serie di foto vagamente piccanti dell’attrice Rossella Como impegnata nella commedia Hanno rapito il Presidente, in cui la ragazza sosteneva il ruolo di una spogliarellista di professione. E le foto in questione proprio di questo “parlavano”. Al punto che la musica che la musica, la classifica e i Beatles finirono in men che non si dica in un provvisorio dimenticatoio.

Al che tutti al banco. Chi con aperitivo, chi con caffè, chi con sambuca. Io con due palle di vaniglia. Avevo 15 anni, a quello potevo ambire. E la vaniglia di Nene era uno spettacolo.