Gabe la coraggiosa e un’onda di speranza [Lettera 32]

di Beppe Giuliano

 

Di lei avevo scritto l’anno scorso, qui su Lettera 32.

Non per il risultato sportivo. Per l’impresa fatta.

Era arrivata ultima in un 1500 metri, corso però con la febbre altissima, nella settimana di pausa della terapia. L’aveva infatti corso quasi dieci anni dopo la prima diagnosi di un cancro tanto raro quanto bastardo, manifestatosi nel 2009 quando aveva 22 anni, e ripresentatosi diverse volte, in forme sempre peggiori.

Avevo visto le sue foto in pista, con quella cicatrice grandissima, segno di una delle operazioni chirurgiche quando il cancro era di nuovo tornato, e stavolta aveva colpito il fegato.

Avevo iniziato a seguirla sull’Instagram, a leggere delle sue terapie ma anche del suo impegno, che l’ha portata a essere un’ispirazione per moltissime persone che stanno combattendo il cancro. A stupirmi del suo sorriso, in tutte quelle foto in cui ci guardava, sempre.

Non le piaceva più il modo in cui sorrideva, perché uno degli interventi le aveva paralizzato un lato della faccia, ma neanche questo l’aveva fatta smettere di sorridere.

E niente la faceva smettere di correre, di lottare, di vivere.

Niente sembrava in grado di farla smettere.

Gabe, Gabriele Runewald, era una atleta molto forte nel mezzofondo.

Pochi giorni fa, alla fine il bastardo cancro l’ha spuntata.

Le ultime sue giornate le raccontano con emozione le storie pubblicate da suo marito, Justin, anche il suo migliore amico. Quel “not today” di risposta a lui che le diceva che stava per morire (e infatti non è morta quel giorno) è solo l’ultima aggiunta a una storia di coraggio incredibile.

Gabe ce la raccontano le fotografie che condivide sua sorella Abigail, le fotografie di due ragazze poco più che trentenni, spesso felici e sorridenti. Nonostante tutto.

Soprattutto ce la raccontano le tantissime testimonianze che, da tutto il mondo, dicono forte che quella vita unica, spietata e coraggiosissima che lei ha dovuto vivere non la dimenticheremo presto, e lascerà molto (pure in concreto, perché la sua fondazione per la ricerca sulle forme rare di cancro sta raccogliendo molti soldi: tante vite verranno salvate grazie a Gabe).

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Sono una giovane col cancro, ha detto in un’intervista nel 2017. Non sempre mi fa piacere parlarne. Non è la sceneggiatura di una serie TV. È la realtà. È spaventosa.
In un’altra intervista, con la cicatrice in mostra, guardava la macchina da presa e diceva: Sono Gabriele Grunewald, ho 31 anni, “and I am beautiful”.

Aveva scelto di raccontarsi, il più possibile, con la stessa combattività per cui era nota alle sue avversarie, che sapevano bene quanto fosse difficile resisterle nell’ultimo giro dei 1500 metri.

“Trascinando anche noi al suo fianco nella sua battaglia” scrive in modo toccante su Sports Illustrated Tim Layden, che l’aveva seguita due anni fa mentre gareggiava durante la chemio, e che sperava di raccontare il suo tentativo di qualificarsi per le Olimpiadi del prossimo anno: “Sapete che non avrò mai occasione di scrivere quella storia. Probabilmente ero sciocco a sperarlo, ma dipende dal modo in cui Gabe influenzava le persone, persino i giornalisti cinici che riescono a trovare il buio in un giorno di sole… C’è una cosa che dovete capire: Gabe ha speso gli ultimi anni della sua vita
lottando, vivendola, correndo, ispirando gli altri, sapendo bene che non avrebbe vinto la sua battaglia, e comunque combattendo lo stesso con ancora più forza. Questo va oltre il coraggio. La maggior parte di noi ogni giorno rifiuta la propria mortalità. Lei l’aveva sempre accanto, e l’ha presa a pugni fino a quando non ha più nemmeno avuto la forza di alzare le braccia.”

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Ho cercato tutte le notizie, le immagini, i video di Gabe sull’internet. Ho guardato non so quante volte le storie sull’Instagram, le tante storie su di lei. Ho cercato di leggere quanto hanno scritto, ho letto gli articoli, i commenti di altri atleti, quelli delle persone comuni come me che non la conoscevano se non mediaticamente, ma che stanno partecipando al dolore come succede con un familiare, o quando muore un John Lennon.

Ho pensato all’hashtag che la ha accompagnata, e che non smetterà di farlo ora che lei ha dovuto alla fine arrendersi: #bravelikeGabe (Brave Like Gabe, coraggiosa come Gabe è anche il nome della sua fondazione).

Impossibile esserlo, coraggiose come Gabe. Ha scritto una brava giornalista (che è anche mia amica): “basterebbe il suo coraggio diviso tra tutti noi, per andare avanti dignitosamente”.

Mi sono anche chiesto se tutta questa attenzione da parte mia non sia ossessiva, morbosa, confesso.

Ho visto però che l’attenzione è di tantissimi, e sempre crescente. Allora ho capito che quello che Gabe sta ancora facendo, per usare le parole del più bello (e famoso) discorso di Bobby, che conosciamo appunto come “ripple of hope”, è diffondere “un’onda di speranza”.