Trappola per volpi [Il Superstite 427]

di Danilo Arona

 

È noto che l’ultima edizione del Salone del Libro di Torino è stata caratterizzata da una vivace discussione collettiva sulla forma e la sostanza del termine “fascismo” con conseguenze che hanno portato all’allontanamento di una casa editrice specializzata in saggistica di destra. Senza la minima intenzione di entrare nel dibattito, sono qui a notare che, come più o meno cinquant’anni fa all’epoca della “strategia della tensione”, si usa da una parte e dall’altra un termine desueto, “antico” (derivante dal Manifesto dei Fasci Italiani di Combattimento) per designare fenomenologie e movimenti contemporanei che di certo sono anche e soprattutto “altro”. D’accordo sulla metafora, sull’eredità storica, sulle contiguità con il passato, ci sta tutto. Ma credo – e con me suppongo lo creda anche l’amico Angelo Marenzana, autore de Il delitto del fascista Nuvola Nera – che, per entrare nel cuore del problema, occorra  interrogare gli anziani “superstiti” che hanno vissuto il ventennio. Sono le prime, e più importanti, testimonianze che contano.

Sì, la prendo alla lontana. Perché in verità, ancora una volta, la rubrica si occupa di un libro. Ma l’attacco è quanto mai pertinente. E, se posso, nelle mie corde. Perché Fabrizio Silei, scrittore e sociologo, “usa” in modo straordinariamente brillante il genere per raccontare e “spiegare” il fascismo in Italia nel 1936. Sopra il titolo Trappola per volpi appare infatti la parola “Giallo”, giusto a onorare l’editoriale preoccupazione tutta italica di incasellare il tema in un’etichetta riconoscibile e di ottimale consumo. E di sicuro Trappola per volpi di Silei un giallo lo è: arguto, per due terzi anche divertito, a suo modo spiazzante. Gli ingredienti identificativi ci sono tutti: un omicidio misterioso e all’apparenza rituale, una coppia di investigatori molto atipica, un città “nera” e splendida sullo sfondo (Firenze), l’atmosfera da “Grande Fratello” di regime in cui si muovono i protagonisti. E lo stile è un capolavoro di equilibrio e di sintesi: come dicevo divertito soprattutto nelle iniziali “presentazioni” dei personaggi, alludente e calibrato nella parte centrale e virante al drammatico man mano si procede verso la soluzione finale.

Per quanto non si debba “spoilerare”, qualcosa si può raccontare a proposito dell’appassionante meccanismo narrativo ordito da Silei. L’omicidio, torbido e inquietante: il cadavere di una donna, non di certo una popolana, che viene ritrovato vicino a un vespasiano ai margini del fiume Arno. La coppia di detective chiamata a dipanare il mistero: l’incaricato ufficiale, il giovane vicecommissario Vitaliano Draghi, affiancato dal “consigliori” ufficioso, il contadino Pietro Bensi, lavorante nella fattoria del Chianti dove il primo è cresciuto. Un nugolo di brillanti comprimari che forniscono alla trama un eccellente “coro” mai di contorno strumentale ma ognuno con una sua specificità narrativa: il prefetto, il senatore, l’impareggiabile agente scelto Petruzzelli che strappa più di una risata, la felliniana Ernestina agghindata come un orto primaverile, la splendida e fiorente Nausica di cui Vitaliano è, non troppo segretamente, innamorato. Il fascismo del 1936 ne esce nei suoi aspetti più grotteschi, laddove a ogni incontro anche casuale tra maschi gagliardi scatta in avanti il braccio destro al suon di “eia eia alalà” (motto autarchico coniato da Gabriele D’annunzio per sostituire il barbaro yankee “hip hip urrah”, in realtà un plagio inelegante giocato a Giovanni Pascoli) e ogni occasione pubblica è il festival della più vuota retorica; ma va pur sottolineato che l’autore, da par suo, non si limita al bozzettismo, regalando il giusto spazio a realistiche fotografie quali la seguente a pag. 225:  «… il fascismo era tenuto su dall’indifferenza e la rassegnazione dei bottegai, proprietari terrieri, industriali, nobilotti e borghesi, ai quali quello stato di cose, in fondo, faceva comodo.»

La virata drammatica si conclude con una logica stringente che sta nelle pieghe della narrazione con il vile omicidio dei fratelli Rosselli, uccisi in Francia nel 1937 da formazioni locali di estrema destra su mandato dei servizi segreti fascisti d’Italia e di Galeazzo Ciano. A ricordarci che, dietro il folclore e la spacconata, ci stanno violenza e morte, cifre abiette di ogni totalitarismo.

Trappola di volpe è un libro che si divora. Lo apprezzerete come “giallo” perché la sua struttura, addirittura frazionata in due tempi con più di un falso finale che ribalta le apparenti soluzioni, è geniale e opportunamente fuorviante. Ne gusterete gli intermezzi comici e i sapidi dialoghi “toscani”, in molti passaggi riportati proprio come si pronunciano. Ne ammirerete la profondità sociologica e l’analisi storica, mai banale e puntuale, che ti proietta visivamente in un’epoca non così lontana e, per colpa della politica in corso, anche sin troppo vicina.

La notizia splendida con cui possiamo concludere questa nostra breve disamina è che Vitaliano Draghi e Pietro Bensi torneranno in libreria perché abbiamo avuto tra le mani la prima tappa di un prodotto seriale. Sperando che nella prossima avventura il timido Vitaliano, infallibile investigatore quanto impacciato amatore dell’altra metà del cielo, trovi finalmente il coraggio di aprire come si conviene il suo cuore alla ribelle, bellissima Nausica.

Ah, da ottimo giallo, il colpevole per i lettori è proprio difficile da scoprire. E una frase da estrapolare pronunciata nel 1936 ma che può funzionare con le dovute modifiche per tutte le epoche è la seguente:

«Peggio per te se non hai ancora capito che di questi tempi non va avanti chi è più bravo, ma chi è più fascista!»

Capita, vero, l’antifona?