Il terrore e lo sguardo [Il Superstite 422]

ATO6: "Crisi idrica, i cittadini siano più parsimoniosi con l'acqua" CorriereAl 1di Danilo Arona

 

Mercoledì 17 aprile alle ore 20, 45, presso l’Associazione Cultura & Sviluppo di Alessandria, piazza De André 76, il Circolo del Cinema Adelio Ferrero presenta, a dieci anni dalla scomparsa, una serata speciale dedicata al grande saggista e critico cinematografico FRANCO LA POLLA in collaborazione con il Festival Adelio Ferrero e Cinema e Critica 2019. Una serata di riflessioni e interventi con Steve Della Casa, Susanna La Polla De Giovanni, Roberto Lasagna, Alberto Morsiani, Edoardo Rosati e il sottoscritto. L’intenzione da parte mia è di esporre alcuni concetti a partire da questo suo scritto, pubblicato negli anni Settanta su Cinema & Cinema, che resta di una modernità sconcertante e del quale vi offro alcuni stralci.

 

 

                                                                 Il terrore e lo sguardo

di Franco La Polla

 

 

Ho paura. Ho fatto un brutto sogno.
I sogni non possono farti male.
(R. Altman, Tre donne)

 

Superando informazioni storiche, necessità di filologica completezza (a qualcuno in Italia poco care), di sistemazioni e classificazioni esteriori, e superando soprattutto giustificati complessi di inferiorità i quali rischiano soltanto di relegare nel limbo dell’ignoranza ciò che non è immediatamente valutabile in usurata moneta corrente né quotabile nella fantomatica e dittatoriale Borsa Valori istituita da un potere culturale nefasto quasi quanto l’altro, la domanda è: perché il cinema orrifico? (e aggiungiamo qui una volta per tutte che useremo indifferentemente i termini “orrifico” e “terrifico” che una corretta critica vorrebbe però diversificati).
È una domanda pericolosa. Davanti a essa è probabile cadere nei luoghi comuni di una facile psicologia, di una psicoanalisi d’accatto, di una critica parailluministica arricchita da una banale componente dialettica. Quante volte ci siamo sentiti dire che in un’età razionalistica e tecnologica il soprannaturale è una “reazione psicologica”; quante volte ci siamo sentiti dire che il soprannaturale è una componente universale ed eterna mossa da un “horror vacui da un’imperitura sete di conoscenza che ha il suo bel daffare a spiegare se stessa in un mondo che ha ancora tanti segreti; quante volte ci siamo sentiti dire che “il “terrificante” attrae perché fa paura: rimuove le antiche angosce dell’infanzia (…), per ricercarne le tracce nell’inconscio adulto”. Questa, oltre a essere cattiva psicoanalisi da convenzione, è anche pericolosa propaganda dell’insensatezza.

Ma allora, qual è il discorso dell’/sull’orrore? Intanto, non si può prescindere da componenti di natura storico-culturale. Il soprannaturale, nei termini in cui ancora oggi lo fruiamo, è una conseguenza di una radicata tradizione di paura che il potere ha coltivato e instillato per secoli. Per secoli infatti le istituzioni hanno predicato, magari addirittura involontariamente, che il terrore è il potere, quando invece esso ne è semplicemente stato l’arma. Nel regno di Dio tutto è armonioso, sereno; il desiderio coincide con l’atto, il principio di piacere con quello di realtà. Il tuono che scuote l’Eden è la prima nota stonata e paurosa nel coro delle sfere angeliche. Non il Serpente fa paura, ma le conseguenze dell’atto che quegli ha suggerito. Il Serpente è soltanto la concretizzazione figurale di un fantasma della deiezione, dell’essente che diventa tragicamente esistente. Voci tonanti, spade fiammeggianti, minacce titaniche: la paura è entrata nella vita dell’uomo. Uno scarto si instaura nel mondo e di conseguenza nella psiche. Il diavolo naturalmente non è quello che oleograficamente dipingeva una ancor giovane tradizione gotica: è suadente, gradevole, spesso bello e affascinante (ricordate la Biondetta di Le diable amoureux di Cazotte?) e del resto regolarmente identificato col piacere. Dunque il piacere è paura, la perdita — pur momentanea — del senso, della coscienza del proprio scarto in un atto assoluto è già condanna e sofferenza, è già terrore. Il piacere è desiderio, e il desiderio — lo sappiamo bene — contrasta con l’irreggimentazione sociale, con la produttività, con l’obbedienza. Il potere ha inventato il terrore. Ma per farlo non può sottrarsi a una contraddizione. Il disprezzo del corpo e della carne che esso predica trova un contraltare nell’esaltazione dello spirito: chi pecca soffrirà nello spirito.

La “corporalizzazione” delle istanze del piacere, dunque, diviene norma statutaria al fine di esigerne la repressione. Audacemente dialettica, l’etica cristiana scopre all’interno del suo sistema l’autonomia del corpo, ma anche la sua necessità ai propri fini. Come infatti rendere la grandezza, la profondità della sofferenza spirituale? Come tradurre il corrispettivo oppositivo del piacere nel registro dello spirituale, decisamente inutilizzabile a una salutare esemplificazione? Attraverso un correlativo oggettivo corporale. Le fiamme dell’inferno — assolutamente metafisiche — diventano fiamme che bruciano la carne fra inauditi tormenti fisici. Il corpo e la corporalità hanno vinto: scacciati, per così dire, dalla porta, rientrano dalla finestra, si statutizzano come sistema ineliminabile di riferimento. E, quindi, il terrore è necessariamente terrore del male concreto, della pena corporale, secondo un vero e proprio contrappasso dantesco.

Che questa organizzazione della paura abbia tali radici è approvato da più esempi la cui anomalia è la miglior prova della regola. Prendiamo un mito (soprattutto cinematografico) come quello di Dracula. Le leggende sui vampiri si perdono nella notte dei tempi (ne ritroviamo tracce anche in scrittori precristiani), eppure una delle migliori salvaguardie contro di essi è la croce, l’invocazione a Dio e in genere a tutto l’arsenale sacramentale e giaculatorio del cristianesimo.

Il conto non torna. Gli è che il sincretismo cristiano ha operato non solo nel senso di un assorbimento ai suoi termini di tradizioni religiose o anche superstiziose precedenti (ad esempio, la partenogenesi, ben nota ai culti orientali, o il giorno di Natale che coincide con quello precedentemente istituito del Sol Natalis Invictus, che Eliogabalo mutuò dall’Oriente e introdusse a Roma), ma si è anche inserito come scudo delle tradizioni che non ha saputo assorbire al suo sistema. Non si vuole con questo affermare che il concetto di paura fosse ignorato al mondo precristiano; solo, esso si organizzava su terreni e in termini evidentemente diversi. Una cosa comunque sia l’un mondo che l’altro avevano in comune: la paura come conseguenza di un’offesa al potere. E un concetto di potere che vede in ogni caso i suoi riferimenti ultimi nel divino. La “hybris” greca sarà anche diversa dal peccato cristiano nelle forme, ma non nella sostanza (dopotutto quello di Adamo ed Eva non fu un peccato di “hybris”. L’offesa a Dio è sempre e comunque, all’origine, un peccato di orgoglio, dai nostri progenitori a Faust.

Dracula sarebbe così un’ulteriore incarnazione del dotto tedesco (o viceversa), filtrata iconograficamente e moralmente attraverso le lenti deformanti dell’ottica cristiana, salvo restando il concetto antropologico di natura cannibalistico-rituale dell’appropriazione della vita e della forza dell’altro attraverso il suo sangue/carne. E in tale mito il corporale si sposa allo spirituale proprio attraverso la mediazione dell’etica cristiana. A questo punto si concretizza la dimensione erotica di tale rapporto: l’appropriazione è sempre metafora sessuale, un po’ come la monetizzazione simbolizza un processo erotico. Se quindi la rivoluzione segna l’esplosione del significante reale nel mondo del Capitale, allo stesso modo l’appropriazione del corpo dell’altro diviene affioramento del flusso desiderante liberato, perdendo così ogni connotazione di diversità, eccezionalità, paura, poiché la condizione del terrore è la negazione, il divieto.

Ma nel quadro comune di cui sopra il terrore dove alberga? (…) Negli inferi come all’inferno, sullo schermo come sulla pagina, il terrore sta altrove. “Hybris” o peccato, la paura che ne consegue si fonda su un’altra ragione (nei due sensi del termine), quella profondissima che muove ogni terrore, sia esso dovuto alla trasgressione della legge religiosa (forma finale di ben altre repressioni), sia esso dovuto — se possibile — alla pura casualità.

Il terrore è lo sguardo. La paura è la coscienza di essere guardati.